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martedì 30 aprile 2019

La battaglia di Tollensetal, parte II

Zinnringen con Spiralenringe
© WERNER HAUSMANN/UNIVERSITÄT GREIFSWALD

Procediamo ora con l’analisi della composizione degli scavi di Tollensetal; due sono le tipologie di scavi e si distinguono fra loro per la profondità stratigrafica dei reperti.
Il Weltzin 20 che si estende per 90 m lungo il corso del fiume e che copre un’area di ca. 360 metri quadrati è esemplificativo di quei siti a bassa profondità stratigrafica; gli scavi nel suddetto furono infatti facilitati dall’elevata posizione stratigrafica dei reperti come testimonia lo stesso Jantzen. La profondità media alla quale si potevano trovare resti umani era di 1.0 ± 0.2 m ed il terreno ne traboccava tanto che ponendo i diversi livelli altimetrici dei rinvenimenti su un unico piano ed analizzandone le sezioni pochi sarebbero i lembi di queste spogli da frammenti d’osso ed armi in selce ed in bronzo; basti pensare che in una sezione di soli 12 metri quadri furono rinvenute ca. 1478 ossa. Le sezioni che presentavano un’elevata concentrazione di resti umani erano separate fra loro da ampie zone vuote e le ossa lì rinvenute non seguivano spesso una distribuzione anatomicamente ordinata (e.g. una sezione dell’arto superiore di un dato individuo di ca. 25 anni è stato ritrovato a non poca distanza dal suo arto inferiore), segno che i corpi fossero stati sepolti a mucchi tardivamente, dacché già parzialmente decomposti, e con poca cura, dacché le acque del fiume con i loro flutti ne avevano alterato la disposizione. Il fatto che nelle suddette sezioni rari furono i ritrovamenti di anelli ed altri oggetti simbolo dello status dei combattenti fa pensare che i vincitori della battaglia, nel disporre a mucchi i cadaveri, abbiano sottratto quanto di prezioso e di desiderabile avevano portato con sé in battaglia, spogliandoli di fatto dei loro averi.
Per quanto concerne i siti caratterizzati da una bassa posizione stratigrafica dei reperti è possibile prendere ad esempio il Weltzin 32 ed il Wodarg 25, i quali restituirono resti umani ed animali anatomicamente distribuiti assieme con armi da getto e manufatti ornamentali ad una profondità media di 2.5 ± 0.5 m. Dall’elevata profondità stratigrafica, dall’elevata presenza di sedimenti, di resti di piccoli molluschi e di vari oggetti di pregio come anelli (e.g. ‘Spiralenringen’ in oro da 10 grammi ca. e di 2.9 cm di lunghezza e ‘Zinnringen’ di 3 cm di diametro, realizzati con un filo avente spessore di 4 mm) e pendenti vari rivenuti assieme ai resti dei loro proprietari è possibile dedurre che i due suddetti siti facessero parte del letto originario del fiume Tollense il quale si da subito aveva accolto i caduti; forse è per questo che i loro cadaveri non vennero spogliati dei loro averi dopo la battaglia come accaduto nel Weltzin 20.

L’enorme quantità di punte di freccia in selce e bronzo (ciò implica l’uso di archi), le numerose punte di lancia in bronzo (più rare quelle in selce), le mazze in legno ed i frammenti di pugnali e spade in bronzo così come l’uso della cavalleria (attestato dalle ossa equine rinvenute) lasciano presumere che la battaglia di Tollense abbia avuto luogo fra due fazioni aventi al loro interno soldati di professione supportati da gente comune. Fra i resti umani ve ne sono di appartenenti a giovani donne e bambini; stando ai dati etnografici è legittimo supporre che abbiano preso parte allo scontro occupandosi del vettovagliamento e del trasporto delle armi nella mischia della battaglia.

In conclusione, la ragione di questo scontro è da ascriversi alle tensioni sociali scaturite dalle migrazioni, migrazioni a loro volta legate ai drastici cambiamenti climatici che ebbero luogo nel 1200 a.C. (i.e. dal 1300 a.C. alla seconda metà del 1200 a.C. le Alpi della Mitteleuropa soffrirono la fase più intensa delle glaciazioni dell’Olocene come si può evincere dall’analisi dendrocronologica dei reperti arborei). La transizione alla ‘Urnenfelder Kultur’ (i.e. “Cultura dei campi di urne”, Mitteleuropa, va del 1300 al 800 a.C.) ed alla ‘Lausitzer Kultur’ (i.e. “Cultura lusaziana”, Germania centrale e Polonia, va dal 1300 al 500 a.C.) con la relativa introduzione della cremazione riflettono i cambiamenti epocali che la società dell’età del Bronzo stava sperimentando in quegli anni e siti come Velim-Skalka e Tollensetal ne sono la diretta e naturale manifestazione.




Fonti:

- “Krieg. Eine archäologische Spurensuche. Das bronzezeltliche Schlachtfeld im Tollensental, Fehde, Krieg oder Elitenkonflikt? - 6 November 2015 bis 22 Mai 2016”

lunedì 29 aprile 2019

La battaglia di Tollensetal, parte I

La battaglia di Tollensetal
Felix Abraham

Nell’estate del 1996, durante un’escursione lungo le rive del fiume Tollense nell’odierna ‘Mecklenburgische Seenplatte’ (i.e. “piana dei laghi del Mecleburgo”, parte del Land Mecklenburg-Vorpommerm, Pomerania Anteriore, Germania), l’archeologo dilettante R. Borgwardt trovò nei pressi di una sezione concava di un meandro da poco crollata un omero destro nella cui testa era conficcata una punta di freccia in selce; a poca distanza da esso vi era una clava in legno intagliata con cura. La punta di freccia che poteva risalire o al tardo Neolitico (i.e. ‘späten Neolithikum’) oppure all’alta età del Bronzo (i.e. ‘älteren Bronzezeit’) attrasse l’attenzione dell’archeologo dilettante che evidenziò il sito del rinvenimento con il nome di “Weltzin”.

Già dagli anni ‘70 del secolo XX nei sedimenti erosi della ‘Tollensetal’ (i.e. “valle del fiume Tollense”) erano stati rinvenuti numerosi oggetti in bronzo fra i quali delle punte di freccia e di lancia, delle azze, una lama di un coltello ed un frammento di una spada ma mai prima d’ora erano emerse delle ossa umane che recavano segni inequivocabili di una morte violenta avvenuta in situ. Borgwardt iniziò a scavare nel luogo dove aveva fatto il suo ritrovamento; da lì emersero frammenti d’osso appartenenti a due differenti esemplari di cavalli ed un cranio umano con una pronunciata frattura nell’osso frontale, chiaro segno di lotta. Nel 1999 Borgwardt rinvenne altri resti umani nei pressi di una seconda clava di foggia differente rispetto a quella trovata nel 1996; mentre la prima rassomigliava ad una mazza da baseball ed era in frassino europeo, la seconda realizzata in prugnolo selvatico era più somigliante ad una mazza da cricket ché presentava un sottile manico che terminava in un grande mazzuolo. Armi in legno di foggia simile già in precedenza erano state rinvenute a Wiesmoor ed a Berumerfehn (i.e. distretto di Aurich, bassa Sassonia) - quella rinvenuta a Berumerfehn risaliva al Neolitico, più precisamente al 2400 a.C. e presentava chiari segni di usura - così come nelle torbiere della Danimarca; nessuna fra queste era stata però rinvenuta nei pressi di resti umani. Weltzin era quindi il primo sito preistorico e mitteleuropeo a contenere resti umani (e non) con delle armi in legno poste affianco a questi.

Fu per questa ragione che nel 2008 un’equipe di archeologi, botanici e paleontologi guidata da D. Jantzen e T. Terberger decise di scandagliare accuratamente il sito di Weltzin tramite scavi ed immersioni subacquee nel vicino fiume Tollense in cerca di ulteriori resti umani con lo scopo di determinare la natura di quell’assembramento di ossa ed armi e di aprire nuove aree di scavo come il sito ‘Wodarg’ sulla sponda opposta a quella di Weltzin. Le ricerche, iniziate ufficialmente nel 2009, vennero portate avanti in un raggio di 3.5 km dal primo rinvenimento del 1996 e restituirono un’innumerevole quantità di resti umani; stando ai conteggi del Marzo del 2018 - i frammenti d’osso sino ad allora rinvenuti sono all’incirca 13000 e presentano nel maggior numero di casi delle lesioni gravi risalenti a poco tempo prima del decesso (e.g. fra i 40 crani rinvenuti ve ne è uno con una punta di freccia conficcata nella zona parietale) - ed alla mancanza di vasellame ed ornamenti funebri è possibile asserire che Tollensetal non sia un sito funerario né un luogo dove si compivano riti sacrificali con conseguenti inumazioni delle vittime bensì un vero e proprio campo di battaglia, il primo sinora attestato in tutta Europa. Stando alle stime in esso si sarebbero fronteggiati due eserciti per un totale di 4250 ± 900 individui ed il 25% di questi perì nello scontro (i.e. l’età media dei caduti era di 30 ± 10 anni); tramite la datazione al Carbonio 14 dei resti sinora rivenuti è possibile collocare lo scontro fra il 1300 a.C. ed il 1200 a.C. smentendo l’opinione diffusa che nell’età del Bronzo non vi fossero stati grandi scontri campali ma semplici faide fra piccoli gruppi di individui.

martedì 23 aprile 2019

Goldhüte del tipo Schifferstadt


Berliner Goldhut, Neues Museum, foto di Andreas Præfcke


 I ‘Goldhüte’ (i.e. “copricapi in oro”, sing. ‘Goldhut’) del tipo Schifferstadt sono degli artefatti di forma conica risalenti alla tarda età del Bronzo germanica ed assimilabili alla ‘Urnenfelderkultur’ (i.e. “cultura dei campi di urne”, fu Ernst Wagner a datarla fra il 1300 – 800 a.C. ed a darle questo nome dacché con l’introduzione della cremazione nel rito funerario le ceneri iniziarono ad essere riposte in delle urne) di poco precedente alla ‘Hallstattkultur’ (i.e. “cultura di Hallstatt”, databile dal 800 – 450 a.C. dalle non trascurabili componenti celtiche).

Ciò che Ernst Wagner definì con il termine di ‘Goldhut’ era una sottile lamina in oro sbalzata che andava a decorare un copricapo rituale di forma conica le cui rimanenti componenti erano realizzate in materiale deperibile; secondo alcuni studiosi i Goldhüte erano legati al culto solare introdotto nella ‘Mitteleuropa’ (i.e. “Europa centrale”) dalle popolazioni indoeuropee che di quella regione plasmarono la religione e la società. L’indogermanista Wolfram Euler, nel definire la paternità di questi artefatti, asserì che coloro che li indossarono ‘sicher ein Indogermanisches Idiom gesprochen, angesichts des Fundorte am ehesten eine Vor- oder Frühform des Keltischen’ [1] (i.e. “parlavano senza alcun dubbio un idioma indogermanico, considerando i siti in cui furono rinvenuti [parlavano] con buone probabilità un idioma pre- o proto-celtico”). Non limitandosi dunque a dare ai Goldhüte un’origine chiaramente indoeuropea, Euler arrivò quindi a metterli in stretta e diretta relazione con la ‘Hallstattkultur’ di cui sopra.

Per meglio comprendere la citazione di Wolfram Euler, andremo ora ad elencare le varie località dove sono stati rinvenuti i quattro Goldhüte del tipo Schifferstadt sinora scoperti:

- Goldhut di Schifferstadt (risalente al 1400 – 1300 a.C.) rinvenuto a Schifferstadt, Rhein-Pfalz-Kreis, Germania meridionale

- Goldhut di Ezelsdorf-Buch (risalente al 1000 – 900 a.C.) rinvenuto ad Ezelsdorf-Buch, Mittelfranken-Oberpfalz, Germania meridionale

- Goldblechkegel di Avanton (i.e. “cono in foglia d’oro”, così chiamato per via dell’assenza della falda alla base della torre conica, risalente al 1000 a.C.) rinvenuto a Poitiers, ovest della Francia

- Berliner Goldhut (i.e. “Goldhut di Berlino”, risalente al 1000 – 800 a.C.) rinvenuto in un luogo non ben determinato nella Germania meridionale od in Svizzera

L’unico Goldhut fra questi giunto a noi nella sua interezza è quello di Berlino. Il suo eccellente stato di conservazione è forse dovuto al fatto che esso venne sepolto in posizione verticale dopo essere stato riempito nella sua cavità interna di sabbia e terra; non è possibile asserire ciò con certezza dacché le condizioni del suo ritrovamento sono sconosciute in quanto il Berliner Goldhut venne acquistato dal Museum für Vor- und Frühgeschichte di Berlino nel 1996 come parte di un’anonima collezione privata messa in piedi nella Svizzera degli anni ’50 del secolo XX.
Il cono del Berliner Goldhut ha un’altezza di 74.5 centimetri e presenta ventuno bande orizzontali decorate con una serie di simboli ricorrenti i quali, stando a studi molto recenti, andrebbero a costituire un complesso calendario lunisolare sulla superficie della lamina; tramite moltiplicazioni scalari dei conteggi delle varie unità temporali rappresentate dai vari simboli sbalzati ed equivalenti a cinquantadue mesi è possibile calcolare periodi più lunghi, quali i cicli ‘metonici’ (i.e. da Metone, astronomo greco del secolo V a.C.) di diciannove anni. Diveniva quindi possibile determinare con precisione solstizi ed equinozi.




Note:
- [1] “Sprache und Herkunft der Germanen. Abriss des Protogermanischen vor der Ersten Lautverschiebung - Wolfram Euler, 2009”

domenica 21 aprile 2019

I signori del bronzo, i Troiani - Seconda parte

Il combattimento avveniva in formazione, fra ranghi di armati, ma l’età del bronzo rimane ovunque anche e soprattutto un’età eroica durante la quale era richiesta ai comandanti una partecipazione attiva ed in prima persona al combattimento (il coraggio era una dote assai apprezzata, imprescindibile per un comandante), la sola idea di un Re imbelle era, molto semplicemente, incomprensibile, a riprova del fatto che valori sani e tribali possono strutturarsi ed espletarsi anche in società complesse, a patto che queste siano confederative e non centralizzate.
Parliamo ora della struttura sociale, sulla quale non abbiamo che pochi cenni dall’opera omerica, bastanti però ad ipotizzare un’organizzazione sociale simile a quella dei re-sacerdoti diffusa al tempo in tutta l’area, da notare che la funzione sacerdotale del Re presso gli ittiti ed i luvi era fondamentale e ancor più preminente che presso i micenei, dato che spesso le città stato avevano una struttura quasi definibile come templare, con i sovrani che erano prima di qualunque altra cosa guerrieri e servitori degli Dèi, caratteristica, a giudizio di chi scrive, tutt’altro che disprezzabile, e che potrebbe dare preziosi spunti di riflessione.

Delle fine di questa città non staremo a narrare, essendo l’avvenimento ben più che noto e non potendo quindi dire niente di realmente interessante in merito, basti dire che nonostante la sua tragica fine il suo nome riecheggia ancora, insieme ai nomi e alle gesta di coloro che la difesero.

sabato 20 aprile 2019

I signori del bronzo, i Troiani - Prima parte

Īlĭŏn, Ilio, Troia

Poche città al mondo possono vantare un nome tanto immortale, il mito del suo assedio e della sua caduta narra di Dèi ed eroi, forza e astuzia, e rappresenta uno dei pilastri portanti della cultura euroasiatica ed indoeuropea.
Chi erano quindi gli abitanti di questa città tanto famosa? Quali culti seguivano?
Cercheremo ora di fare, per quanto possibile, luce su questi interrogativi.
Partiamo dalle basi con una cosa che, ne sono certo, stupirà molti di voi: la città non veniva chiamata Ilio, almeno non dai suoi abitanti, ma Wilusa.
Parliamo di una città stato indipendente, dotata di un forte esercito (dovuto probabilmente alle discrete caratteristiche demografiche e agricole del suo territorio) e di una solida rete di alleanze con popolo affini. 
A livello etnico rappresentava, in tutta probabilità, un punto di congiunzione fra due grandi società indoeuropee dello scacchiere Egeo-Anatolico, quella micenea e quella luvia e ittita (entrambi i popoli erano di ceppo indoeuropeo anatolico) l’organizzazione religiosa rifletteva questa unione, faccia riflettere, al riguardo, il fatto che secondo il racconto il Dio protettore della città sia Apollo, Dio del quale mancano testimonianze fra gli Egei ma il cui culto era diffuso fra gli Ittiti. 
A livello militare la sua organizzazione non doveva scostarsi molto da quella ittita con i maryannu, i grandi signori della guerra del periodo, la cui caratteristica di casta erano i carri da guerra, veri e propri antesignani della cavalleria dei millenni successivi, che esercitavano il proprio potere e le proprie prerogative locali in maniera indipendente e slegata da un potere centrale ma che erano in grado di unirsi in caso di necessità (come il sopracitato episodio della guerra di Troia) e di schierare quindi un vasto numero di armati.

giovedì 18 aprile 2019

Spiritualità egizia- Sekhmet

Colei davanti a Cui perfino il Male trema, Signora del terrore, Signora della strage, Colei Che percuote

La potente, la rossa signora, Dea della guerra e del potere distruttivo del calore e del deserto. Essa rappresenta anche lo strumento con il quale Ra compie la sua vendetta verso l’empietà degli uomini.
In un antico mito si racconta infatti di come Ra, adirato con gli uomini, avesse inviato Sekhmet fra questi per farne strage.
Al termine della battaglia la sete di sangue della Dea non era ancora domata ed essa rivolse quindi la sua furia contro l’umanità intera che venne però risparmiata dallo stesso Ra.
Egli tinse della birra con ocra rossa ed ematite in maniera che sembrasse sangue, facendo così ubriacare la Dea ed ammansendola (sul ruolo sacrale dell’ocra rossa, anche in tempi pre-istorici, consigliamo di leggere il nostro pdf dedicato alla fede dei primordi, lo trovate nella sezione “biblioteca” del nostro sito).

Essa è una Dea pericolosa, al quale un tempo erano tributati continui sacrifici e rituali, la sua classe sacerdotale infatti celebrava ogni giorno dell’anno, sia al mattino che al pomeriggio, rituali davanti ad una diversa statua della Dea per calmarne l’ira ed attirarne la protezione benevola.
Come molte divinità infatti ad un lato terribile ne unisce uno benevolo, se essa è infatti signora della strage e delle malattie è al contempo patrona e protettrice di medici e gode dell’epiteto di signora della vita.

«Grande è lo splendore [del faraone] che si scatena quando vede la linea di battaglia, come Sekhmet furibonda al tempo della Sua collera.»
Iscrizione di Ramses III nel Tempio di Medinet Habu

Sappiamo anche che essa talvolta scendeva personalmente sui campi di battaglia, in maniera non dissimile da altre divinità della guerra, Ramses II, il più grande dei Faraoni della terra d’Egitto, era molto devoto a questa Dea e dichiarò che essa lo aveva affiancato in battaglia, sul carro da guerra, e che con il suo soffio incandescente aveva distrutto i suoi nemici.

martedì 16 aprile 2019

Alaksandu - Parte terza

Mentre i carri si ritirano, rischierandosi alla destra delle fanterie, il signore della guerra osserva i suoi uomini: tutti, dal più umile contadino al più benestante dei guerrieri, hanno un’espressione fiera sul volto.
Sono orgogliosi di quanto stanno facendo, di difendere con bronzo e pelle le proprie famiglie e la propria terra.
Ne osserva gli scudi lucidi e i calzari rattoppati, le armi splendenti e le umili vesti.
Non sono mai state ricche le sue genti, ma hanno sempre avuto coraggio e buona volontà, e la pazienza tipica di chi coltiva.
Dà poi un’occhiata al nemico, a quella marmaglia indistinta di razziatori, irrispettosi degli Dèi, incapaci di concepire qualcosa che vada al di là della propria cupidigia e di vedere più lontano della punta del proprio cazzo.
Si lascia trascinare dal disgusto verso quella feccia, lascia cavalcare a ruota libera il proprio odio per poi imbrigliarlo come un cavallo davanti ad un carro. Osserva i propri schermagliatori infastidire il nemico con frecce, sassi e giavellotti e nota, fra le fila nemiche, un fremito.
Un uomo armato di frusta, riccamente vestito, colpisce a caso fra i propri uomini nella speranza, evidentemente, di tenere i ranghi uniti.
Era il segnale che aspettava, impugnata la lunga lancia dal cuspide dorata suona poi il corno, tre squilli brevi ed intensi, il segnale che tutti aspettavano.
I carri manovrano portandosi sul fianco del nemico mentre la fanteria ne impegna le linee, è uno scontro breve e brutale, un’ecatombe per il nemico il cui comandante, l’unico in grado di mantenere un briciolo di disciplina, viene ucciso nella prima fase dello scontro, colpito al petto da un fante armato di lancia.
La battaglia, se è ancora definibile tale, si divide in una serie di piccoli scontri ed inseguimenti, fra pochi gruppi decisi a vendere cara la pelle e le centinaia di fuggiaschi, in preda al panico, preda perfetta per i carri.
Poi, così come tutto è iniziato, lo scontro si conclude, e gli uomini festeggiano, dividendosi le ricchezze e le armi conquistate.
Ognuno, dal contadino al nobile, riceve la sua giusta parte, commisurata al proprio valore, e grida di gioia si diffondono fra i vincitori, vengono infatti presi molti schiavi che renderanno meno dura la fatica della stagione a venire. Viene poi il momento di onorare i propri morti, poco più di trenta, e di bruciare sulle pire i cadaveri dei nemici, molto più numerosi.
E poi birra e canzoni, fuochi e racconti prima del ritorno al focolare, tanto caro e per ora al sicuro.

lunedì 15 aprile 2019

Alaksandu - Parte seconda

D’improvviso un corno emette un lungo lamento modulato ed uno dopo l’altro i carri da guerra, guidati da quello del loro comandante, si dirigono verso il nemico sul quale scaricano giavellotti e frecce, uccidendo una manciata di grassatori ma ferendone a decine.
La reazione di questi è tanto folle quanto prevedibile, presi dalla rabbia caricano i carri, con il solo risultato di stancarsi, subendo oltretutto perdite consistenti.
Altri quaranta briganti rimangono nel deserto trafitti da steli dalle punte di bronzo mentre quasi un centinaio zoppicano o perdono sangue, alle prese con varie ferite mentre il panico, sinuoso e sottile come una vipera di montagna, inizia a serpeggiare fra le fila di quella marmaglia che ebbe l’ardore di considerarsi esercito, un sentimento sottile come un rivolo d’acqua che cola da una chiusa ma pronto ad ingrossarsi come un fiume in piena.
I briganti arrancano, si stringono come pecore circondate da lupi in un crepaccio mentre i carri, sapientemente guidati, continuano il loro percorso di morte. Frecce e giavellotti fanno il proprio mestiere e se ancora pochi sono i caduti, forse un centinaio abbondante, molti di più sono i feriti e colore che hanno perso la volontà di combattere.
Alaksandu, lancia l’ultimo dei propri giavellotti e ne approfitta per valutare la situazione dello scontro.
Una carica ora potrebbe spezzare la volontà del nemico che rimane tuttavia più numeroso, anche una vittoria totale potrebbe risultare troppo onerosa in termini di perdite.

domenica 14 aprile 2019

Alaksandu - Parte prima

Un sordo rollio rimbomba nella pietrosa pianura, decine di carri avanzano, con il loro carico di nobili dalle armature scintillanti.
Il luccichio del bronzo sotto il tiepido sole primaverile accompagna l’avanzata di quel contingente mentre Alaksandu,come sempre primo fra i propri uomini, si prepara allo scontro imminente.
Stringe il proprio amuleto mormorando una preghiera a Tarhunt, signore delle tempeste, possente Dio supremo.
Sistema le cinghie e controlla che le piastre di bronzo siano ben posizionate a coprire il suo corpo poderoso, reso leggermente grasso dal troppo riposo e dal vino, ma ancora sano e forte.
Non è più è più giovane Alaksandu, trentacinque primavere hanno segnato il suo viso nobile e fiero, e i primi segni candidi iniziano ad essere visibili nella folta barba rossiccia.
Ha la bocca arida, il vecchio comandante, mentre schiera le proprie truppe. Trentadue carri, con due uomini ben armati a bordo ognuno. Sette di loro sono suoi figli.
Trecento ed ottanta fanti, armati chi di lancia e scudi di pelle e chi di falcetti, coltellacci o bastoni.
Osserva il nemico.
Settecento uomini almeno, probabilmente di più, tutti a piedi.

Briganti, gentaglia, predoni dal deserto. Li ha incontrati altre volte, squadracce di disperati, cacciati dalle terre di Babilonia o dall’Egitto, ma mai così numerosi e affamati.
Alcuni servitori portano ghirbe di birra, sorridono tutti i maryannu, tre schiave sono gravide, il loro signore, a quanto pare, non ha perso il vizio di seminare bastardi come un contadino semina l’orzo.
Non ha fretta il principe, vent’anni di guerre sono un’ottima scuola ed egli sa che i carri gli permettono una flessibilità impensabile al nemico, osserva quindi i propri avversari avanzare sul terreno pietroso e pianeggiante, e non senza un gran sorriso nota che diversi di loro tendono a trascinare i piedi. Sono stanchi i bastardi, stanchi e cotti dal sole, sperano di evitare lo scontro, che gli Ittiti se ne vadano dopo una scaramuccia. Perché, pensano i fuorilegge, rischiare la vita contro un nemico tanto numeroso? Abituati alle milizie mercantili desertiche non sanno che quegli uomini dagli scudi di pelle proteggono le proprie famiglie più che gli interessi commerciali di un qualche signore.

venerdì 12 aprile 2019

Spiritualità micenea - Divia

Nota: 
È necessario, prima di iniziare questa analisi delle principali divinità del pantheon miceneo fare un paio di piccole, ma decisamente necessarie, precisazioni: sappiamo generalmente poco del tipo di ritualità che dovevano seguire questa popoli, lo stesso vale per quelli che erano i ruoli attribuiti alle varie divinità, gli articoli di questa serie, pertanto, sono da intendersi come un tentativo non esaustivo e nemmeno infallibile, di dare un’idea della religione arcaica micenea/protogreca e del relativo pantheon, nulla di più e nulla di meno. Si tratta di scritti brevi, le informazioni in nostro possesso sono, purtroppo, assai limitate.

Divia

Dea compagna del Dio supremo Dive, il suo culto è da collegarsi al bestiame e alle mandrie da uno dei suoi epiteti: Ko-vii-ya, che significa “vacca”.
Era chiamata anche Potniya, signora (usanza, questa, comune a moltissime altre divinità femminili indoeuropee).
Il suo culto non era diffuso solamente fra i micenei ma anche fra i minoici presso i quali godeva del titolo di “signora del labirinto”.
Sebbene alcune interpretazioni tentino di identificarla con la Hera di epoca classica le fonti più arcaiche nominano entrambe le divinità come indipendenti.

Noi, come linea, preferiamo sempre riconoscere ad una divinità la propria unicità senza tentare spesso forzose interpretatio, che lasciamo volentieri ad altri.

martedì 9 aprile 2019

Spiritualità micenea - Atemitos

Nota: 
È necessario, prima di iniziare questa analisi delle principali divinità del pantheon miceneo fare un paio di piccole, ma decisamente necessarie, precisazioni: sappiamo generalmente poco del tipo di ritualità che dovevano seguire questa popoli, lo stesso vale per quelli che erano i ruoli attribuiti alle varie divinità, gli articoli di questa serie, pertanto, sono da intendersi come un tentativo non esaustivo e nemmeno infallibile, di dare un’idea della religione arcaica micenea/protogreca e del relativo pantheon, nulla di più e nulla di meno. Si tratta di scritti brevi, le informazioni in nostro possesso sono, purtroppo, assai limitate.

Atemitos

Forma arcaica di Artemide, figlia di Demetra nei miti più arcaici e di Zeus e Latina in quelli più recenti, destinata a diventare una delle divinità più amate delle Grecia classica.
Già conosciuta e celebrata in epoca minoica con il nome di Britomartis, legata probabilmente a forme di dendrolatria (culto arboreo, degli alberi) di tipo orgiastico diffuse su tutta l’isola di Creta.
La prima forma del nome in greco arcaico (lineare B) è A-ti-mi-te, già piuttosto simile si nominativi successivi.

Tramite il confronto tra composizioni ornamentali micenee e spartane ha permesso di accostare definitivamente la figura di Atimite a quella della Artemide Ortygia spartana, quest’ultima aveva un tempio nella capitale lacedemone nel quale essa veniva celebrata tramite danze rituali effettuato con maschere di legno dai tratti umanoidi, probabilmente si trattava di una versione “civilizzata” delle danze di cui sopra, o almeno questa è l’ipotesi generalmente presa in considerazione.
Questo culto di tipo orgiastico è quindi da collegarsi non solo alle ritualità della caccia ma anche ad un antico sostrato di tipo matriarcale, una probabile eredità pre-indoeuropea.

venerdì 5 aprile 2019

I signori del bronzo, gli Achei - parte seconda

Essi adoravano gli Dèi indoeuropei, nelle figure di Diwo (signore supremo), Divia sua sposa, Atana potinija, Atemitos signora della caccia e molti altri.

Nei loro culti, nella loro fede, è possibile vedere il riflesso più arcaico, puro e legato ai primordi dei culti di epoca classica, pur con alcune differenze.
Manca Apollo, probabilmente al tempo onorato dagli Ittiti e dai popoli a loro affini quali gli abitanti di Ilio, non è infatti da ritenere casuale il ruolo del Dio nella famosa guerra, egli era infatti protettore della città in questione.
Altre differenze si possono notare nelle divinità guerriere, Ares e Enyalius sono infatti due divinità differenti e non, come in epoca classica, una sola entità.
Verranno comunque pubblicati a breve articolo di carattere divulgativo sulla fede arcaica micenea, che andranno ad approfondire affinità e divergenze fra il culto Miceneo e quello della Grecia classica.

L’apogeo di queste genti avvenne sotto il comando del Re Agamennone, capo di una confederazione tribale che univa tutti gli Achei continentali, poco prima del cosiddetto “collasso dell’età del bronzo”.
Questa ultima fase è caratterizzata da un forte stato di guerra che oppone, alla numerosa e combattiva coalizione a guida micenea, la città di Īlĭŏn (Ilio, altro none della antica Troia) ed i suoi alleati.
Molta letteratura, specialmente ottocentesca, tentò di vedere in questo scontro una prima rappresentazione del perenne scontro fra Occidente ed Oriente, fra popoli indoeuropei e genti del levante.
In realtà le fonti dicono tutt’altro, Ilio, chiamate Wilusa dai propri abitanti, era infatti popolata da indoeuropei, principalmente Ittiti ma con una forte componente egea (torneremo, comunque, spero abbastanza presto, con un articolo dedicato proprio a questi popoli, ramo anatolico delle genti indoeuropee).
L’enorme scontro fu quindi fra affini, popoli fratelli destinati dal Fato e dal volere degli Dèi immortali ad affrontarsi per conquistare gloria eterna e fama immortale, adempiendo quindi pienamente al proprio destino di uomini.

I loro nomi e le loro gesta, che conosciamo grazie ad Omero e alla trasmissione orale prima di lui, siano quindi guida sicura per coloro che vivono ora e per coloro che verranno nei tempi a venire.
Cosa ne fu, quindi, di queste genti?
Intorno al 1200 ante era comune tutte le società del mediterraneo entrarono in profonda crisi, un crollo generalizzato pose le basi per l’avvento di una nuova era.
Gli Achei, minacciati dalle incursioni dei popoli del mare e dalla calata dei Dori, patirono innumerevoli distruzioni ma sopravvissero al cosiddetto “medioevo ellenico” in villaggi fortificati e cittadelle che formarono poi il nucleo fondante delle future póleis, le città stato di epoca classica.
Mantennero a lungo la propria libertà ed i propri costumi, difendendosi dalle forze persiane (coadiuvati dai Dori di Sparta, ormai membri a pieno titolo delle genti dell’Ellade) per poi perdere limitatamente la propria indipendenza sotto le armi macedoni prima e completamente sotto quelle romane poi.

L’età del lupo nella quale viviamo cova però sotto la cenere che tutto ricopre una scintilla di ciò che fu e non è detto che essa non possa tornare a divampare fra le genti dell’Ellade riportando i Danai ai fasti di un tempo.

giovedì 4 aprile 2019

I signori del bronzo, gli Achei -parte prima

L’età del bronzo.

Un periodo lontano, generalmente meno considerato di quello successivo, spesso mistificato e/o ignorato eppure ancora in grado, con i suoi miti ed i suoi eroi, di scuotere anime e generare azione fisica e spirituale.
In questa serie di articoli tenteremo di analizzare, secondo il nostro stile, il più possibile semplice e diretto, alcuni popoli di questa era tanto lontana nel tempo quanto vicina nello spirito, parleremo delle loro gesta e degli Dèi immortali che allora come oggi guidano i figli degli uomini.
Le gesta di Achille, Menelao, Agamennone e Aiace ancora riecheggiano, dopo più di tremila anni. I loro nomi e le loro gesta resi immortali in questa terra di mezzo.
Ma chi erano queste genti? Da dove venivano e, sopratutto, qual era il loro rapporto con gli Dèi?
Gli Achei, chiamati anche Micenei, dalla città di Micene, che nelle fonti classiche rappresenta il fulcro dell’alleanza di questi popoli, erano sicuramente genti di origine indoeuropea, con una forte identità tribale e guerriera, che in tempi pre-istorici occuparono la Grecia continentale venendo successivamente in contatto con i minoici, quasi sicuramente a causa della politica di talassocrazia (dominio militare ed economico delle vie marittime) di questi ultimi.
La loro felice posizione, a cavallo fra le rotte commerciali dell’oro dai Balcani e dall’Europa centrale, permise ai signori della guerra (Wanax, Re e sacerdoti) achei di accumulare, a partire da circa quaranta secoli orsono, una fortuna più che invidiabile, le sepolture si questi Re infatti ci dicono molto su quanto oro questi grandi signori dovevano possedere, se essi erano in grado di sacrificare oltre quindici chili del prezioso metallo per una cerimonia funebre (pur se di un membro di altro rango).
Il declinare della potenza minoica, dovuto ad una concomitanza di fattori fra cui spiccano motivazioni demografiche, militari e legate a disastri naturali, permise a questo popolo, ben guidato dai propri capi e signori della guerra, che mantennero a lungo la sana e sacra abitudine di combattere in prima linea, fra le proprie truppe (si veda, al proposito, l’Iliade, testo che consideriamo imprescindibile e del quale consigliamo la lettura a tutti coloro che cerchino ispirazione e guida in questa età del lupo), di diventare nel giro di qualche secolo la potenza dominante in tutto l’Egeo.
Questo, tuttavia, non deve trarre in inganno e far pensare ai Micenei come ad un regno unitario e burocratico, essi mantennero infatti una struttura tribale, legata a Re e signori locali, pur possedendo una forte coscienza di stirpe.

I Danai (altro nome per chiamare gli Achei, da Danao, semidio e antenato di questi popoli) rappresentano quindi un modello, se non forse il modello per antonomasia (insieme alle tribù germaniche, sia continentali che scandinave) di governo sano, tribale e locale, con una forte caratterizzazione militare e di stirpe.

martedì 2 aprile 2019

Spiritualità ittita - Tarhunt

Il potente, il possente

Egli è il Dio supremo nei pantheon ittita, hurrita e luvio, signore del tuono e delle tempeste.

Sappiamo molto di questo Dio, le fonti arcaiche narrano di come egli sconfisse il padre degli Dèi, un gigante di nome Kumarbi.
Questi, secondo un mito hurrita, lo aveva concepito mordendo e inghiottendo i genitali di suo padre Anu.
Altri fonti narrano del suo scontro con una creatura marina, Hedammu, probabilmente un serpente.
Veniva spesso rappresentato con una triplice folgore ed un’arma, un’ascia bipenne il più delle volte, talvolta una mazza ferrata.

Per quanto riguarda i riti ad esso legati sappiamo che quando nubi temporalesche si addensavano su una montagna era usanza compiere un sacrificio in onore del Dio, sappiamo anche che il suo animale sacro era il toro o, più generalmente, gli animali cornuti dato che esso è legato anche a questa simbologia.

Generalmente questa divinità viene collegata ad altre divinità affini di altri popoli indoeuropei, vengono del resto spontanei, per chiunque mastichi un minimo di mitologia germanica, celtica o iranica, paragoni con divinità quali Thor (Thunraz), Taranis o Turvant, sia a livello di simbologia (la folgore e l’ascia/martello sono simboli ben noti e legati a divinità specifiche) che di vera e propria mitologia, è infatti ben difficile non notare affinità con quanto viene narrato su Zeus, Urano e Crono o su Thor ed il suo scontro con Miðgarðsormr.
Nonostante queste affinità il nostro invito, come sempre, è quello a non adottare nessun genere di “interpretazione” di genere universalistico e di riconoscere anzi ad ogni divinità la propria specificità ed il proprio culto.

lunedì 1 aprile 2019

Omero nel baltico, mito e realtà

L’Omero nel baltico, croce e delizia di moltissimi appassionati di storia antica

Questa teoria, a quasi venticinque anni dalla sua presentazione continua a far discutere appassionati da tutto il mondo, ma qual è il pensiero accademico in merito? Vi è qualcosa di vero o sono tutte fanfaluche, frutto della fervida immaginazione (e del desiderio) dell’autore? La risposta non è così semplice, anche se fin da ora vi posso anticipare che, almeno per come la vede il sottoscritto, la teoria di Vinci ha diverse lacune.
Partiamo da un fatto: esistono effettivamente diverse somiglianze fra la cultura micenea e quella germanica settentrionale.
A livello spirituale, così come a livello sociale e bellico vi sono affinità ben più che casuali, queste tuttavia sembrano più da ascriverai ad una comune origine indoeuropea che non ad una effettiva “sovrapposizione” delle popolazione in questione.
La stessa toponomastica, utilizzata dall’autore per rafforzare le proprie teorie, soffre di approssimazioni talvolta grossolane, basate più su affinità di tipo fonetico che non a livello di radici linguistiche.
Anche a livello di “affinità geografiche”, ampiamente usate dal Vinci, vi sono diverse forzature basate su presunte somiglianze attuali di luoghi che, giocoforza, hanno subito diversi cambiamenti negli ultimi quattromila anni.
A livello archeologico la teoria non regge, non vi è nessuna traccia nei luoghi citati dal Vinci di una cultura dell’età del bronzo, nessuna “armatura scintillante” trovata in quei luoghi è ascrivibile al periodo preso in esame. In quegli anni nel mare nord vi erano civiltà di tipo neolitico, interessantissime ma per nulla assimilabili a quanto sostenuto dall’autore.

In definitiva: la teoria di Vinci è estremamente intrigante, ben argomentata e sostenuta ma non regge alla prova dei fatti, ci troviamo quindi davanti ad una teoria invero fantasiosa e per nulla aderente alla realtà.
Essa sembra più scritta per aderire ai desideri dell’autore che per presentare reali scoperte in merito.

Ci è stato detto, in particolare al sottoscritto, che noi dovremmo sostenere la teoria in questione in quanto “glorifica i popoli del nord”, ma noi non siamo di questa idea.

L’aderenza, per quanto possibile, alla realtà, e non al nostro “sentore” verso la stessa, è prerogativa fondamentale per un approccio realmente sano ad una qualsivoglia disciplina, non è inventando o distorcendo che agiscono gli onorevoli.
I popoli non hanno bisogno di “rubarsi” la storia a vicenda, ne abbiamo già in abbondanza, ognuno per conto proprio.

Noi celebriamo i popoli indoeuropei ed euroasiatici nelle loro specificità, senza cercare forzature “nordicizzanti” o “mediterraneggianti” tipiche di una certa letteratura otto/novecentesca.

Noi non tifiamo per il Beowulf o per l’Iliade, vi invitiamo, piuttosto, a leggere entrambi i poemi e a fare tesoro di quanto esso ci tramandano.