Cerca nel blog

domenica 14 marzo 2021

Tredesin de Mars

Milano è universalmente conosciuta come la città della moda, nonché come la capitale economica d’Italia. Se poi entra in gioco l’eterna diatriba paganesimo vs cristianesimo, allora non può non venire in mente lo scontro fra Sant’Ambrogio, il famoso vescovo meneghino, e Simmaco per l’altare della vittoria. Ma la storia non finisce qui, tutt’altro. Poco prima dell’equinozio esiste una festività chiamata tredesin de Mars, ossia il 13 marzo. Stando alla leggenda (cristiana), il 13 marzo del 51 Barnaba aveva provveduto a introdurre nel capoluogo meneghino la nuova religione, tuttavia nello stesso ancora convivevano due precedenti tradizioni, e cioè quella celtica e quella romana. Erano stati rivali militarmente, però nel caso religioso è possibile notare un certo sincretismo, dato che il tempio di Minerva sorgeva nel sito sacro a Belisama.

Ma come è stata introdotta la nuova religione? Barnaba aveva diplomaticamente (sic) interrotto una celebrazione e aveva conficcato una croce al centro di una pietra che recava una raggiera di 13 linee, oggetto del preesistente culto celtico. Tanto per cambiare, questa non è di certo una testimonianza di pace, amore ed integrazione, bensì di volontà di eliminazione del precedente sostrato per imporre qualcosa di avulso, alla faccia di chi lo considera un elemento identitario e italico al 100%.

Si può anche notare l’importanza del numero 13, non solo a livello di datazione ma anche per i già detti raggi. Ma 13 sono le stelle della costellazione della Vergine, che si può vedere ampiamente in cielo in questo periodo dell’anno. La stella più importante si chiama Spica e prende ispirazione dalla spiga di grano che lei tiene in mano. Anche qui si può notare la sovrapposizione di un archetipo nuovo a discapito di quello vecchio, dal momento che quella che ora è la Vergine prima era identificata con Astarte, Demetra, Minerva ma soprattutto Persefone. La costellazione appare a febbraio e resta fino all’autunno, rimarcando il momento in cui Persefone usciva dall’Ade per portare la vita in terra. 

Articolo di Giulia Re


P.S. Si ringrazia la pagina “Fuochi nella nebbia” per le informazioni bibliografiche.

sabato 13 marzo 2021

Il segreto del Bosco Vecchio - Completo (file .pdf)

Condividiamo con i nostri lettori l'articolo completo su Il segreto del Bosco Vecchio. Per accedervi basta cliccare sul seguente link:

https://drive.google.com/file/d/1sGVfZk56kajshiPbjDt1mIYwfA-qM619/view?usp=sharing 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte III

Il successo di quest’opera così come pure di tutti gli altri scritti del Buzzati non fu certo immediato:
 

Buzzati scrive le sue opere di maggior successo nel periodo in cui si esplica con maggior entusiasmo l’attività dell’avanguardia conosciuta come Gruppo 63. Ispirandosi alle avanguardie di inizio secolo, il Gruppo 63 si richiamava alle idee del marxismo e allo strutturalismo. Fu dunque inevitabile che Buzzati finisse sotto gli strali dei suoi esponenti.
Lo scrittore risultava essere stato iscritto al Partito Fascista, come molti intellettuali della sua generazione, ma a differenza di altri non aveva mai fatto pubblica abiura di quella sua appartenenza. Inoltre, era indubbio il fascino che provava per il mito, declinato in diverse forme: la guerra (specialmente quella navale), la montagna, il soprannaturale, le grandi personalità del suo tempo.
[...]
E questa è la ragione per cui i romanzi antimodernisti scritti da autori classificati di sinistra (come Bianciardi e Mastronardi) sono stati osannati, mentre intorno a Buzzati si è creata una vera e propria coltre. Ancora oggi, si può leggere online l’intervento redatto da Marcello Carlino nel 1988, in cui afferma: «Un amore esprime appieno i cedimenti dello scrittore ai miti e alle mode e insomma al mercato della letteratura: correva l’anno 1963, quando, mentre pullulavano i primi best sellers, veniva allo scoperto la feroce contestazione della neoavanguardia. […] L’intreccio è ancora di quelli ben oliati e a forte tenuta ed esibisce, con uno strisciante e remunerativo moralismo, tutti gli ingredienti di una narrativa di consumo: una storia d’amore spesso pruriginosa e piccante, un personaggio femminile – Laide – che è l’erotica Lolita di turno, gelosie sempre gradite al lettore e una montante febbre di vita che brucia e ringiovanisce l’architetto Dorigo» (M. Carlino, Buzzati Traverso, Dino, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 34, Istituto Treccani, Roma 1988) All’autore viene successivamente rimproverato: «La caduta del fascismo, la sconfitta militare e la Resistenza provocarono un acuto senso di disagio nel Buzzati. L’Italia toccava il fondo della crisi; venivano spazzati di colpo e cadevano come un castello di carte le idealità e i miti, quello militare soprattutto, che tanto avevano fatto breccia nel narratore» (M. Carlino, Buzzati Traverso, Dino, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, cit.).
Il valore antimodernista, ancorché sottotraccia, viene passato sotto silenzio. [...]


- E. Rulli, Bietti, «Dino Buzzati, l’antimodernista. Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018» [In rete] http:// www.bietti.it/riviste/dino-buzzati-nostro-fantastico-quotidiano/dino-buzzati-lantimodernista/ (12 Marzo 2021).


Da Il segreto del Bosco Vecchio il regista Ermanno Olmi trasse la sceneggiatura dell’omonimo film, realizzato molti anni dopo la morte dell’autore del racconto. Lo sceneggiato dell’Olmi si distacca in molti punti da quanto tracciato da Dino Buzzati nella sua opera e, secondo mia personale considerazione, avrebbe non poco deluso quest’ultimo se questi avesse potuto guardarlo.
I meriti della fattuale, seppur distorta, bellezza del film non sono certo d’attribuire al suddetto regista bensì all’opera stessa del Buzzati e alla recitazione di Paolo Villaggio nel ruolo del colonnello Procolo. Il segreto del Bosco Vecchio viene ridotto nello sceneggiato di Ermanno Olmi a banale operetta sugli errori dei grandi che dimenticano l’essenza della fanciullezza e, come è consuetudine del suddetto regista, a satira sprezzante di tutto ciò che afferisce all’ambito militare.
Ecco che, nella scena rappresentante la cerimonia del passaggio di consegne al nuovo colonnello del comando del reggimento, si può vedere un Paolo Villaggio pulirsi il volto con la bandiera nell’atto di salutare la stessa [3], oppure, nella marcia d’addio del reggimento al morente colonnello Procolo, uomini curvi e mesti dai movimenti impacciati. Infine manca del tutto la parte in cui Benvenuto accompagna il morente vento Matteo verso il suo ultimo viaggio.

 

Note:

[3]     Cosa che mai il colonnello Procolo avrebbe fatto. Buzzati descrive così l’avvenimento:

Quando egli diede le dimissioni dall’esercito, i soldati del suo reggimento trassero un sospirone, poiché difficilmente si poteva immaginare un comandante più rigido e meticoloso. L’ultima volta ch’egli varcò, uscendo, il portone della caserma, lo schieramento della guardia ebbe luogo con speciale celerità e precisione, come da alcuni anni non avveniva; il trombettiere, che pure era il migliore del reggimento, superò veramente se stesso con tre squilli di attenti che divennero proverbiali, per il loro splendore, in tutto il presidio. E il colonnello, con un leggero inarcamento delle labbra che poteva sembrare un sorriso, mostrò d’interpretare come segno di commosso ossequio quella che in sostanza era una manifestazione di intimo giubilo per la sua partenza.

- D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 3, 4. 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte II

Ecco che - seppur in sordina rispetto ad altri suoi romanzi - il Leitmotiv della modernità come forza che, tramite il progresso della tecnica, devasta l’essenza preesistente, arcana e metafisica delle cose, viene qui riproposto dall’autore bellunese.
In seguito ad alterne vicende, una fra tante la liberazione del folle e possente vento Matteo operata dal colonnello Procolo, quest’ultimo giunge a patti con il Bernardi, portavoce delle istanze dei genî di Bosco Vecchio e loro più giovane elemento, per salvare la vita del nipote Benvenuto a cui si era con il passare del tempo tremendamente affezionato.
Benvenuto, contro tutte le previsioni dei dottori che l’avevano visitato, sopravvive alla tremenda febbre che l’aveva colpito. Si arriva così all’epilogo dell’opera che si articola in due episodi differenti, aventi luogo fra la notte del 31 Dicembre 1925 ed il mattino del 1 Gennaio 1926 e riguardanti i destini del colonnello Procolo, del vento Matteo e del giovane Benvenuto. Sono questi i due episodi che, se osservati con attenzione, svelano l’essenza più profonda, la maieutica più nascosta di quest’opera all’apparenza banalmente favolistica.
La morte per assideramento del colonnello Procolo, avuta luogo nella notte di Capodanno in seguito al tentativo di salvare il nipote Benvenuto che egli erroneamente credeva travolto da una slavina, diviene redenzione ultima di un uomo disonorato che da tempo si era allontanato dal mos che aveva seguito durante tutta la sua carriera militare; troppo a lungo Sebastiano Procolo aveva rincorso il proprio interesse più gretto, quello di conservarsi il più possibile integro e ricco nella sua anzianità. Egli muore così ritto nella neve vedendo sfilare dinanzi a sé il suo antico reggimento con in testa i suoi colori che splendevano alla luce della luna. I vecchi consentono al sacrificio per il futuro della gioventù.
Nella stessa notte il giovane Benvenuto, ignaro della da poco avvenuta morte dello zio Sebastiano, accompagna a sua volta il debole vento Matteo, ormai moribondo, sulla cima del Corno dove questi, come ultimo atto, gli rivela della morte dello zio alla quale lo stesso vento aveva assistito come pure del fatto che quella sarebbe stata l’ultima sua notte da fanciullo. I giovani accompagnano le precedenti generazioni sino al loro ultimo atto su questa terra per poterne portare in alto, seppur anche per un solo attimo, il ricordo.
In tutto questo dipanarsi di accadimenti la natura è onnipresente: anch’essa soggetta al fato alla stregua degli uomini [2], ne diviene immagine speculare, arcana e remota della loro più recondita essenza. Così come muore il colonnello, l’uomo, così svanisce anche il vento, il metafisico, entrambi legati indissolubilmente l’uno all’altro che, oramai giunti al termine dei loro fati, lasciano il posto all’eterno ritorno che è assieme ciclo di distruzione e rito di rinascita.

 

Note:

[2]     D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 125, 126:

Nella fonda notte, senza far uso della lampadina, probabilmente per non rivelare che l’ombra l’aveva abbandonato, il Procolo andò al Bosco Vecchio, per cercare il Bernardi. Appena egli fu giunto al confine dell’antica selva, il Bernardi sbucò fuori d’incanto.
«Cerchi di me, colonnello?» domandò il genio.
«Benvenuto sta per morire» disse il colonnello. «Mi è venuto in mente: voi genî non potreste fare qualcosa? Non avreste forse qualche rimedio?»
«Secondo» rispose il Bernardi. «Gli uomini alle volte muoiono perché “devono” morire; ci sono delle leggi che non si possono spezzare. Ma se è come dici... capisco... è un bambino... Sì, noi genî al proposito sappiamo qualcosa, un resto della nostra antica potenza. Sì, noi potremmo provare...» 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte I

Il segreto del Bosco Vecchio è uno dei brevi romanzi scritti nel secolo scorso dall’autore Dino Buzzati e pubblicato per la prima volta a Milano nel 1935.
Opera incentrata su un Leitmotiv che ha dell’ancestrale, quello del metafisico nella natura, Il segreto del Bosco Vecchio si apre seguendo lo svolgersi delle vicende del colonnello Sebastiano Procolo il quale, alla morte di suo zio Antonio Morro, aveva da questi ereditato vari ettari di terreno boschivo da adibire a taglio siti nei pressi di Valle di Fondo assieme al cosiddetto Bosco Vecchio.
 

Fin dai secoli scorsi, tutti si erano accorti che il Bosco Vecchio era diverso dagli altri. Magari non lo si confessava, ma questo era un convincimento comune. Che cosa ci fosse di diverso nessuno però lo sapeva dire.
Fu solo all’inizio del secolo scorso che la realtà venne chiaramente scoperta. Cosa ci fosse di speciale nel Bosco Vecchio lo capì benissimo l’abate don Marco Marioni durante un viaggio in quella vallata. Il fatto non gli parve gran che strano e breve è il cenno da lui fatto nelle «Note geologiche e naturalistiche di un sacerdote pellegrino» pubblicate nel 1836 a Verona.
Sono notizie succinte ma molto chiare:
“Piacquemi, in quel di Fondo, pascere la mia vista di una mirabile visione; visitai una ricca foresta, che quegli alpigiani denominano Bosco Vecchio, singolare per l’altezza dei fusti, superanti di gran lunga il campanile di San Calimero. Come io ebbi a notare, quelle piante sono la dimora dei genî, quali trovansi anche in boschi di altre regioni. Gli abitanti, a cui chiesi notizia, pareano ignari. Credo che in ogni tronco sia un genio, che di raro ne sorte in forma di animale o di uomo. Sono esseri semplici e benigni, incapaci di insidiare l’uomo. Estendersi tale foresta per jugeri...”
[...] Solo i bimbi, ancor liberi da pregiudizi, si accorgevano che la foresta era popolata di genî; e ne parlavano spesso, benché ne avessero una conoscenza molto sommaria. Con l’andar degli anni però anch’essi cambiavano d’avviso, lasciandosi imbevere dai genitori di stolte fole.

- D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, Oscar Mondadori, Cles (TN) 2010, pp. 18-20.
 

Il resto dei possedimenti del Morro vennero da questi lasciati in eredità al nipote Benvenuto Procolo, orfano di padre e di madre. Per questa ragione, il giovane inizialmente attirò involontariamente su di sé le ire del colonnello, intenzionato a possedere la totalità dei boschi appartenuti al defunto Antonio Morro allo scopo di poterne sfruttare il legname come fonte di reddito. Incurante di come la vita dei genî del Bosco Vecchio fosse legata a quella dell’albero che abitano, il colonnello Procolo iniziò ad operare tagli indiscriminati e più di una volta cercò di liberarsi del nipote tanto da spingere gli animali della foresta a processarlo e la propria ombra ad abbandonarlo [1].

 

Note:

[1]     D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 120, 121:

«Colonnello!» disse l’ombra «io ti ho seguito fin da quando eri bambino, non ti ho mai lasciato neppure quando dormivi, ho fatto con te lunghe marce, ho cavalcato vicino a te al galoppo. Anche quando tu non ci pensavi nemmeno, io ti accompagnavo fedelmente. Mi alzavo se tu volevi alzarti, ho fatto sempre il tuo desiderio, e dimmi se mi sono mai lamentata. Un giorno poi tu hai lasciato la divisa; e mi dispiaceva, sai, di non portar più quella sciabola che dondolava attaccata al mio fianco... Eppure ho obbedito in silenzio. Ti ricordi, Procolo, non è vero?»
«Sarà anche» fece il colonnello «ma cosa vuol dire tutto questo? Dove vuoi andare a finire?»
«Hai ragione» sussurrò l’ombra «è meglio parlare chiaro: volevo dirti che ti devo lasciare.»
«Lasciarmi? Cosa hai detto?»
«Ti devo lasciare» ripeté l’ombra «devo andarmene via, perché ti sei disonorato.»
[...]
«Tornerò alla vecchia caserma, lo sai?» proseguì l’ombra dopo qualche istante di silenzio. «Ritroverò il nostro antico reggimento, sembrano tempi tanto lontani. Dovrò rintanarmi in un angolo buio, e andrò in giro soltanto di notte perché nessuno mi veda. Sì, avrei vergogna che mi domandassero: “Ombra, ohi, ombra, dov’è il tuo padrone? dov’è rimasto il signor colonnello?”. Il signor colonnello è finito, dovrei rispondere, ecco quello che dovrei rispondere, la sua sciabola l’ha mangiata la ruggine e di lui è meglio tacere.»