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sabato 30 giugno 2018

Galdur e Seiðr

Da tutti gli studi e le ricerche effettuate sui territori del “nord” è emerso che le pratiche maggiormente utilizzate in età pagana sono essenzialmente due, il Galdur ed il Seiðr.
Queste due pratiche sono sopravvissute fino ad oggi.

La principale distinzione tra i due tipi di "pratica magica" è essenzialmente di tipo morale.
Il Seiðr veniva visto come una pratica "vergognosa" poiché prevedeva il ricorso ad atteggiamenti tipicamente femminili. Probabilmente questo tipo di distinzioni indica soprattutto l’area di competenza del maschile e femminile intervenuta con il cambio di società e la guerra tra Asi e Vani.

Altro distinguo tra le due pratiche, è che il Seiðr potrebbe essere vicino alla pratica sciamanica o subirne le influenze poiché prevede uno stato di trance e/o una comunicazione con gli spiriti; non è riconosciuta come pratica sciamanica vera e propria ma molto vicina. Il Seiðr è attribuito al "popolo" dei Vani e Freyja l’ha insegnato ad Odino.

Odino si dice essere il padre dei Galdur, e questa pratica sembra essere prettamente maschile. In effetti la maggior parte dei ritrovamenti - quasi tutti - riguardanti la pratica ed i "sigilli" sono attribuiti agli uomini.

Altre ricerche, portano a definire il Seiðr come una pratica che solitamente utilizza componenti "naturali" (i.e. animali e vegetali) per compiere predizioni oppure per scagliare maledizioni anche se vi sono casi di utilizzo della suddetta pratica per attrarre "fortuna". Il Galdur è invece basato sul linguistico, simbolico e con combinazioni di formule verbali e segni grafici incisi comprese le rune; su questa pratica sono sopravvissute più informazioni.
Altro fatto estremamente rilevante è che la creazione dei "sigilli" è fortemente legata al potere del creatore stesso, quasi ne dipende interamente; il Seiðr invece dipende dal potere di un "alter-ego".

Fonti:
- Galdrabok, Stephen Flowers.

Per approfondimenti sul Seiðr:
- Seidr e Seidkonur nelle saghe islandesi, Carla Del Zotto.

Per approfondimenti sui sigilli: 
- Icelandic Magic: Practical Secrets of the Northern Grimoires, Stephen Flowers.


Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

venerdì 29 giugno 2018

Tempi ultimi

Nove uomini camminano al buio, fra neve e cespugli 
vermigli e turchesi i loro mantelli, d’argento i loro amuleti 

Marciano decisi, legati da un giuramento, latori di una faida, araldi delle leggi antiche 

Sette generazioni non bastano, a l’uomo di saldi principi, per dimenticare, gli Dèi e la legge reclamano giustizia 

Sacrificano a Tyr, e a Godan il viandante, loro guida, e riprendono il cammino accompagnati dal vento 

Cantano come corvi i figli degli uomini, in onore agli Dèi affrontano il loro Wyrd 

Aguzze le lance, robusti gli scudi, i nobili e i liberi vanno alla guerra 

Tempo di asce, tempo di spade
s'infrangeranno scudi,
tempo di venti, tempo di lupi,
prima che il mondo crolli.

giovedì 28 giugno 2018

Contro le cattedrali

L’Europa dei boschi sacri è assai più antica di quella delle cattedrali, che è recente e già boccheggia, morente, dopo meno di due millenni.

Una cattedrale, ogni cattedrale, può essere demolita in poche ore, è solo sterile pietra e nulla resterà di lei se non rovine, la sua assenza, inoltre, non provocherà alcun danno alla terra di appartenenza, al contrario, la vita potrà riprendere il suo corso e fluire nuovamente in quel luogo. 

La cattedrale più antica del mondo impallidisce innanzi alla più “giovane” delle antiche foreste, la cattedrale è inerte, incapace di operare e resistere senza l’opera umana, la foresta è frutto di un afflato divino e vive, si espande e resiste.
È questa la nostra forza, i nostri Dèi ci affiancano in questa lotta, in questo sogno che è via di salvezza per la nostra terra di mezzo, contro tutto ciò che è mortifero.  
Non abbisogniamo di artificio per la nostra opera, i nostri Dèi non dimorano fra marmi e ori, non fra i servi cercano le loro schiere.

Essi sono gli Dèi dei liberi, di coloro che ancora sanno essere ciò che sono. 

Araldi del ciclo eterno di ciò che deve essere, di ciò che si rinnova ogni giorno rimanendo ancorato a ciò che è realmente vero, autentico e sacro.

mercoledì 27 giugno 2018

Età degli eroi

Bagliori nelle tenebre
uomini e donne danzano attorno ad un frassino 
le fiamme si riflettono sui loro capelli biondi, rossi e corvini mentre i capi argentei, fieri e silenziosi, osservano il futuro della tribù muoversi al ritmo dei tamburi, parlare con gli Dèi.
La musica scema, voci profonde e ritmate ne prendono il posto 

Nove sacrifici vengono portati
nove come i mondi
nove come coloro che sacrificheranno 

Vengono letti gli auspici 
una anziana veggente incide un amuleto 
gli Dèi osservano 

Ciò che era unito si separerà per poi ricongiungersi quando verrà il tempo 

Brusii, voci, e colpi di lance sugli scudi 
le tribù si dividono, ognuna segue la via che il Wyrd ha in serbo per lei.

Osso a osso,
sangue a sangue,
membro a membro,
così tornino uniti

Un incantesimo antico viene pronunciato nell’ombra, voce del vecchio Gautr

Non ora, un giorno

martedì 26 giugno 2018

Idromele: la bevanda degli Dèi, parte V

Archeologia dell’idromele

L’idromele è una bevanda fermentata alcolica ottenuta dalla combinazione di miele e acqua, in presenza di lieviti, che sempre accompagnano il miele ricavato dalle api.
In diverse zone del globo l’uomo ha appreso a raccogliere e a nutrirsi del miele d’api sin dai periodi dei Cacciatori-Raccoglitori, e nell’arte rupestre preistorica sono impresse scene di raccolta del miele datate a partire dai periodi Mesolitici (Crane, 2001). La documentazione iconografica più antica in Europa è venuta alla luce nel levante della Penisola Iberica, dove sono state riconosciute diverse pitture rupestri con scene di figure umane circondate da uno sciame di api, che salgono su delle pertiche o delle scale per avvicinarsi agli alveari, e dove parrebbe essere dipinta anche l’azione di fumigare gli alveari per immobilizzare temporaneamente le api (Dams & Dams, 1977).

Fonti:
- Archeologia dell’idromele (Samorini)
http://samorini.it/…/archeolog…/europa/archeologia-idromele/

P.S.
Questa serie di articoli non danno consigli medici, né suggeriscono l'uso di tecniche come forma di trattamento per problemi fisici o non fisici, per i quali è invece necessario il parere di un medico e/o di uno specialista. Non suggeriscono l’uso della bevanda o dei suoi componenti/ingredienti né direttamente, né indirettamente. 
Nel caso si decidesse di applicare le informazioni contenute in questo post, si declina ogni responsabilità. 
L'intenzione del post è quella di essere illustrativo, non esortativo né didattico.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

lunedì 25 giugno 2018

Idromele: la bevanda degli Dèi, parte IV

Mieli inebrianti

Il miele delle api mellifere è un prodotto ricercato dall’uomo sin dalla più remota antichità, cioè dai periodi dei Cacciatori-Raccoglitori, e nell’arte rupestre preistorica sono impresse scene di raccolta del miele datate a partire dai periodi Mesolitici (Crane, 2001).
Ed è dal miele che l’uomo ha appreso, aggiungendovi acqua e lasciando fermentare, a ricavare la più antica bevanda alcolica, l’idromele, che poteva raggiungere gradazioni dell’8-14%.
I dati archeologici, etnografici e mitologici hanno evidenziato un’antichissima sacralità associata al miele e alle api mellifere, tale per cui un po’ ovunque questi insetti furono considerati donatori di saggezza, di eloquenza e di sensibilità musicale e poetica.
In diversi ambiti culturali e religiosi associati all’utilizzo di prodotti inebrianti si è potuto individuare un sostrato più antico dove la bevanda inebriante originaria era ricavata dal miele e fu in seguito sostituita dal nuovo inebriante. E’ il caso del pulque delle antiche popolazioni messicane ed è il caso anche del vino dionisiaco. Come hanno ben evidenziato gli studi di Kerényi (1992: 51-5), la bevanda inebriante originaria dionisiaca era a base di miele e non di vino. Secondo la tradizione orfica il vino faceva parte degli ultimi – in ordine cronologico – doni di Dioniso (si vedano anche gli studi di Brusa Zappellini, 2002, 2010).
Ma l’ebbrezza associata al miele non è solamente dovuta all’idromele. In tutti i continenti dove vivono le api mellifere si hanno notizie di mieli di per sé inebrianti, cioè psicoattivi quando assunti senza la loro trasformazione in idromele, e la grande antichità del rapporto dell’uomo con le api e soprattutto con i suoi prodotti – miele e cera – fa sì che la scoperta umana di mieli psicoattivi si sia verificata un po’ ovunque sin dai tempi preistorici. E’ possibile che la mitizzazione e la sacralità delle api sia solo in parte dovuta alla scoperta e all’utilizzo dell’idromele, e che in diversi casi sia da ascrivere alla conoscenza di specifici mieli psicoattivi, frequentemente dotati di potenti proprietà allucinogene, delirogene, sedative o stimolanti, a seconda dei casi (Samorini, 2015).
Gli abitanti del Caucaso e della Turchia conoscono bene questo miele, chiamato oggigiorno deli bal (i.e. “miele matto”); in piccole quantità (un cucchiaino) viene mangiato come tonico e, sempre in quantità moderate, è aggiunto alle bevande alcoliche per renderle maggiormente stimolanti e inebrianti. Nel XVIII secolo questo miele veniva commercializzato in grosse quantità, esportato per lo più verso l’Europa, dove era consumato come additivo delle bevande alcoliche nelle osterie (Mayor, 2003: 146-7). Ogni anno nelle regioni caucasiche si verificano casi di intossicazione con questo miele, generalmente non gravi, e sembrano più frequenti nelle annate secche che in quelle umide.
Le proprietà psicoattive e tossiche di questo miele delle regioni del Mar Nero sono dovute al fatto che le api lo ricavano da pollini di fiori di alcune specie di rododendro, in particolare Rhododendron ponticum L. e R. luteumSweet, della famiglia delle Ericaceae. Già gli antichi avevano compreso l’associazione fra questo miele e il rododendro. Plinio (Historia Naturalis, XXI, 77), che scriveva nel primo secolo d.C., riportava che “Nella stessa zona del Ponto, là dove si trova la popolazione dei Sanni, c’è un altro tipo di miele, che chiamano menòmeno4 perché provoca la pazzia. Si pensa che questa caratteristica derivi dal fiore del rododendro”. Eliano riteneva che si trattasse invece del fiore del bosso.

Come detto, mieli inebrianti sono noti in tutte le regioni dove vivono le api e le vespe mellifere. I Gurung dell’Himalaya nepalese conoscono un miele inebriante fabbricato da api che hanno raccolto il nettare dai fiori di Entada gigans (L.) Fawc. & Rendle (Leguminosae, sin. E. scadens) (Coburn, 1984, p. 82). In Brasile, A São Paulo, è noto un miele inebriante chiamato feiticeira (i.e. “fattuchiera”), prodotto da api privi di pungiglione appartenenti forse a una specie di Trigona. Il medesimo miele viene chiamato anche ironicamente vamo-nos-embora, che significa “andiamocene”, per via del fatto che coloro che ne assumono diventano troppo ebbri per ritrovare la strada di uscita dalla foresta (Ihering, 1903, p. 272). Nel Paraguay, il miele di una specie d’ape, chiamata cabatatú, “da un violento mal di testa e causa un’ebbrezza forte come quella prodotta dall’acquavite” (Azara, 1809, I: 160). In Misiones, Argentina, Spegazzini (1909: 40) ebbe la possibilità di sperimentare su sé medesimo un miele narcotico chiamato popolarmente mombuca, e riportò che le proprietà narcotiche erano dovute molto probabilmente a fiori di piante psicoattive visitate dalle api. Si ha notizia di un miele psicoattivo anche nella provincia boliviana di Chiquitos, chiamato omocayoch, di buon sapore ma inebriante “come un liquore, causante spesso perdita temporanea della ragione” (D’Orbigny, 1839-1943, cit. in Schwartz, 1948: 132). Ihering (1903: 273) considerava l’effetto del miele prodotto da certe api come depressivo, mentre quello prodotto da certe vespe come esilarante. L’opposizione reale e mitologica fra mieli inoffensivi e mieli inebrianti dell’Amazzonia è stata studiata approfonditamente con una metodologia strutturalista da Lévi-Strauss (1982).

E’stato ipotizzato che il miele utilizzato ancora oggigiorno da alcune popolazioni Maya come ingrediente per la preparazione della bevanda inebriante del balché, possa essere o esser stato psicoattivo. La sua psicoattività sarebbe dovuta al fatto che le api si cibano di pollini di fiori di Turbina corymbosa (L.) Raf., una convolvulacea allucinogena producente alcaloidi ergolinici (Rätsch, 1998, p. 753; Ott, 1998, p. 262). Effettivamente già Roys (1931, p. 281) riportava che “il miele aromatico ricavato dai fiori di Turbina corymbosa è ritenuto dai Maya yucatechi la fonte di una potente bevanda”, e vi sono documenti etnografici in cui si evidenzia la preparazione nella penisola dello Yucatan di un tipo di miele di api melipone dove gli alveari venivano portati nelle radure della foresta dove cresceva la Turbina corymbosa e facendo attenzione che non crescesse alcun altro fiore (Quintanilla & Eastmond, 2012, pp. 270-1).

Fonti:
- Mieli inebrianti (Samorini)
http://samorini.it/site/etnobotanica/varia/mieli-inebrianti/

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

domenica 24 giugno 2018

Idromele: la bevanda degli Dèi, parte III

Bevande fermentate insalivate

La saliva è associata alla storia delle birre e delle altre bevande alcoliche fermentate poiché, come già evidenziato, coinvolta in una primitiva fase della etnofermentologia, dove un po’ in tutto il mondo si scoprì come preparare bevande inebrianti alcoliche da materiale vegetale pre-masticato; fu una scoperta dei periodi neolitici o forse epi-paleolitici dell’umanità. La gradazione alcolica variava e varia tutt’ora fra i 2 e i 7-8 gradi alcolici.
Riferimenti a usi, tradizioni e culti associati alle bevande fermentate insalivate sono presenti presso diverse popolazioni antiche del globo, in particolare quelle indoeuropee, come testimonianza della diffusione di questa arcaica tecnica per ottenere l’ebbrezza; del resto, per spiegare l’universalità di questa primitiva fase dell’etnofermentologia non è necessario elaborare intricate ipotesi diffusioniste, essendo assai probabile un caso di convergenza culturale, ritenendo possibile che questa scoperta sia originata in maniera indipendente in differenti luoghi.

Presso le popolazioni slave nord-europee era diffusa un’antica tradizione che riteneva che la birra, per poter fermentare, dovesse avere come ingrediente la “spuma dell’orso”, cioè la bava o saliva di questo animale, tanto reale quanto mitologicizzata da quelle popolazioni. Non è casuale la relazione etimologica esistente fra i termini tedeschi Bier (i.e. birra) e Bär (i.e. orso), così come l’impiego del medesimo nome nordico antico bjorr per indicare entrambi la birra e l’orso.
Nel poema epico finlandese Kalevala (XX, 300-310) v’è un interessante riferimento alla preparazione della birra alla quale si aggiungeva saliva “delle orribili fauci dell’orso”.
Nell’Edda (Snorri, 4), poema islandese del XIII secolo, viene descritta la pace fra gli Asi e i Vani, due gruppi di dei da tempo in guerra fra loro; per sigillare la pace appena fatta, gli dei di entrambe le schiere sputano nel medesimo recipiente e da questo ammasso salivare creano un uomo di nome Kvasir dotato di saggezza straordinaria.
Questa figura mitologica appartiene al ciclo indoeuropeo dell’Uomo-Bevanda inebriante, di cui il Soma e l’Haoma sono le manifestazioni più note (Dumezil, 1974: 44-6). Il nome Kvasir è strettamente associato al kvas degli Slavi e dei Russi e al kvase norvegese e danese (Isnardi, 1991: 107), che sono nomi indicanti bevande fermentate alcoliche di tipo insalivate, per lo meno nelle fasi primitive della loro preparazione.
Il fatto che Kvasir sia dotato di grande saggezza è dovuto alla sua nascita dalla saliva degli dei; si potrà arguire che le salive divine portano saggezza proprio per la loro natura divina, ma presso diverse culture antiche e attuali sono presenti riferimenti alla saliva, anche umana o animale, come portatrice di saggezza.
In alcune fiabe macedoni un serpente, per ringraziare un uomo che lo ha salvato, gli sputa in bocca e in tal modo l’uomo acquisisce e comprende il linguaggio degli animali o, in un altro racconto, acquisisce virtù profetiche (Eschker, 1998: 141, 206).
Si presentano anche alcuni casi, a mo’ di eccezioni che confermano la regola, in cui la saliva o lo sputo assumono valenza opposta, cioè come detrattori di saggezza. In alcune versioni del mito greco di Glauco, il medico-indovino Polyidos, dopo aver insegnato a Glauco l’arte della mantica e volendo che la sua mente se la dimenticasse, gli sputò in bocca (Paladino, 1978).

Oltre al diffuso valore terapeutico della saliva, esistono casi etnografici, tuttora carenti di studi specifici, in cui la saliva possiede un valore simbolico e rituale come elemento portatore di saggezza. Fra i Chibcha colombiani la saliva dello sciamano (i.e. cacique) è considerata sacra e svolge un ruolo cerimoniale importante nella preparazione rituale della chicha. E’ noto anche che presso diverse tribù del nordest brasiliano la saliva assume valori terapeutici seguendo un’articolata differenziazione fra saliva ottenuta in seguito a prolungato digiuno (“sputo vergine”), saliva del fumatore di pipa di tabacco, saliva del masticatore di foglie di tabacco, ecc. (Gonçalves da Lima, 1990: 332).
Verificata la presenza della saliva come importante elemento nella primitiva fase dell’etnofermentologia, è possibile che il suo valore simbolico come portatrice di saggezza origini dal concetto che la saliva – umana, animale o divina che sia – è responsabile della produzione di bevande inebrianti – queste ultime universalmente arrecanti saggezza oltre che allegria – seguendo quindi il sillogismo 'saliva = ebbrezza = saggezza' (Samorini, 2016).

Fonti:
- Bevande fermentate insalivate (Samorini)
http://samorini.it/…/americhe/bevande-fermentate-insalivate/

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

sabato 23 giugno 2018

Idromele: la bevanda degli Dèi, parte II

Archeologia delle bevande alcoliche

L’archeologia delle bevande alcoliche è vastissima, e per descrivere con una certa estensione l’archeologia del vino o della birra sarebbe necessario stendere un voluminoso libro. E in effetti esistono diversi saggi a riguardo (ad esempio, per il vino si veda McGovern, 2004b; per la birra Nelson, 2005). In questa sede verrà focalizzato solamente il problema delle origini delle bevande fermentate.

L’alcol etilico viene prodotto in natura da specifici meccanismi biochimici. Esso si forma principalmente laddove siano presenti nel medesimo ambiente zuccheri, acqua e lieviti. Questi ultimi sono ubiquitari, specialmente in concomitanza di materiale vegetale. Moltissimi frutti di alberi e arbusti contengono nella loro polpa zuccheri e acqua, e quando superano un certo grado di maturazione, i lieviti iniziano a metabolizzare gli zuccheri producendo l’alcol. Quando una mela, una pera o altro frutto ricco in polpa saccarina viene attaccato dai lieviti, “marcisce” e inizia a produrre alcol. Il processo di formazione del vino dal succo d’uva (mosto) si basa su questo meccanismo biologico.
Diversi animali frugiferi si cibano di frutta ultra-matura, e di conseguenza si ubriacano per il suo contenuto alcolico. I moderni studi etologici stanno evidenziando come questo comportamento in frequenti casi non sia accidentale, bensì corrisponda a un’intenzionale assunzione di alcol per conseguirne i suoi effetti psicotropi (Samorini, 2013). L’alcol etilico si produce anche quando la linfa zuccherina di alberi o di piante succulente, a causa di una rottura accidentale o intenzionale, fuoriesce dai suoi canali conduttori, mettendola così a contatto con i lieviti, come è il caso del foro praticato nelle piante messicane di agave per produrre la bevanda alcolica del pulque (Samorini, 2012).

Fonti:
- Archeologia delle bevande alcoliche (Samorini)
http://samorini.it/site/archeologia/asia/bevande-alcoliche/

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

venerdì 22 giugno 2018

Idromele: la bevanda degli Dèi, parte I

L'idromele di poesia di Odino

La bevanda inebriante più diffusa nella mitologia scandinava è l’idromele. Dei e uomini ne bevono ad ogni occasione. Nell’opera islandese nota come Edda di Snorri, sono riportate le origini mitiche di questa bevanda, che vanno dalla creazione mediante lo sputo divino di un uomo saggio chiamato Kvasir, alla sua uccisione da parte di due nani, che ottengono l’idromele mescolando il suo sangue con del miele, al passaggio di possesso dell’idromele ai Giganti, sino al furto della bevanda per opera di Odino, che lo ruba affinché tutti gli Asi e gli uomini dotati di abilità poetiche ne possano bere.

Nel racconto scandinavo, Bragi è uno degli dei Asi, di cui Odino è il principale rappresentante. Ægir è un uomo esperto nella magia. Un giorno questi decide di recarsi presso gli Asi, i quali in suo onore preparano un banchetto. Bragi siede accanto a Ægir, e i due conversano a lungo su diversi eventi in cui furono coinvolti gli Asi. Durante questo dialogo, Ægir chiede a Bragi come sia originata la poesia, ed Ægir si cimenta nel racconto delle origini dell’idromele di poesia e su come Odino fosse riuscito a impossessarsene rubandolo ai Giganti.

Fonti:
 - Idromele di Odino (Samorini)
http://samorini.it/site/mitologia/alcol/idromele-di-poesia/

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz 

giovedì 21 giugno 2018

Fate nel Medioevo

La favolistica medievale del principiare dell'anno 1000 è caratterizzata dalla forte presenza di demoni, spiriti maligni, streghe e fate.

Quest'ultime venivano intese non nella loro dimensione di dirette discendenti di divinità politeiste bensì come entità difisite aventi quindi una duplice natura, quella di entità profetiche e quella di viva rappresentazione del desiderio; proprio a causa di quest'ultima spesso venivano demonizzate.

L'identificazione delle fate come entità difisite fu conseguenza del tentativo di integrare divinità arcane quali ad esempio le Norne - tessitrici delle sorti delle umane genti - in un sistema di pensiero ortodosso e prettamente cristiano; tentativo che avviò già sul suo nascere la lenta trasformazione nell'immaginario collettivo di quest'ultime in streghe.

Ecco un ennesimo esempio di come le schiere monoteistiche e confessionali del Cristo bianco piegarono ai loro usi le antiche credenze snaturandole e demonizzandole.

mercoledì 20 giugno 2018

Zhiva

Zhiva, la dea della vita e la protettrice del mondo di Yavi, prima divinità femminile chiave degli antichi slavi. 

Lei, come Svarog, abbraccia tutto il mondo, lo controlla e controlla l'attuazione delle leggi di Rod. 

Allo stesso tempo, Zhiva, come altri dei supremi, è abbastanza saggia da non interferire mai nella vita dei mortali senza necessità estreme. Probabilmente, è per questo che il folklore popolare non ha mai menzionato questa dea.

Tuttavia, è noto che una volta nella città di Ratibor, si trovava uno dei più grandi templi slavi, al centro del quale si trovava l'idolo di Zhiva. C'è motivo di credere che questo tempio fosse interamente il santuario di Zhiva e che gli idoli di altri dei non esistessero.

 
• Lelya, Lada e Makosh sono incarnazioni di Zhiva, che caratterizzano i tre stadi del divenire della donna. Lelya è una giovane ragazza giocosa e spensierata. Lada è una giovane donna, misurata e aperta. Makosh è una donna sposata che ha dato vita ai successori della famiglia. In questa divinità ritroviamo una similitudine con i tre aspetti della Dea madre, fanciulla, madre e anziana.

martedì 19 giugno 2018

Kupala

Kupala (Solstizio d'estate) 

Kupala è una delle principali festività slave. È stata celebrata per secoli, ed è ancora osservata oggi. Prima del cambio del calendario nel 1918, era tradizionalmente celebrata il 24 giugno (questo significa che la vigilia di Kupala sarebbe caduta il 23 giugno). 

Tuttavia, dopo il cambio di calendario, le persone hanno iniziato a festeggiarla il 7 luglio (esattamente sei mesi dal Natale ortodosso). Molti che seguono il sentiero antico preferiscono celebrarla direttamente alla data del solstizio d'estate. Dunque Kupala è una festività collegata al solstizio d'estate, quando le notti sono le più corte dell'anno, e trova il suo opposto nella festività di Koročun (Koliada) collegata al solstizio d'inverno. Nella regione occidentale del Lemko ucraino e nella regione di Prešov si chiama Sobitka.

Il solstizio d'estate era considerato dagli slavi come un giorno di unione, un "matrimonio" per così dire, tra il cielo e la terra, il fuoco e l'acqua. 

Questo è il giorno più lungo e la notte più corta dell'anno, e dopo questa festa, il giorno si accorcia, mentre la notte guadagna lentamente tempo.
La festa di Kupala sembra essere satura di magia e meraviglie. 

È solo nella notte di Kupala che gli alberi sono in grado di camminare, erbe e fiori - sussurrare l'un l'altro, e da qualche parte nei boschi fiorisce una magica felce (Il seme di felce permetteva di trovare tesori nascosti, mentre il leggendario fiore di felce - che non esiste, al pari del seme, in quanto la felce è una pianta pteridofita, cioè che si riproduce tramite spore - rendeva invisibili i suoi fortunati raccoglitori.) - un sogno di amanti e cacciatori di tesori. 
Gli spiriti maligni però sono svegli e attivi, in attesa di quelli perduti e soli. Perché come in altre credenze, in questo periodo caotico, di "passaggio", così come gli esseri umani hanno libero accesso a regni e poteri soprannaturali, così anche le entità malefiche possono vagare indisturbate per il nostro mondo. 

Alle erbe e alle piante raccolte durante la vigilia di Kupala, venivano attribuite forti proprietà magiche. Si credeva che tali erbe potessero proteggere dalle forze malvagie della natura e persino curare malattie negli uomini e negli animali. È comune credenza che moltissime piante raccolte in questo periodo abbiano poteri quasi miracolosi.
In questa celebrazione solstiziale anche l'acqua ha un ruolo fondamentale, sopratutto nella sua forma di rugiada o "guazza di San Giovanni", cui sono attribuiti poteri miracolosi: fare ricrescere i capelli, ringiovanire la pelle o addirittura propiziare la fertilità. Non era raro che molte giovani donne e malati si bagnassero nudi nei prati con la magica rugiada questa notte.

Riferimenti scritti di questa festività risalgono all'XI secolo. Le sue origini tuttavia sono molto precedenti. 
Il termine "Kupalo" fu menzionato per la prima volta nella Cronaca di Ipata sotto l'anno 1262. Nei documenti della chiesa medievale e precocemente moderna, ad esempio "Il discorso di San Giovanni Crisostomo" e "L'epistola di Hegumen Pamphil" del monastero di Pskov (1515) ) - ci sono descrizioni abbastanza dettagliate delle feste lascive.
Verso la fine del 19° secolo la maggior parte delle credenze pagane legate ai rituali di Kupala era svanita. Tuttavia, nonostante gli sforzi della chiesa e dei governanti secolari questa festività è ancora ampiamente celebrata  sebbene nella sua veste del giorno di Ivan Kupala, per la chiesa orientale corrispondente a quella di San Giovanni battista.

|Fonti:
www.meettheslavs.com
MagPie's Corner - East Slavic Rituals, Witchcraft And Culture
destinations.com.ua

In collaborazione con la pagina FB Slavic Polytheism and Folklore notes 

lunedì 18 giugno 2018

Essere tribù

Passati due mesi dall’apertura del blog mi sembrava d’uopo procedere nello spiegare il perché di questo progetto e quali sono i suoi obbiettivi sul medio e lungo periodo.

Le vie di Wodanaz nasce prima di tutto da una scelta, quella di affrontare il mio percorso nell’antica via e per gli Dèi in maniera coerente, senza ipocrisie o abboccamenti da parte di una qualunque ideologia, moderna o meno che fosse, nasce poi da un incontro con una persona che, come me, condivide questo sogno di una società nuova, eterna e arcaica ad un tempo nel quale la luce dei veri Dèi possa brillare nuovamente indisturbata dall’oscurità del monoteismo.

Non è stato un percorso lineare, e men che meno agevole, specialmente nella sua fase primaria, quando tutto era ancora una bozza.

Abbiamo quindi scelto la linea che, per ovvie motivazioni, è quella della fede antica e rurale, del tribalismo e della società eterna da opporsi alla vacuità di quella moderna, abbiamo scelto anche di essere ambiziosi, di pubblicare con cadenza giornaliera per offrire sempre, in maniera semplice e diretta, nuove informazioni per stimolare la fede e la ricerca personale, nello stile che ci contraddistingue, che è quello schietto e tribale, semplice in maniera che la conoscenza possa essere facilmente trasmessa oralmente da chi ne viene a contatto. 

Perché Le vie di Wodanaz è un progetto prima che un blog, un sogno, il ritorno di una nuova era di fuochi e racconti, la formazione di nuove comunità (al plurale, dato che siamo tribalisti e localisti) di genti sani, devote agli Dèi e ai propri antenati, che possano riunirsi e collaborare per rendere meno fitta l’oscurità di questa età del lupo. 

Il nostro è un progetto fatto da volontari, senza scopo di lucro e senza finanziamenti di alcun genere, a muoverci sono la fede negli Dèi ed il comune desiderio di un futuro migliore per la nostra bella terra di mezzo. 

Questa è la nostra missione ed il nostro obbiettivo, la creazione di comunità sane, indipendenti e coese, unite fra loro dalla comune fede negli Dèi e da un legame confederativo che nulla tolga alle specificità locali. 

Fare indipendenti, in tutto e per tutto. 


Questo è quanto, nulla più e nulla di meno.


Chi volesse entrare a far parte del nostro progetto è il benvenuto, basta contattarci, siamo fra pari, uomini e donne liberi innanzi agli Dèi, uniti, pronti a resistere all’età del lupo.

domenica 17 giugno 2018

Tribalismo rurale

La natura dell’uomo libero è rurale, risiede fra alberi e pietre, nella dimensione più consona ai fieri: quella agricola e tribale. 

Non la stretta viscida e fredda di una metropoli senz’anima avvolge il cuore dei sani ma il calore del sole e il verde delle foglie, nessun grigio palazzo oscura la sua vista, libera di vagare per le sue terre.

La società urbana, frutto e metodo dello schiavismo di un tempo e di ogni tempo, nulla crea, essa vive da parassita, a spese di chi coltiva, alleva e raccoglie, essa è vacuità, illusione basata sul nulla. 

Nessuna città è e sarà mai autosufficiente, ogni comunità agricola potrebbe, senza eccessivo sforzo, esserlo. 

In un mondo sempre più devastato e urbanizzato l’unica speranza risiede in colore che scelgono, contro ogni mondanità, la via di chi preserva. 

sabato 16 giugno 2018

Eurasia mistica

 Gelo

scricchiolio di rami sotto pesanti stivali

un’ombra cammina per sentieri obliati, diretta verso il proprio destino.

Roman il folle, Roman il sognatore, Roman Il saggio, avvolto in una pelle di renna sta sognando con gli Dèi.


Tamburi 

Crepitio di fiamma 

Vento

Fumo, pelle, pelliccia 

Ricordi sopiti, istinti soffocati 

Ombre che camminano

Fra alberi e rocce

Acque e spiriti 

Un altare 

Ossa e carni 

Voci 


Tutto ritorna e rinasce, il ciclo eterno ciò che deve essere 

vita e morte, lotta e ignavia 

due medaglie, due facce 

 

Un lungo mantello, un grigio viandante

il vecchio guercio tornerà su questa terra di mezzo 


Visioni di spada, nebbie, salici ed ere 

eterno ritorno, tribù, legami 


Stirpe ugrica, stirpe germanica, figlio del Piccolo Padre 

Signore delle lance e delle spade, archetipo, signore della guerra



Questo vede Roman il giovane, questo sente Roman il massacratore, lento marcia nella notte, Sceadugenga, ombra tra le ombre 

venerdì 15 giugno 2018

Mardǫll

Nenie e canti aleggiano fra i campi 

lodi e omaggi alla signora di Sessrumnir


Veglia su gemiti e ardori, la giovane Óð's, madre della battaglia, pace degli innamorati, delizia del morente 


A lei, Gefn, che a generato Gǫrsimi e Hnoss, dedichiamo il cuore e la spada, l’ardore e la passione 


Sorella e amante, figlia e moglie, donatrice del Seiðr, prediletta fra i Vanir. 


Volete saperne ancora? 

giovedì 14 giugno 2018

Grímnir

Una pioggia fitta batte contro il tetto di cannicci dell’aula, un uomo solo, ancora sveglio, fissa le braci del fuoco morente. 
Vi si rivede, l’anziano patriarca, un tempo possente, ammirato in battaglia e nel thing, canta ora le gesta di coloro che gli sono succeduti. 
La mano, ancora forte, incide una runa su una costola di lupo 
“Manwaz”
Pronuncia lentamente, in tono musicale, cantilenante 
“Manwaz” 
Pietra contro osso
“Manwaz” 
Fuliggine e miele fanno risaltare 
“Manwaz” 
La lama sfugge, un nuovo taglio su antiche cicatrici
“Manwaz”
Un grigio viandante varca la porta, percorre la sala, estraneo e familiare, terribile e fonte di delizia 
Giunge il tempo, l’uomo caro lascia i propri congiunti, la costola cade, capovolta
Destino di ognuno, su questa terra di mezzo

mercoledì 13 giugno 2018

Sul termine “vichingo” e sulla sua epoca

Quando si parla di popoli del Nord il pensiero della maggioranza delle persone va all'epoca, volgarmente detta, "vichinga", periodo durante il quale gli scandinavi - principalmente Dani, Svioni e Norvegesi, le principali grandi tribù ancora libere - pressati dall'avanzata del cristianesimo reagirono con una serie di spedizioni che sconvolsero l'Europa, l’Africa e l’Asia e sconquassandone l'aspetto.

Si tratta di un periodo sicuramente peculiare, un lasso di tempo nel quale gli uomini del Nord dimostrarono ad ogni altro popolo la propria forza ed il proprio valore. 
Ma fu anche un'epoca di forte decadenza, il triste epilogo di una tragedia iniziata più di un millennio prima con i primi scontri fra germani e romani, fra ordine naturale e artificio. 
Un epoca di lingue e lame, la prima dell'età del lupo.


martedì 12 giugno 2018

Uomo eterno e uomo moderno

Eliminare dalle proprie vite tutto ciò che è futile assieme con tutto ciò che distrae senza arricchire spirito e corpo, compiere il sovrumano sforzo di padroneggiare sè stessi per potersi migliorare innanzi agli Dèi.
Fare propri i valori della fede e del tribalismo, della lotta e dell'anima, saper distinguere l'utile dal disutile, essere realmente liberi nell'essere radicati.
Saper ascoltare il vento e le foglie, l'acqua e la terra; trarre saggezza dagli spiriti e dedicarsi all'Eterno di contro a ciò che è labile accettando il destino e la propria sorte senza lagnanze essendo consapevoli di non potersi opporre al fato.
Accettare la propria mortalità come i nostri antenati han fatto prima di noi onorandone l'operato e portandone avanti la stirpe.
Essere tribù, legno e paglia, albero e foglia.
Vita.

lunedì 11 giugno 2018

Indoeuropei nell’estremo Oriente antico

I Wusun, cavalieri d’Oriente

Di questo antico popolo indoeuropeo, orgoglioso e capace in battaglia, è molto difficile sentir parlare, almeno in Occidente, la storiografia occidentale moderna, drogata di civitas, presta già ben poca attenzione a quelli che furono i popoli indoeuropei stanziatisi su suolo europeo e tende ad ignorare quasi del tutto quelle tribù di nostri affini che, spinte dalla necessità o dalla sete di avventura, si avventurarono fino al lontano Oriente.

Fortunatamente gli orientali, che interagirono a lungo con queste genti, ci hanno lasciato molte testimonianze sulla vita e sugli usi di questi grandi popoli guerrieri.
L’origine del loro nome, come per tutte le grandi tribù, è avvolta dal mistero, deriva infatti dalla parola cinese 烏孫, che letteralmente significa “figli dei corvi” o “discendenti dei corvi”, è stata teorizzato anche il significato di “Popolo dei cavalli”, da áśva, cavallo in sanscrito, e dalla aśvin, uomo a cavallo in lingua indoiranica.

Originariamente vassalli (o parte del popolo) degli Yuezhi*, potentissima tribù indoeuropea affine, come gli stessi Wusun del resto, ai più noti Sciti*, divennero successivamente una tribù molto potente ed influente, che ebbe contatti con le maggiori potenze del tempo, sia indoeuropee che orientali.
Dalle fonti dell’epoca sappiamo di numerosi matrimoni politici fra principesse cinesi della dinastia Han e Gun-mo (re tribali) Wusun.
Divenuti con il tempo dei fidati alleati della dinastia vissero quindi ai confini dell’impero per diversi secoli senza tuttavia esserne assimilati e continuando a preservare la propria identità tribale per diversi secoli.

Scompaiono dalle cronache durante il V secolo, probabilmente incorporati dagli Eftaliti, potente unione di tribù nota in occidente come unni bianchi.


*Le tribù segnato con l’asterisco verranno trattate in futuro, sempre su questa rubrica.

domenica 10 giugno 2018

níðstöng o tréníð / vindgapi

La Saga di Gísli (Gísla saga) riporta la descrizione di un palo d’infamia (níðstöng o tréníð), eretto per fini denigratori. Tale azione era punibile con l’esilio, poiché insieme al testo infamante (níð) il palo veniva allestito con oscenità, come si legge nella Saga della gente di Vatnsdal:

“I fratelli aspettarono fino alle tre del pomeriggio e allora Jökull e Faxi-Brandr andarono fino all’ovile di Finnbogi che era vicino alla fattoria; presero un palo e lo portarono alla fattoria. C’erano là anche dei cavalli che avevano cercato riparo durante la tempesta. Jökull intagliò la testa di un uomo a un’estremità del palo e scrisse in rune tutto il preambolo di cui si è detto prima. Poi Jökull uccise una giumenta, la squartarono e l’infilarono sul palo, rivolta verso la casa a Borg. Poi tornarono a casa, passarono la notte da Faxi-Brandr ed erano di ottimo umore”.

Il palo d’infamia non riportava dunque solo maledizioni in caratteri runici ma esprimeva anche un’evidente accusa di ergi, vale a dire di omosessualità passiva, poiché la persona per la quale era stato innalzato veniva paragonata a una giumenta, ovvero a un essere femminile (Sull’accusa di essere simile a una donna, o a un essere di genere femminile, quale massima offesa secondo il codice etico di epoca vichinga, cfr. supra, n. 29); la testa equina infilzata su un’estremità del palo, quasi a guardare l’altra estremità con sopra raffigurata una testa d’uomo, sembrava così evocare il coinvolgimento in un atto osceno della giumenta e dell’uomo, per il quale era stato eretto il palo.

(Seidr e seidkonur nelle saghe islandesi – Carla Del Zotto)

NB: Erigere il palo d’infamia non rientra nella tipologia di incantesimi in cui si ricorre al seiðr. I testi islandesi menzionano una pluralità di incantesimi, realizzati anche senza ricorrere al seiðr. Nella Saga di Grettir (Grettis saga) la nutrice di Þorbjörn compie un sortilegio incidendo rune malefiche su un tronco d’albero; il ceppo stregato e poi gettato in mare sarà raccolto da Grettir che tagliandolo si procurerà la ferita mortale. La Saga di Gísli (Gísla saga) riporta la descrizione di un palo D’infamia (níðstöng o tréníð).

(Seidr e seidkonur nelle saghe islandesi – Carla Del Zotto)

Altri riferimenti:

Nella Saga di Egil, ambientata tra Scandinavia, Islanda e Isole britanniche nel X secolo ma composta intorno al 1230 - forse da Snorri Sturluson (1179-1241), eminente uomo politico e letterato dell’Islanda medievale - il protagonista rivela moltitratti odinici; Egil è scaldo, vichingo, mago, maestro di rune e discendente di berserkir. Il contrasto per l’eredità della moglie lo vede in conflitto con la casa regnante di Norvegia, e per vendicarsi dei torti ricevuti Egil innalza contro Eirik Ascia-insanguinata e sua moglie Gunnhild un palo d’infamia ( níðstöng); vale a dire, un bastone con sopra incisa una potente maledizione, sormontato inoltre da una testa di cavalloquale grave marchio d’insulto, in quanto simbolo di codardia e omosessualità.

Nel cap. 57 della saga si legge che Egil, dopo aver ucciso Berg Onundr e il figlio di re Eirik, tornò di nuovo sull’isola e «preso un ramo di nocciolo salì su un promontorio roccioso rivolto verso la terraferma. Poi infilò una testa di cavallo sul bastone e pronunciò queste parole rituali: “io innalzo qui un palo d’infamia verso re Eirik e la regina Gunnhild”; e, girando la testa del cavallo verso il continente, disse:

“e io rivolgo questo insulto verso i numi tutelari che abitano questa terra affinché errino dappertutto per strade sbagliate, e non prendano né trovino il loro posto prima che re Eirik e Gunnhild siano cacciati dal paese”. Piantò quindi il bastone in una fenditura della roccia e lo lasciò lì. Girò anche la testa del cavallo verso la terraferma e incise rune sul bastone e queste (rune) dicono l’intero incantesimo.

Poi Egil tornò alla nave. Issarono le vele e navigarono in mare aperto»

In Saxo l’episodio è presentato secondo la prospettiva cristiana come una vana pratica di superstizione. Nei Gesta Danorum si legge che Grep, non avendo ottenuto dal re il permesso di vendicarsi con le armi, cercò di prevalere su Eric facendo ricorso alla magia nera. Raggiunta la costa con un drappello di maghi, essi dapprima infilzarono su una lancia la testa di un cavallo sacrificato agli dèi; poi gli tennero aperta la bocca infilandovi pezzi di legno, credendo così di riuscire a dissuadere Eric dall’attraversare il fiume. Questi, compreso il significato nefasto dell’osceno apparato agitato dai maghi, intimò ai suoi uomini di non parlare per non attirare malefici, ma continuò ad avanzare e disse:

«questo carico di cattiva sorte ricada su coloro che lo innalzano e tocchi a noi un destino migliore».

Poco dopo coloro che continuavano a muovere la lancia sormontata dalla testa di cavallo furono travolti dalla stessa che cadde su di loro.

(Maleficia vel litterae solutoriae - Il valore magico delle rune. Carla del zotto)

Un secondo palo simile al primo è il vindgapi. Su questo non ci sono molte informazioni. Secondo il museo islandese di stregoneria e stregoneria a Strandir Islanda:

Lo scopo di un vindgapi era creare tempeste e attaccare case e villaggi costieri e uomini in mare aperto. E stato preso abbastanza sul serio che diversi uomini nel XVIII secolo sono stati perseguiti per omicidio dopo essere stati accusati di aver causato una tempesta che ha causato diverse morti.

La testa di pesce veniva posta sopra un palo scolpito con rune di imprecazioni. Quindi un sigillo runico doveva essere scritto usando una piuma di corvo sulla testa del pesce con sangue prelevato dal piede destro. Il vindgapi doveva essere posto dove la terra incontrava il mare con la bocca aperta rivolta verso la direzione in cui i venti dovevano. Secondo la tradizione, più alto era il vindgapi, più forte era la tempesta.


CONCLUSIONI PERSONALI

Potremmo azzardare Che la differenza dei due tipi di pali, sia di natura “territoriale”, nonché legata a diversa “funzione”. Mentre nel primo (níðstöng) veniva chiamati spiriti legati alla terra, nel secondo (Vindgapi) vengono chiamati “spiriti o mostri” marini. L’ipotesi scaturisce dal fatto che trattandosi di villaggi costieri, dove la maggior parte delle morti potevano essere causate da tempeste e “mostri marini”, la testa di giumenta sia stata sostituita da una testa di pesce molto “brutto” quasi a simulare un “mostro marino”. In fin dei conti se il níðstöng ha implicazioni con spiriti terreni, potrebbe essere del tutto plausibile che il vindgapi è in relazione con spiriti del mare e la testa di giumenta sia stata sostituita con la testa di un “pesce”.

Esempi moderni:

Durante la dimostrazione del 4 aprile 2016 contro il primo ministro islandese Sigmundur Davið Gunnlaugsson, sono stati utilizzati pali di infamia improvvisati con teste di merluzzo essiccate.


Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

sabato 9 giugno 2018

Vikings o Dell'arte della guerra, III

Scontri campali, parte II

Spesso in film o serie televisive a tema alto medievale si è soliti poter osservare folti gruppi di arcieri lanciare nuvole di strali contro le truppe appiedate del nemico.

Vikings non è di certo esente da tutto ciò pur se ai tempi dei germani settentrionali archi e frecce avevano un ruolo più che marginale nello svolgersi degli scontri campali. Queste erano infatti pensate come armi atte alla caccia e raramente venivano impiegate in ampi numeri sui campi di battaglia. In questi casi un gruppo di pochi individui soleva lanciare sullo schieramento nemico in avvicinamento nugoli di frecce che cessavano di esser scoccate non appena i due schieramenti si fossero fra loro scontrati. Se una battaglia aveva luogo su terreni accidentati con alture e rocce scoscese, il gruppo armato di archi era solito poi attaccare piccoli gruppi asserragliati su posizioni di difesa compiendo così azioni di disturbo ai danni del nemico.
Esempli gratia di ciò sinora detto è la battaglia di Vigrafjörður narrata nella Eyrbyggja saga, durante la quale i figli di Þorbrandr - asserragliati su una roccia dalla quale potevano osservare l’intero svolgersi dello scontro sul sottostante fiordo ghiacciato - vennero investiti dagli strali scoccati da Steinþór e dai suoi uomini.

Il fatto che molti credano in un vasto uso in battaglia di archi da parte dei germani settentrionali è da ascriversi al resoconto che Snorri Sturluson fece dello scontro fra Haraldr Hárfagri ed i Geti nella sua Heimskringla:

Ríks þreifsk reiddra øxa
rymr - knôttu spjǫr glymja -
- svartskyggð bitu seggi
sverð - þjóðkonungs ferðar,
þás hugfyldra hǫlða
(hlaut andskoti Gauta)
hôr vas sǫngr of svírum
(sigr) flugbeiddra vigra.


Crebbe il fischio delle brandite asce
Della grande armata del re;
Spade brunite morsero uomini;
Lance risuonarono quando il canto di
Giavellotti rimbombava sulle teste di
Arditi uomini. 
Allora l’avversario dei Geti
[i.e. Harald Hárfagri]
ebbe la vittoria.

Il termine usato per indicare i giavellotti (i.e. “flugbeiddra vigra” ossia “lance [vigra] mosse [beiddra] dal volo [flug]”) venne in passato erroneamente tradotto come “frecce” dando così origine al mito degli infiniti nugoli scoccati in battaglia da parte di fantomatici arcieri fra i germani settentrionali.
Solamente durante uno scontro navale i suddetti erano soliti impiegare gli archi in numeri elevati al fine di poter spazzare il ponte di un’imbarcazione avversaria dai nemici ivi presenti. Testimonianza di ciò è il passo della Ólafs saga Tryggvasonar nel quale viene narrato lo scontro navale in cui perì re Ólaf; scontro che ebbe luogo a Svölðr nell’anno mille. Ivi si narra che re Ólaf scagliò molte frecce ed alcuni giavellotti assieme ad i suoi; fra questi spiccava Einar per destrezza con l’arco.

Per quanto concerne la cavalleria, i germani settentrionali ed i sassoni ne erano privi in quanto non possedevano cavalcature atte a svolgere questo ruolo. I cavalli di cui disponevano erano di stazza medio bassa ed essendo poi questi onerosi da acquistare e da mantenere non venivano mai cavalcati in battaglia.

venerdì 8 giugno 2018

Le streghe il volo ed i diversi unguenti


“Prendi grasso di fanciullo, Aconito bollito, foglie di Pioppo, Belladonna, Giusquiamo, Stramonio, Canapa ed altre droghe; mescolale con bitume di focolare. Aggiungi un gatto scorticato, un rospo[1], una lucertola ed una vipera e poi al fuoco vivo, finché siano ridotti in cenere. Quando appaiono vermi pungenti, allora l'unguento sarà pronto. ”

Una famiglia di piante è molto particolare, le “solanacee”.
Non molti sanno che a questa famiglia appartengono ortaggi di uso comune come le patate, i pomodori e le melanzane (Dal contenuto di sostanze allucinogene trascurabile nella normale alimentazione e, concentrato nelle parti verdi degli ortaggi e della pianta stessa).

A questa famiglia appartengono anche delle erbe da sempre attribuite alle streghe:

- La Mandragora (alraun presso i popoli germanici che significa mistero),

- Atropa Belladonna (Atropos: Parca che taglia il filo della vita e belladonna poiché nel rinascimento le donne usavano alcune gocce nei loro occhi per allargare le pupille, chiamata anche devil’s cherries in inglese),

- la Datura Stramonium ("Erba del Diavolo", "Pomo del Diavolo" ed infine "Erba Strega" poiché fu adottata dai negromanti per provocare incubi o visioni. Si diceva che gli esseri infernali si cibassero di stramonio, il cui effluvio disgustoso li incantava ed inebriava).

-Giusquiamo (chiamata dai celti "Beleonuntiam" sacra a Belenus chiamata anche “erba del diavolo”. Il vescovo Alberto il Grande, che nel XIII sec. era considerato un mago, riferisce dell'uso del giusquiamo da parte di negromanti per evocare demoni e spiriti maligni.) causa la perdita del controllo della mente, tanto è vero che veniva usata come siero della verità.

-Aconito (dal greco akòne che significava pietra, e nata dalla bava di cerbero) usato nella notte prima del sabba.

Esistono diversi tipi di unguenti: unguento del sabba, l’Euleterio satanico, l’unguento per volare e tutti hanno in diverse concentrazioni/dosi parti delle piante sopra elencate o più parti di più piante. Le streghe erano donne medicina, levatrici, guaritrici, che conoscevano la “vita e la morte”.
Erboriste esperte utilizzavano sapientemente le piante per ottenere i più svariati “effetti” tra cui il volo.

… ci sono delle donne, quelle che chiamiamo streghe, che spergiurano che possono andare in ogni parte (...) una volta cosparse di uno strano unguento (...). E là si permettono ogni sorta di piacere. (…)

Non ho parlato di pozioni ma di unguenti (Paolo Portone - storico e saggista che rintraccia molte attestazioni dell'uso di unguenti, nei processi che iniziano dal XV secolo) per un motivo ben specifico, infatti, le streghe sono spesso rappresentate nude con la scopa o, a cavallo di una scopa, che in base alle credenze conferiva loro poteri magici e tra questi il volo.
In realtà le streghe essendo esperte di erbe sapevano benissimo che i componenti delle piante sopra citate se venivano messi a contatto con la pelle e le mucose massimizzano l’assorbimento dei principi attivi e riducono gli effetti collaterali (Queste piante sono allucinogeni e fortemente tossiche. L'ingestione o la dose sbagliata può portare alla morte nella maggior parte dei casi ed infatti erano usate anche come veleni).
Esse usavano una specie di “scopetta” ( è probabile che le preparazioni di questi unguenti venissero effettuati con zangole simili a quelle per montare la panna, una volta fatte bollire le erbe nel grasso, il bastone che veniva utilizzato per mescolare l'unguento, veniva poi utilizzato per cospargerlo) o più semplicemente usavano il pestello del mortaio con cui avevano preparato la pozione per cospargere i loro orifizi anali e vaginali (da qui la frase: ...là si permettono ogni sorta di piacere....).
In questo modo l’assorbimento di tali sostanze era anche accelerato durante i sabba (ed ecco probabilmente perché spesso venissero viste nude).

Le proprietà delle erbe sopra citate producono effetti con sensazioni simili al volo e sono tutte fortemente allucinogene.
Per quanto riguarda il giusquiamo sembra anche che l’odore intenso del fiore abbia già effetti psicoattivi e rilassanti.
_____________________________________________

[1] nota bene la parola rospo.
A primo impatto non sono chiari i riferimenti al rospo ma, ci sono chiari riferimenti ai rospi per indicare l’Amanita Muscaria. Infatti ci sono delle ricerche che lo associano direttamente all'Amanita Muscaria: ......vogliamo ricordare che, sebbene il fungo non rientrasse direttamente nelle confessioni delle streghe, nei loro racconti troviamo spesso riferimento al rospo.
Ora, c'è una specie di rospi, ritenuta dalle credenze popolari velenosa, la quale si apposta all'ombra dell'ovulo malefico per mangiare le mosche uccise dal suo veleno; in tal modo, nella pelle di questi batraci si accumula un potente alcaloide, la bufotenina. Sulla scorta degli studi compiuti agli inizi di questo secolo da Phisalix e Bertrand, i primi a isolare l'alcaloide bufotenina nella ghiandola parotide di un rospo, le fantasiose descrizioni delle streghe assumono ben altra consistenza, laddove si ponga attenzione soprattutto agli effetti allucinogeni che questa sostanza è in grado di procurare. Gli studi recenti sulla bufotenina hanno infatti riscontrato le seguenti manifestazioni: aumento dell'energia muscolare, dell'aggressività e dell'eccitazione sessuale; aumento delle capacità psichiche e sensazione di chiaroveggenza; infine, dato assai interessante, perdita del senso delle coordinate spazio-temporali, con conseguente sensazione di volare. (Paolo Portone - storico e saggista).

NB: Questo articolo non dà consigli medici, né suggerisce l'uso di tecniche come forma di trattamento per problemi fisici o non fisici, per i quali è invece necessario il parere di un medico e/o di uno specialista. Non suggerisce l’uso di alcuna erba, pozione, unguento né direttamente, né indirettamente. Nel caso si decidesse di applicare le informazioni contenute in questo post, non mi assumo nessuna responsabilità. L'intenzione del post è quella di essere illustrativo, non esortativo né didattico.

Altri riferimenti:

CANTELMI ANNA LISA, 2002, Herbaria e le piante per volare, Altrove.

CAMILLA GILBERTO, 1995, Le erbe del diavolo I. Aspetti antropologici, Altrove.

-Orlando, in collaborazione con “Le vie di Wodanaz”-
Post dal gruppo facebook:
Yggdrasill - Rune, Sciamanesimo, Esoterismo, Mitologia & folklore



giovedì 7 giugno 2018

Völva, sacerdotessa del mondo antico

Sola sedeva di fuori

quando il vecchio giunse

Yggjungr degli Æsir

e la fissò negli occhi.

“Che cosa mi chiedete?

Perché mi mettete alla prova?

Tutto io so, Óðinn,

dove tu nascondesti l'occhio

nella famosa

Mímisbrunnr!

Mímir beve idromele

ogni mattino

dal pegno pagato da Valfǫðr.

Che altro tu sai?”



Vǫluspá, la profezia della veggente - verso 28



Poche figure del mondo antico hanno subito tante mistificazioni quanto la völva, bistrattate e perseguitate prima e dimenticate poi le völur sono sopravvissute nell’immaginario popolare sotto forma di streghe e veggenti.




Ma cosa erano, e soprattutto cosa rappresentavano, queste donne nella società germanica antica?

Partiamo dal significato etimologico, völva ha le sue radici nella parola vǫlr, ovvero verga, bastone con poteri divinatori, la völra è “colei che porta il bastone” o “portatrice di bastone”, è quindi una sibilla, una sacerdotessa incaricata dell’interpretazione del futuro al quale gli uomini si rivolgevano per chiedere consiglio e, spesso, andarsene ancor più pieni di domande.

La loro autorità era indiscussa, libera dai legami tipici della loro società, viaggiavano, spesso accompagnate da un seguito variabile di giovani servitori di ambo i sessi, tra svariati insediamenti mettendosi spesso al servizio dei vari signori della guerra dai quali ottenevano protezione e doni in cambio dei propri servigi.

Peculiare è anche la visione delle pratiche magiche presso questi popoli, viste talvolta come inadatte ad un uomo e riservando quindi il ruolo sacerdotale al sesso femminile e, in alcuni rari casi, a uomini considerati “ergi”, effemminati o omosessuali.

Una leggenda legata alla figura di queste sacerdotesse sono i riti erotici che la vox populi attribuisce loro, oltre ovviamente agli immancabili filtri amorosi con i quali le suddette avrebbero portato via i mariti a povere ed ingenue popolane; come sempre in questi casi la verità assoluta non esiste, vi sono però diverse teorie più o meno razionali.




In tutta probabilità queste donne “libere” avevano un certo fascino sugli uomini ed il loro status permetteva una certa “varietà” a livello sessuale impensabile per le loro coeve, inoltre durante i loro viaggi le völur erano vulnerabili e necessitavano di una compagine di guerrieri come scorta, l’approccio sessuale poteva rappresentare un mezzo di reclutamento per questa schiera.

Questa figura, come è ovvio, divenne più rara con l’avvento della religione del Cristo Bianco e dei suoi adepti, questi infatti mal tolleravano la libertà perfino negli uomini, non potevano certo accettare quella di una donna.
Vennero quindi gli anni della persecuzione e delle calunnie, l’età del lupo era infine giunta.

mercoledì 6 giugno 2018

Desideri

Che cosa vogliamo?
Una terra di fuochi e di spade, di guerrieri e di sacerdotesse, di foreste, rocce e fiumi e degli spiriti ad ogni cosa legati.

Principio cardine della nostra essenza è il rinnegare senza forma alcuna di ripensamento tutto ciò che va sotto il nome di ‘civiltà’ come pure tutto ciò che da essa è stato prodotto negli ultimi mille e più anni e tutto ciò che ne conseguirà prima dell’inevitabile sua caduta.
Questo monstrum, i cui germi vennero sparsi da figuri illustri fra cui risaltano Costantino I e lo stesso Carlomagno, ha contribuito assieme con sovrastrutture monoteistiche a sradicare quell’ordine naturale che prima regnava su tutto il Miðgarðr.
La civiltà ha strappato l’uomo alle foreste per poi gettarlo in labirinti squadrati di sassi e pietre senza curarsi di quale fosse stato il luogo del suo sviluppo, della sua prima venuta.
Nelle città dalle alte mura lo ha irretito creando per lui effimeri balocchi da rincorrere acriticamente avvolgendo il tutto nelle nebbie del progresso.
L’ha poi reso fragile negandogli l’uso della fortitudine e della violenza; l’ha infine reso molle costringendolo ad una permanenza coatta con l’Altro.
Ha creato per lui la politica, l’emblema di tutta quella pletora di inutili bisogni e di vacui sogni di supremazia che ora occupano la sua mente.
Gli Dèi nei quali sino ad allora gli individui tutti avevano riposto il loro essere cosa viva furono così rimpiazzati; fu quel dio che è marito di Astarte a farne le veci.
Il Cristianesimo giunto dal Deserto con le sue schiere di martiri piangenti accettò di buon grado di divenire per la civiltà instrumentum regni; con cipiglio inflessibile avrebbe infatti dettato le norme del vivere civile santificando l’omologazione ed introducendo il culto della cedevolezza. Il suo universalismo spinse e tuttora spinge gli uomini a disconoscere i legami di sangue in favore di una fratellanza universale; la pietà cristiana troppo spesso elargita a soggetti indegni venne e tuttora viene troppo spesso usata da questi come mezzo per scongiurare la vendetta dei nemici.
Inutile dire che nei cuori degli uomini tutti rimasero solamente vaste desolazioni e sabbia.
Se il Cristianesimo fece del sentimentalismo il suo strumento, il nostro stendardo sarà intessuto d’ardimento e di dura giustizia.
Se il Cristianesimo fece della pietà il suo stendardo, noi faremo della ferma durezza il nostro strumento.
L’operosità e la semplicità saranno gli elementi imprescindibili per la salvaguardia di questa terra di mezzo.

Con la fede negli Dèi e la loro guida la via è tracciata, basta avere sufficiente forza e saldezza da saperla percorrere.

Avanti, figli di Wōđanaz!

martedì 5 giugno 2018

Ritualità e disciplina

Il vivere come rituale, fare il sovrumano sforzo di non vivere di questa epoca ma di questa era, scardinando ogni civitas con le sue concezione.

Pensiero eterno, dinamismo ciclico.

Ritualità e simboli avvicinano agli Dèi, la mollezza spirituale indebolisce, colui che vi indugia viene subito blandito dalle futilità.

Prima arma di ogni civitas è la mancanza di una sana disciplina interiore.

Allontanare quando non porta giovamento, quanto non ci migliora innanzi agli Dèi e alla nostra gente, agire sul tutto e nel tutto per il Padre del tutto, questa è la via. 

lunedì 4 giugno 2018

Dialoghi dei processi d’inquisizione con lupi mannari, benandanti, fasi di estasi.


In questo articolo si cita espressamente un lupo mannaro sotto inquisizione, la figura del lupo mannaro è tutt’altro che mitologica e tutt’altro che inesistente.
Scartando l’enfasi e il sovrapporre sempre il “diavolo” in questi processi (abbastanza forzato questo parallelismo, come ovvio che sia in questo periodo), a tratti emerge ciò che caratterizza queste figure. La figura del lupo mannaro non è recente (è molto antica, e tutti gli altri nomignoli sono venuti dopo. Ma la sua essenza non cambia né geograficamente, né con il passare del tempo) ed è tutt’altro che fantasy. 
Sono tutt’altro che storielle per spaventare i bambini. Il lupo mannaro nella sua figura rispettata e per le sue prodezze metteva “paura” non solo ai bambini.
Non potrebbe essere altrimenti per un combattente che non teme né la “morte”, né “l’inferno”, né “il diavolo”, né le “streghe” e per comprenderlo nel profondo non si può limitare geograficamente. Si noti anche come queste figure siano fortemente legate alla natura.

Quello contro il gasparutto e il moduco è il primo di una lunga serie di processi contro benandanti (uomini e donne) che affermano di combattere la notte con streghe e stregoni per ottenere la fertilità dei campi e la prosperità dei raccolti. Questa credenza (di cui abbiamo accennato le presumibili origini rituali) non ricorre, per quanto ci è noto, in alcuno degli innumerevoli processi per stregoneria o superstizione svoltisi al di fuori del friuli. 

L'unica, straordinaria eccezione è data dal processo contro un lupo mannaro lituano, svoltosi a Jurgensburg nel 1692 - più di un secolo, dunque, dopo il processo contro il gasparutto ed il moduco, e all'altro capo d'europa. L'accusato, Thiess, un vecchio più che ottantenne, confessa apertamente ai giudici che l'interrogano di essere un lupo mannaro ("wahrwolff"). Ma il suo racconto si discosta molto dall'immagine della licantropia diffusa nella germania settentrionale e nei paesi baltici. Il vecchio dice di aver avuto in passato il naso rotto da un contadino di Lemburg, Skeistan, morto ormai da tempo.

Skeistan era uno stregone: e insieme con i compagni aveva portato i germogli del grano nell'inferno, perché le messi non crescessero. Accompagnato dagli altri lupi mannari, Thiess si era recato nell'inferno e aveva lottato con Skeistan. Questi, armato di un manico di scopa (l'attributo tradizionale delle streghe) avvolto in code di cavallo, aveva, in quell'occasione, colpito al naso il vecchio. Non si era trattato di uno scontro occasionale. Tre volte all'anno, nelle notti di santa lucia prima di natale, di pentecoste e di san Giovanni, i licantropi si recano a piedi, in forma di lupi, in un luogo situato «alla fine del mare»: l'inferno. Là essi lottano col diavolo e con gli stregoni, battendoli con lunghe fruste di ferro, e inseguendoli come cani. I lupi mannari - esclama Thiess - «non possono soffrire il diavolo». I giudici, presumibilmente stupiti, chiedono spiegazioni. Se i licantropi non possono soffrire il diavolo, perché si trasformano in lupi e scendono nell'inferno? Perché, spiega il vecchio Thiess, in questo modo essi possono riportare sulla terra ciò che gli stregoni hanno rubato - bestiame, grano e altri frutti della terra. Se non lo facessero, si verificherebbe ciò che era appunto avvenuto l'anno precedente: avendo tardato a scendere nell'inferno, i lupi mannari avevano trovato le porte sbarrate e non erano riusciti a riportare indietro il grano e i germogli sottratti dagli stregoni. Per questo l'annata precedente era stata così cattiva.
Quell'anno invece le cose erano andate diversamente, e, sempre grazie ai lupi mannari, il raccolto di orzo e di segala, nonché una ricca pesca, erano assicurati. A questo punto i giudici chiedono dove vanno i lupi mannari dopo morti.

Thiess risponde che essi sono sepolti come l'altra gente, ma le loro anime vanno in cielo, quanto alle anime degli stregoni, il diavolo le prende con sé. I giudici sono visibilmente sconcertati. Com'è possibile, chiedono, che le anime dei lupi mannari ascendano a dio, se essi non servono dio, bensì il diavolo? Il vecchio nega recisamente: i lupi mannari non servono affatto il diavolo. Il diavolo è a tal punto loro nemico che essi, simili a cani - perché i lupi mannari sono i cani di dio - lo inseguono, gli dànno la caccia, lo sferzano con fruste di ferro.
Essi fanno tutto ciò per il bene degli uomini: senza la loro opera il diavolo ruberebbe i frutti della terra e il mondo intero ne rimarrebbe privo. 
Non sono soltanto i lupi mannari lituani a combattere con il diavolo per i raccolti: così fanno anche i lupi mannari tedeschi, che però non sono membri della loro compagnia, e si recano in un loro inferno particolare; e lo stesso fanno i lupi mannari russi, che in quell'anno e nell'anno precedente avevano procurato alla loro terra un raccolto prospero e abbondante. 

Allorché, infatti, i lupi mannari sono riusciti a strappare al diavolo i germogli di grano rubati, li gettano nell'aria perché cadano su tutta la terra, sui campi dei poveri e su quelli dei ricchi. A questo punto, com'era prevedibile, i giudici cercano di strappare a thiess l'ammissione di aver stretto un patto col diavolo. Inutilmente il vecchio ripete, con monotona ostinazione, che lui e i suoi compagni sono «cani di dio» e nemici del diavolo, che essi proteggono gli uomini dai pericoli e garantiscono la prosperità dei raccolti. 
Viene chiamato il parroco, che lo redarguisce e cerca di fargli abbandonare gli errori e le diaboliche menzogne con cui ha cercato di velare i propri peccati. Ma anche questo tentativo è inutile. In uno scatto d'ira thiess grida al parroco che è stufo di sentir parlare delle sue cattive opere: sono migliori di quelle del parroco, e del resto lui, thiess, non sarà né il primo né l'ultimo a commetterle. Così il vecchio persiste nelle sue convinzioni e rifiuta di pentirsi; il primo ottobre 1692 è condannato a dieci colpi di frusta per le superstizioni e le idolatrie commesse. Qui non si tratta, è chiaro, di analogie più o meno vaghe, o della ripetizione di archetipi religiosi metastorici. Le credenze del vecchio lupo mannaro Thiess sono sostanzialmente identiche a quelle emerse nel processo dei due benandanti friulani. 

La lotta a colpi di bastone (perfino il particolare dei manici di scopa di cui sono armati gli stregoni lituani richiama i rami di sorgo, o saggina, usati dagli stregoni del Friuli) in determinate notti per ottenere la fertilità dei campi, minuziosamente, concretamente specificata – cosicché in Friuli si lotterà per le viti, in Lituania per l'orzo e la segala; infine, il combattimento per la fertilità inteso come opera non solo tollerata ma protetta da dio, che addirittura garantisce il paradiso alle anime di coloro che vi partecipano, tutto ciò non consente dubbi. E' evidente che ci troviamo di fronte a un unico culto agrario, che, a giudicare da queste sopravvivenze così lontane tra loro - la Lituania, il Friuli - dovette essere diffuso anticamente in un'area ben più vasta, forse nell'intera Europa centrale. Queste sopravvivenze, d'altra parte. Possono spiegarsi o con la posizione marginale del Friuli e della Lituania rispetto al centro di diffusione di queste credenze, oppure con un influsso, in entrambi i casi, di miti e tradizioni slave. Il fatto che, come vedremo, in zona germanica si abbiano tracce molto sbiadite del mito dei combattimenti notturni per la fertilità, farebbe propendere per la seconda ipotesi. Ma soltanto ricerche approfondite potranno risolvere questo problema. Ma non sono soltanto le credenze del vecchio Thiess a richiamare quelle dei benandanti friulani. Anche la reazione dei giudici di Jurgensburg ricalca fin nei particolari quella degli inquisitori di udine: entrambi rifiutano con stupore e indignazione il vanto paradossale dei benandanti, di essere paladini della «fede de christo», e dei lupi mannari, di essere «cani di Dio».

Entrambi cercano di identificare i benandanti e i lupi mannari con gli stregoni seguaci e adoratoti del diavolo. Questo riemergere di credenze verosimilmente molto più antiche si spiega, con ogni probabilità, con il fatto che alla fine del '600 i giudici lituani avevano cessato di servirsi della tortura e perfino delle domande suggestive nei confronti degli imputati. 
Che questa immagine positiva dei lupi mannari fosse ben più antica della fine del '600 
(NDR: positiva non vuol dire che regalavano mazzi di fiori e baci e abbracci, era un positivo necessario), è provato anzitutto dalla veneranda età di Thiess:

Verosimilmente egli aveva dovuto apprendere queste credenze nella sua, ormai remota, infanzia - il che ci porta già agli inizi del '600. 
Ma c'è un indizio ancora più probante. A metà del '500 il Peucer, dilungandosi sui licantropi e sulle loro straordinarie prodezze, inserì nel suo "Commentarius de praecipuis generibus divinationum" un aneddoto su un giovane di riga, che, nel corso di un convito, era caduto improvvisamente supino sul pavimento. 
Uno dei presenti riconobbe immediatamente in lui un lupo mannaro. 
Il giorno seguente il giovane raccontò di aver combattuto con una strega che si aggirava in forma di farfalla infuocata: i lupi mannari, infatti (commenta il peucer) si vantano di tener lontane le streghe. Si tratta, dunque, di una credenza antica: ma, come in friuli per i benandanti, i tratti originariamente positivi dei lupi mannari dovettero a poco a poco, sotto la pressione esercitata dai giudici, scomparire o snaturarsi nell'immagine orrenda dell'uomo-lupo devastatore di armenti. In ogni modo, sulla base di questo sorprendente parallelo lituano, è lecito affermare l'esistenza di una connessione, non analogica ma reale, tra benandanti e sciamani. 

Le estasi, i viaggi nell'al di là a cavallo di animali o in forma di animali (lupi, o, come vedremo in friuli, farfalle o topi) per recuperare i germogli del grano o comunque per assicurare la fertilità dei campi: questi elementi, a cui si aggiungono, come vedremo subito, la partecipazione alle processioni dei morti, che procura ai benandanti virtù profetiche e visionarie, si compongono in un quadro coerente, che richiama immediatamente i culti degli sciamani. Ma rintracciare i fili che legano queste credenze al mondo baltico o slavo esorbita evidentemente dai confini di questa ricerca. Torniamo, quindi, al friuli.
                                                                                                                      
“Carlo Ginzburg - I BENANDANTI - Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento”


-Orlando- 
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domenica 3 giugno 2018

Note di un camminatore

Siamo l'essenza i portatori, gli esuli del tempo.
Siamo primitivi per qualunque memoria.

Oggi come ieri, siamo artigiani, esploratori, cercatori, trovatori, poeti, scrittori, guaritori, portatori dai gesti semplici e forti.
Oggi come ieri, Non siamo commercianti.
Al bivio scegliamo senza paura, non ci fermiamo, e non perdiamo mai l'orientamento.
Siamo il faro per i dispersi, la pietra che le tempeste non abbattono. 

Siamo quel segno che rimane scolpito sulla pelle, nella memoria, sulla pietra, sul tronco, sulla terra.
Siamo animali, a volte persone, altre spirito dallo sguardo selvaggio, dalla pelle di tutti i colori. Ci muoviamo senza confini e siamo i folli per i molti che incontriamo.
Siamo i nemici dell'ordinario ed i protettori di ciò che non è ordinario, siamo la sveglia.

Siamo da evitare per molti ma saremo ricordati dai pochi che si alzeranno, che danzeranno, che voleranno o cammineranno.
Siamo quei pochi che non si comprendono, che non si imitano, che non possono essere intaccati dal falso. 
A volte siamo luce, altre tenebre, siamo il nero inconoscibile in fondo al baratro che lascia sognare, pensare, riflettere, che intimorisce e che è insondabile per profondità.
A volte siamo sciocchi, sembriamo comici ma mai sprovveduti e indifesi. 

Siamo i custodi di ciò che non deve morire, la speranza.

sabato 2 giugno 2018

Vikings o Dell'arte della guerra, II

Scontri campali, parte I

Ai tempi dei germani settentrionali le battaglie campali avvenivano in formazioni serrate dette Skjaldborg (i.e. "muro di scudi"). Le prime tre fila di uno Skjaldborg erano composte dagli individui meglio armati e quindi di rango medio-alto; questi costituivano il fronte della formazione mentre nelle restanti file vi erano individui di basso rango il cui ruolo primario era quello di lanciare giavellotti dalle "retrovie" e compiere così azioni di disturbo ai danni dello Skjaldborg nemico.

L'arma prediletta dagli scandinavi per la difesa e l'attacco di un muro di scudi era la lancia in quanto permetteva agli schieramenti di mantenere una relativa distanza essendo questa di norma lunga dai due ai tre metri. Dalla lunghezza delle punte delle loro lance è poi possibile dedurne il periodo di fabbricazione.
Sul finire del periodo vendeliano le punte avevano una lunghezza media di circa 20 cm; soltanto in seguito le punte di lancia raggiunsero i 60 cm di lunghezza. Fra quest'ultime risaltava una varietà denominata krókspjót (i.e. "lancia uncinata") in quanto presentava ai lati della base delle ali che la rendevano atta ad essere estratta con estrema facilità dal bersaglio colpito in seguito al lancio.

Solitamente, come attestato dal racconto della battaglia di Geirvör contenuto nella ‘Eyrbyggja saga', prima di uno scontro avveniva il ritualistico lancio di una lancia al di sopra delle linee nemiche calcando così le orme dello stesso Odino. Questi infatti compì lo stesso gesto con la sua Gungnir (i.e. "implacabile") sul cominciare dello scontro che coinvolse gli Æsir ed i Vanir in Ásgarðr, il primo di una lunga serie.
Il più delle volte si proseguiva con uno scambio di insulti ed improperi poi seguito dal proferire d'entrambe le parti di gridi di battaglia.

Al crollo delle prime tre fila di uno Skjalborg lo scontro era solito volgersi in una rotta disordinata. Se invece fosse crollata una sola delle tre fila di cui sopra - stando a quanto riportato in una sezione della ‘Egils saga Skallagrímssonar' - dopo aver riposto sulle spalle i loro scudi, i componenti della stessa erano soliti impegnare il nemico in scontri in cui la lancia veniva usata non più come arma da stocco bensì come höggspjót (i.e. "lancia da taglio") impugnandola con ambedue le mani.
Solo in casi di comprovata necessità i germani settentrionali ingaggiavano la lotta armati di asce e scramasax.

Ora ditemi voi, o gentile lettore, quanto di ciò ivi descritto sia stato sinora rappresentato nella serie televisiva Vikings. La risposta è sempre la stessa, quasi nulla.
Il ruolo in scontri campali della cavalleria - quasi, se non del tutto, inesistente fra i sassoni ed i germani settentrionali - così come quello degli arcieri negli stessi verrà delineato nell'articolo che verrà pubblicato Sabato prossimo.

venerdì 1 giugno 2018

Legno e paglia

La civitas, in quanto a-naturale, pensa solo in grande e a questo metro di misura educa coloro che ne abbracciano gli ideali.

Roma, per fare un esempio noto, è glorificata e presa ad esempio anche a causa di quanto ha lasciato, delle grandi costruzioni, delle rovine a testimonianza delle sue grandi metropoli di schiavi.

Noi vogliamo staccarci da questa mentalità megalomane, il nostro pensiero non è orientato alla città uniformante, alle grandi opere deturpanti o a ciò che è fastoso e visibile. Noi lottiamo per il piccolo, per i villaggi autonomi, per le cascine indipendenti, per la bellezza della semplicità e la gloria dell’essere quello che si è.

Tenetevi quindi i colossei e le piramidi, tenetevi le fortezze di pietra e le sale marmoree e lasciateci il legno e la paglia, la terra e i fiumi, le foreste e i laghi. 

Noi combattiamo per ciò che è sempre stato, per decine se non centinaia di migliaia di anni, per ciò che è davvero eterno. 

La civitas è passeggera, tutti gli imperi millenari cadono, tutte le repubbliche, le monarchie e le costituzioni di questo mondo sono effimere, durano giusto il tempo di un respiro nel vento della storia.

Solo gli Dèi sono eterni, insieme a ciò che essi hanno creato. 


Abbiamo già vinto.