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venerdì 30 novembre 2018
Teodorico, parte I
Nel 458 Leone I il Trace, imperatore della Pars Orientis, dovette far fronte all’invasione dell’Illiria (i.e. parte occidentale della penisola balcanica) ed al suo successivo saccheggio da parte degli Ostrogoti di re Teodemiro degli Amali; per evitare che questi invadessero anche la Tracia, Leone I gli offrì una cospicua somma di denaro e, raggiunta così la pace, i due popoli si scambiarono come da tradizione gli ostaggi.
Fra gli ostaggi ostrogoti vi era anche il figlio del re chiamato Teodorico (i.e. Theuderik); questo nome che significa “signore delle genti” non poteva essere più adatto. Egli nacque in un accampamento unno dall’unione fra la cristiana Erelieva e Teodemiro quando entrambi erano ancora sotto il comando di Attila; il piccolo aveva solo sette anni quando venne scambiato come ostaggio ma sapeva già cacciare e cavalcare, abilità apprese dai migliori guerrieri goti. Nelle sere della sua breve infanzia i cantastorie gli narravano i miti nordici e gli leggevano la Bibbia gotica (i.e. la traduzione della Bibbia in goto con la quale l’evangelizzatore e saggio Wulfila convertì i Goti all’arianesimo).
Da quanto detto traspaiono le ragioni del perché Teodorico fosse tanto devoto all’arianesimo, dottrina cristologica del presbitero Ario secondo la quale la natura del Cristo era inferiore a quella di Dio in quanto quest’ultimo non poteva condividere la propria essenza divina. Doveroso specificare che per i Goti il Cristo era più un eroe della Valhöll che altro; ciò è forse dovuto alla capacità che questi avevano di assimilare le culture con cui venivano in contatto pur mantenendo intatto quel retaggio indoeuropeo che li contraddistingueva.
Costantinopoli, la più grande civitas della Pars Orientis dell’Impero, era tutt’altra cosa rispetto alle valli a cui era abituato il giovane Teodorico ché al posto dei carri e dei greggi la città traboccava di marmi, statue e mercanti; nonostante questo egli si ambientò rapidamente e l’imperatore Leone I lo prese in simpatia fin da subito. Lo fece alloggiare a corte in un appartamento affacciato sul Bosforo e lo iscrisse nella migliore scuola dell’impero nella quale imparò l’algebra, l’astronomia e il galateo seppur rimase analfabeta. Finita la scuola e compiuti i quindici anni debuttò nella società bizantina. Oltre al gotico, Teodorico parlava un buon greco e masticava un po’ di latino e grazie a questa sua versatilità condusse una vita agiata frequentando sia la corte che i popolani.
Riscattato dal padre a diciotto anni, Teodorico trovò la Pannonia minacciata dai Sarmati; all’insaputa di Teodemiro radunò un piccolo esercito di seimila uomini per mettere fine al problema. Tornò vittorioso con la testa del re nemico su una picca e poco dopo venne nominato re.
martedì 27 novembre 2018
Nerthus
Partiamo da un assunto: questa Dea viene tradizionalmente associata alla madre terra, sarebbe quindi la Dea madre per antonomasia il cui culto è attestato fin dal paleolitico.
Alcune ricostruzioni hanno accostato il nome di Nerthus a quello di Njörðr, arrivando addirittura ad ipotizzare che quest’ultimo fosse un Dio ermafrodita o in grado di cambiare sesso a proprio piacimento, un’altra teoria, che è anche quella del sottoscritto, vede in Nerthus la prima sposa di Njörðr, amante e sorella dalla quale si dovette separare per entrare a far parte delle schiere degli Asi.
Essa sarebbe quindi la madre degli Dèi Freyr e Freyja
Essa è spesso accostata alla figura di Jǫrð, prima sposa e amante del padre del tutto e madre di Þórr.
Del culto ad essa tributato sappiamo grazie a Tacito che, nel suo Germania, ce ne ha parlato in maniera piuttosto esauriente, concludo quindi l’articolo con le sue parole invitandovi, qualora praticaste, a ricordare anche questa Dèa arcaica nei vostri sacrifici.
“Dopo i Longobardi vengono Reudigni, Auioni, Angli, Varni, Eudosi, Suardoni e Nuitoni, tutti ben protetti da fiumi e foreste. Non c'è nulla di importante da dire riguardo a questi popoli tranne il fatto che tutti adorano Nerthus, che rappresenta la Madre-Terra. Credono che lei si interessi degli affari degli uomini e che li guidi.
Si festeggia ovunque quando decide di fare l'onore di presentarsi. Nessuno va in guerra, nessuno usa armi, si vive in pace e quiete finché la dea, avendone avuto abbastanza della compagnia degli uomini, viene infine riaccompagnata dallo stesso sacerdote presso il suo tempio. Dopodiché il carro, il drappo e, se mi credete, la divinità stessa fanno il bagno in una misteriosa vasca.
Questo rito viene svolto da schiavi che, appena finito il compito, vengono affogati nel lago. In questo modo il mistero viene mantenuto, e rimane la beata ignoranza riguardo al suo aspetto, concesso solo a chi è destinato a morire”
- Tacito, Germania
lunedì 26 novembre 2018
L’uomo di Neanderthal, antico abitante d’Eurasia parte quarta
Arriviamo ora alla conclusione di questo articolo, non ci rimane che una sola domanda alla quale rispondere: che fine ha fatto questo nostro antenato? Per più di un secolo studiosi di ogni tipo hanno analizzato la questione formulando decine di ipotesi che potessero spiegare la repentina sparizione di questo protagonista della preistoria euroasiatica, fino a quando, nel 2010, il genetista Svante Pääbo non ha risolto la situazione analizzando un campione di DNA mitocondriale proveniente dallo scheletro di Mettmann.
Il Neanderthal non si è mai estinto, il suo DNA vive in noi.
Tutti gli abitanti nativi dell’Eurasia e delle Americhe infatti portano nel proprio corredo genetico una percentuale variabile (generalmente da 1 al 5%) di DNA Neanderthal.
L’ipotesi più probabile, ad oggi, è infatti che l’uomo sapiens, più numeroso, abbia lentamente “assorbito”, nel corso delle svariate migliaia di anni durante le quali vi è convissuto, il suo meno numeroso cugino.
Come sia avvenuto questo contatto rimane un mistero, ma è lecito sospettare che sia avvenuto in maniera “mista” sia pacificamente che per mezzo di eventi “bellici”.
Questo è quanto, ad oggi, ci è dato sapere sui nostri arcaici antenati che un tempo, prima dell’arrivo dell’uomo sapiens, vissero e prosperarono nel nostro amato continente per centinaia di migliaia di anni.
Anche a loro, come a tutti gli antenati, va tributato il giusto rispetto, ricordatelo quindi, di tanto in tanto, nei vostri sacrifici.
domenica 25 novembre 2018
L’uomo di Neanderthal, antico abitante d’Eurasia parte terza
Passiamo ora ad un argomento più “mondano” ma non per questo meno importante, il Neanderthal aveva consapevolezza di sé?
Curava in qualche modo il proprio aspetto e come veniva “percepito” dagli altri membri del suo gruppo? Anche in questo caso, come ormai avrete intuito, la risposta è affermativa.
Diversi ritrovamenti (i più famosi sono quelli della grotta di Krapina, ma ve ne sono numerosi) provano che era diffuso l’uso a scopo ornamentale di collane di ossa e artigli, così come l’uso di piume di volatile a scopo ornamentale, è inoltre dimostrato l’uso di ocra rossa, utilizzata come tintura per oggetti decorativi (è stata ritrovata una collana di conchiglie colorata in questo modo) o per il proprio corpo.
In definitiva è possibile affermare che l’uomo di Neanderthal non solo possedeva consapevolezza della propria immagine ma che sapeva anche che determinate accortezze potevano renderla più gradevole (o spaventosa, o autorevole, alla bisogna) agli occhi dei propri simili, un comportamento che più “moderno” non si può. Aggiungiamo a questo un fatto: è a questo nostro antenato che va attribuita l’invenzione della musica, lo strumento musicale più antico del mondo è infatti un flauto ritrovato nella grotta di Divje Babe, in Slovenia, risalente a circa 60000 *sessantamila* anni fa, più antico di ben 24000 *ventiquattromila* anni rispetto al primo strumento paragonabile attribuito all’uomo sapiens.
Non male per quello che era considerato, fino a pochi decenni fa, poco più che uno scimmione vagamente umano.
sabato 24 novembre 2018
L’uomo di Neanderthal, antico abitante d’Eurasia parte seconda
La struttura sociale “tipo” dei Neanderthal era quella del “clan” tribale e presentava un'organizzazione notevole tanto da prevedere comportamenti come la cura degli invalidi e degli anziani come testimoniato da diversi ritrovamenti fra cui spicca quello della valle di Neander nei pressi del villaggio di Mettmann, valle che ha dato il nome all’intera specie.
È stato infatti provato che alcuni degli scheletri ritrovati appartenevano ad individui che avevano vissuto anni, talvolta anche decenni, in condizioni di totale dipendenza dal proprio clan. Lo scheletro ritrovato presso Mettmann ad esempio presentava danni da frattura grave antecedenti di circa vent’anni rispetto alla morte dell’individuo che era quindi impossibilitato ad andare a caccia. La sua sopravvivenza per un periodo così lungo, e le relative buone condizioni al momento della morte - sopraggiunta intorno ai 40/45 anni di età a causa di un cancro alle ossa - provano in maniera incontrovertibile la capacità e la sensibilità che questo nostro antenato aveva nel prendersi cura di un individuo disabile.
Parliamo ora di riti e spiritualità, si può affermare che l’uomo di Neanderthal avesse coscienza degli Dèi e di un mondo “altro” rispetto a quello nel quale viveva? La risposta, anche in questo caso, è si.
Possedevano infatti una propria ritualità, sia nel seppellire i morti che nel posizionarli, è stato perfino provato che in talune circostanze nella tomba veniva posti dei fiori a mazzetti, avevano inoltre l’abitudine, che si può ritrovare in moltissime culture euroasiatiche fini a tempi molto recenti, di tracciare sopra le tombe dei propri defunti dei cerchi, o delle spirali, di pietre, comportamento che dimostra la presenza di un culto degli antenati.
Il ritrovamento di Chapelle-aux-Saints, la tomba di un Neanderthal di circa cinquant’anni, seppellito con cibo e utensili che doveva aver adoperato in vita, è un altro punto a favore di questa tesi.
venerdì 23 novembre 2018
L’uomo di Neanderthal, antico abitante d’Eurasia parte prima
Di questo nostro antenato è stato scritto moltissimo, spesso a sproposito.
Dipinto come una sorta di “cugino scimmiesco” della nostra specie durante il tardo ottocento si è poi rivelato, alla luce delle scoperte archeologiche, assai più sorprendente di quanto in origine ipotizzato.
Ma quando ha vissuto, e come, questo nostro antenato? Quali sono state le cause della sua scomparsa? In questo scritto cercherò di rispondere a questi interrogativi e a far luce su questo nostro progenitore.
Le prime tracce dei Neanderthal si perdono nella notte dei tempi, risalgono infatti a circa 300000 *trecentomila* anni fa nella sua forma più arcaica e arrivano fino a circa 28000 anni, periodo durante il quale assistiamo alla sua, relativamente repentina, “scomparsa”.
Smontiamo subito uno stereotipo ottocentesco duro a morire: l’uomo di Neanderthal non aveva un aspetto “scimmiesco”, non più del suo coevo uomo sapiens per lo meno, presentava anzi alcuni tratti che poi diventeranno tipici degli europidi quali una carnagione chiara e la presenza di occhi e capelli chiari.
E smontiamone anche un altro: a differenza di quanto comunemente si dice il Neanderthal era perfettamente in grado di comunicare, senza dover ricorrere a grugniti, il ritrovamento di una mandibola con ancora presente l’osso ioide presso la grotta di Kebara ha infatti smontato la tesi che voleva l’uomo di Neanderthal incapace di comunicare efficacemente. Questo ossicino, presente tuttora nell’uomo “moderno”, permette di modulare efficacemente la voce in modo da poter formare delle parole, il fatto che anche questo nostro antenato lo possedesse ci fornisce un elemento assai prezioso per valutarne le capacità comunicative e di trasmissione del sapere, come vedremo più avanti.
Passiamo ora all’alimentazione.
La sua dieta era piuttosto varia e presentava importanti differenze da luogo a luogo anche se, in linea generale, è evidente che la carne vi occupasse un post di primo piano (in taluni casi fino al 90% circa delle calorie ingerite).
Del resto il Neanderthal, anche grazie alla sua struttura fisica poderosa, era un cacciatore abilissimo come provano diversi ritrovamenti archeologici, il più famoso dei quali, è stato effettuato a Lehringen, in Germania e risale a circa 130000 *centotrentamila* anni fa: un enorme elefante delle foreste è stato trovato con una lunga lancia di tasso fra le costole, dalla posizione traspare che il cacciatore si trovava davanti all’animale al momento dell’uccisione il che denota non solo che questi doveva possedere una forza decisamente fuori dal comune ma anche una certa dose di coraggio calcolando che questo tipo di Elefante, ora estinto, era alto quasi quattro metri e mezzo, ben più del suo attuale “cugino” africano.
Da notare che la caccia a questo tipo di animale richiedeva una notevole coordinazione fra i vari componenti della squadra di caccia, da ciò è quindi possibile dedurre che già in questa fase il Neanderthal doveva possedere capacità comunicative di buon livello in grado di spiegare, e tramandare, tecniche e comportamenti piuttosto complessi.
Questo genere di caccia a grossi animal è infatti una costante dell’uomo di Neanderthal, ad ogni latitudine, orsi delle caverne (anche in questo caso va specificato quanto questo fossero generalmente più grandi di circa un terzo rispetto agli attuali, già poderosi, orsi bruni), ippopotami e rinoceronti erano, insieme al già citato elefante delle foreste e all’arcinoto mammut, le prede predilette.
giovedì 22 novembre 2018
Credenze e culti pagani fra gli Slavi
- Il culto degli spiriti e il dendrismo -
Si deve osservare in primo luogo il profondo legame del mondo slavo con la foresta e il legno. L'uomo slavo credeva all'esistenza degli spiriti della foresta e praticava il culto degli alberi (dendrismo). Dallo spirito della foresta dipendeva una caccia fruttuosa o la protezione del bestiame. Si veneravano poi gli spiriti delle acque e dei campi, presenti nel folclore e resi famosi dalla letteratura. L'essere più terribile e pericoloso era la Baba-Jaga, strega antropofaga protagonista delle fiabe russe, ma conosciuta presso tutti i popoli slavi.
Ben diversa è la natura dello spirito dendrico. L'albero era percepito in senso antropomorfo. Spesso legato al destino di un uomo o esito della sua trasformazione, poteva assumere perfino la funzione di proteggere una famiglia o una comunità. Ancora nel XX secolo abbiamo notizia di alberi sacri che venivano recintati, presso i quali il prete svolgeva determinati riti. Si tratta ovviamente di una commistione fra elementi di culto dendrico e del cristianesimo che si manifesta a più riprese, in determinate aree del mondo slavo. Tali fenomeni di commistione appaiono di tale evidenza nel mondo slavo orientale da spingere la critica storica sovietica a poi russa a parlare di "doppia fede".
Nella civiltà slava si credeva che uno spirito avesse dimora anche nella casa costruita in legno. Possedevano uno spirito persino il locale dedicato alla sauna, l'essiccatoio e lo stabulo dei maiali, per citarne solo alcuni testimoniati dal folclore russo. Le case erano costruite interamente in legno ed erano prive di qualunque elemento in ferro, a lungo considerato dagli slavi un elemento impuro.
All'estremità dell'isba [1] opposta alla stufa si trovava l'angolo del culto degli antenati, presso cui probabilmente venivano conservate le loro ceneri. Più tardi vi si collocarono le immagini sacre. Anche la slitta che, sia nei mesi invernali sia nei mesi estivi, accompagnava il defunto al luogo della sua cremazione e inumazione, era completamente costruita in legno. Persino per i carri e le imbarcazioni non si ricorreva al ferro, facendo pensare che questo materiale costituisse un vero e proprio tabù per la civiltà slava, oltre che a ragioni di carattere economico. In epoca più recente si verificarono fenomeni di resistenza all'introduzione dei vomeri in ferro, che avrebbero in qualche modo ferito la terra.
Fonti:
Note:
legno e di tronchi d'albero.
Articolo in collaborazione con la pagina Facebook “Slavic Polytheism and Folklore notes”
martedì 20 novembre 2018
In difesa del tribalismo
Le vie di Wodanaz, come ormai molti di voi avranno imparato a capire, è un progetto complesso, nato dalla volontà di informare sugli antichi culti, sul tribalismo e sulla preservazione della nostra terra di mezzo e di agire concretamente per queste cause.
Nel perenne scontro fra le tribù e la civitas ci ritroverete sempre alla barricata delle prime, senza eccezione alcuna.
Fra i marmi di Roma e la paglia delle tribù germaniche sceglieremo sempre la seconda, lo stesso discorso viene applicato ad ogni conflitto, recente o meno recente, che vede il confronto fra queste due inconciliabili visioni dell’esistenza.
L’ambito tribalista, come tutti gli ambiti mediamente complessi, non è certo un monolite, lo stesso “tribalismo” è un termine ombrello che spesso racchiude movimenti molto diversi e altrettanto spesso viene adoperato a sproposito da suprematisti, nazionalisti, modernisti e hippiedelcazzo vari.
Capita spesso di incontrare tizi che all’apparenza sembrano condividere la nostra battaglia, si dicono tribalisti, sono tutto un Carlo Magno boia, Normanni maledetti e compagnia briscola ma poi, ehi, che belli gli inglesi che massacrano gli Zulu vero? Grande vittoria di conquistatori bianchi su poveri neri, bisogna festeggiare! No, non era imperialismo, era civiltà®, lo facevano per loro.
Questa gente la spedirei a cagare sui rovi, detto senza mezzi termini.
L’Impero britannico non era diverso da quello romano, lagnarsi quando è la propria tribù ad essere schiacciata e gioire quando lo stesso piedone ne schiaccia un’altra non dico sia da stronzi ma proprio da volponi non è.
Sono ben consapevole che questo è in tutta probabilità il più “politico” fra gli articoli pubblicati su questo blog, e sono perfettamente consapevole che questo potrà provocare qualche polemica ma questo progetto non è nato per essere diplomatico o per titillare dolcemente i delicati capezzoli dell’autoconvinzione del “pagano medio”.
Il nostro movimento è sempre stato ben più che critico verso la civitas in ogni sua forma, non ci interessa apparire diplomatici o corteggiare le pur numerose schiere di coloro che seguono una religione civica e ancor meno desideriamo fare proselitismo di massa fra coloro che si donerebbero anima e culo al primo pirla che parla di rifondare l’impero romano.
Siamo uomini liberi e vogliamo rimanere tali, la nostra linea è quella di sempre: tribale, rurale e locale, a tutela di tutte le specificità, offriamo e richiediamo franchezza, nulla di più e nulla di meno.
sabato 17 novembre 2018
Società e Stato
Spesso la città intesa come “alta concentrazione abitativa di popolazioni umane” è solita sorgere insieme con lo Stato ed altrettanto spesso lo Stato nel suo nascere genera città dando una forte spinta all’urbanesimo.
Vi sono però società nelle quali il monopolio della violenza legittima e dei mezzi di coercizione è del tutto assente; sono queste le cosiddette ‘società senza Stato’ che blandamente e puerilmente vennero in passato e tuttora vengono definite come ‘anarchie ordinate’ in un delirio di progressismo politico sterile e vacuo.
In esse l’esercizio della violenza legittima non è legata ad un centro monopolizzante essendo queste società segmentate in sezioni primarie differenti con un imprecisato numero di sottosezioni o sezioni secondarie; lo strumento con cui si esercita la giustizia legittima è quello della ‘fehida’ (i.e. “faida”, antico alto tedesco). La faida solitamente coinvolge membri delle sezioni primarie le quali entrano in conflitto seguendo una discriminante di tipo lignatico parentelare. Detto in termini spiccioli, alcuni elementi appartenenti ad una *Sibbja (i.e. ‘Sippe’, antico alto tedesco per “famiglia”) rivendicano giustizia tramite azioni di sangue contro altre famiglie generando un vortice di ripercussioni incentrato sulla vendetta e controllato nella sua distruttività da una serie di usi e consuetudini dettate dalla legge degli Dèi e da quella degli uomini non certo da omuncoli sventolanti bandiere di anarchico colore nero.
Nella Sippe solo la Guerra è causa di un accentramento di potere seppur momentaneo nelle mani di un singolo; accentramento che peraltro è “forzosamente volontario”. Basti pensare ai duchi longobardi i quali - come racconta Paul Warnefried nella sua ‘Historia Langobardorum’ - dopo i dieci anni di interregno seguiti alla morte di re Clefi nel 574 d.C. volontariamente offrirono metà delle loro terre ad Autari e la loro assoluta fedeltà in quanto forzati dalle pressioni delle armate franche sul confine nord della Langobardia Maior.
Quando il diritto ed il possesso dell’utilizzo della violenza legittima viene alienato in maniera definitiva dai membri della società ad un centro, sia esso interno od allogeno a questa non fa differenza alcuna, nascono le città Stato. È questo un passaggio brusco e travagliato del quale si possono scorgere i germi fecondi nel ‘De origine et situ Germanorum’ scritto da Publio Cornelio Tacito sul finire del secolo I d.C. come anche nell’èpos omerico del secolo VIII a.C. nel quale è esemplificativa la struttura dodecarchica legata a strutture gentilizie del regno dei Feaci che va a centralizzarsi nella figura di Alcinoo.
La Guerra nel ‘De origine et situ Germanorum’ viene intesa come strumento accentratore; fra i germani chi si distingueva in battaglia era solito divenire ‘princeps’ (i.e. “principe”) ed un signore di uomini in quanto era solitamente attorniato dal suo seguito di ‘comites’ (i.e “compagni”) guerrieri. [1] In ogni Sippe si andavano così a creare comitati di professionisti della lotta i quali fra le genti godevano giustamente di un’auctoritas suprema; proprio per questa ragione la Guerra viene vista come canale di statalizzazione in quanto strumento accentratore.
In un’ottica prettamente materialistica tanto cara al postmodernismo, la stessa Religione diviene un canale di statalizzazione. La prassi religiosa è fondamento sociale; se un lignaggio occupa grazie al Carisma la sfera del sacro e ne monopolizza l’utilizzo grazie all’istituzione della Tradizione allora si assiste alla nascita di un nucleo statale.
Partendo da quanto sinora detto sulla Guerra e sulla Religione si esprimono due possibilità di generazione statale:
- Se il nucleo guerriero od il lignaggio sacro prende il potere sulle genti e riesce a coinvolgere quest’ultime in un conflitto continuo vincendo in quest’ultimo sui propri nemici va a creare un impero. Esemplare per i franconi è la Sippe dei Sali la quale nella persona di Meroveo riuscì a prevalere sugli altri lignaggi unendoli nel 448 d.C. sotto la corona di Rex Francorum dando origine al regno merovingio che sotto il pipinide Carlo detto Magno divenne un vero e proprio impero.
- Se differenti lignaggi si foederano in assemblee si genera un accumulo di potere tale da rendere necessaria la presenza di una stringente struttura burocratica e di un organismo centrale il quale riceve dai lignaggi poteri consultivi e giudiziari monopolizzando l’uso legittimo della forza repressiva dando vita ad uno Stato. È questo il caso del regno dei Longobardi i cui germi statalisti comparvero sotto re Autari - non a caso quest’ultimo assunse l’appellativo di Flavio al fine di legittimare la sua nuova auctoritas civica - per poi gemmare sotto re Rotari il quale cancellò con l’editto del 643 l’istituto della faida centralizzando la violenza legittima nella sua persona e nella corona del regno.
Inutile è oramai ribadire come lo Stato e ciò che ne consegue sia caduco e destinato a collassare su sé stesso. Così accadde con il regno longobardo, così accadde con l’impero carolingio.
Il Sangue è eterno, le strutture politiche non sono nulla.
Note:
- [1] entrambi i termini latini di ‘princeps’ e ‘comites’ sono usati dallo stesso Tacito nella sua opera e verranno poi ripresi dall’amministrazione carolingia incentrata sui beneficia.
giovedì 15 novembre 2018
Le vie di Wodanaz pdf speciale von Ungern
Signore della guerra e ultimo, ad ora, campione dello sciamanesimo in terra d'Eurasia la figura di von Ungern ha ispirato, nei decenni, scrittori e illustratori, tanto che ad oggi è impossibile distinguere storia e leggenda, mito e realtà.
Poco importa, in fondo, cos'altro è del resto il mito se non la rappresentazione simbolica di una verità arcaica?
https://drive.google.com/file/d/1kJrXt0J6E17Il93lW5VjMtuqNSZg7mgz/view?usp=sharing
mercoledì 14 novembre 2018
Via arcaica agli Dèi
Quante lotte, quante guerre, quanto sangue hanno visto gli Dèi in questa terra di mezzo?
Non parlo di ciò che conosciamo, delle guerre che hanno segnato gli ultimi millenni e delle quali sappiamo, tramite quella memoria artificiale conosciuta come scrittura, dettagli e avvenimenti. Parlo di ciò che è stato prima, di quanto non conosciamo, che è la stragrande maggioranza di ciò che è avvenuto.
Quali lotte hanno dovuto affrontare i nostri antenati? Quali conquiste? Quali esaltazioni hanno infiammato i loro animi? Gli Dèi sono sempre lì, osservano e guidano, seguendo il volere del Wyrd, per centinaia di migliaia di anni, forse addirittura per milioni, hanno ricevuto sacrifici e donato istruzione e guida alle genti, e a loro è necessario ritornare perché ciò che era rimanga e prosperi, perché la nostra terra di mezzo sia salva.
È quindi nelle nostre radici, nella tribù, che va ricercata la via.
Osso a osso, sangue a sangue, membro a membro, così tornino uniti |
Tenetevi pure le cattedrali e il vostro Dio geloso, lasciateci le foreste e i fiumi, le montagne e le paludi, e tutti gli Dèi e gli spiriti che in ogni cosa vivono e prosperano.
Tenetevi le città, i marmi e gli ori, i libri e le porpore, lasciateci le campagne, la paglia e il legno, la carne e il sangue.
Tenetevi le strade lastricate, se proprio le volete, lasciateci il fango dei sentieri.
Tenetevi la vostra via, dritta e prevedibile, e fatevi accompagnare da una guida, se proprio lo desiderate, lasciateci nella selva, anche da soli, troveremo la strada, se il fato lo vorrà.
Vi lasciamo ciò che volete, ciò che è costruito e inerte, lasciateci ciò che è sacro, vivo ed eterno.
lunedì 12 novembre 2018
Della libertà delle donne sarmate
Nel IV libro delle sue Storie, Erodoto narra la leggenda che spiegava la rinomata indipendenza e attitudine guerriera delle donne dei Sarmati, una popolazione iranica stanziata nell'attuale Russia.
"Dei Sauromati si racconta ciò che segue. Quando gli Elleni combatterono contro le Amazzoni (gli Sciti chiamano Oiorpata le Amazzoni, nome che significa in lingua ellenica Ucciditrici di Maschi: perché con oior intendono l'uomo, e con pata uccidere), si dice che allora gli Elleni, vincitori nella battaglia sul Termodonte, abbiano salpato conducendo su tre navi quante Amazzoni avevano potuto prendere prigioniere. Ma in alto mare quelle li assalirono e li gettarono fuori bordo. Senonché non avevano pratica di navi, e ignoravano l'uso del timone, delle vele e dei remi. E quando ebbero gettato gli uomini fuori bordo furono in balia dell'onda e del vento; finché giunsero presso i Cremni, nel Lago Meotico [l'attuale Mar d'Azov]. Abitano i Cremni nella regione degli Sciti liberi. Le Amazzoni sbarcarono in quel punto e si diressero verso l'abitato. Portarono via la prima mandria di cavalli in cui s'imbatterono, cavalcando su di essi, e saccheggiarono gli averi degli Sciti. I quali, non conoscendone né l'idioma, né il modo di vestire, né la stirpe, rimasero imbarazzati, e si chiedevano stupiti donde venissero. Le credevano uomini nella prima giovinezza. E naturalmente ingaggiarono un combattimento. Ma dopo la battaglia si impadronirono dei caduti e si accorsero che erano donne. Tennero consiglio, e decisero di non ucciderle per nessuna ragione, ma di calcolarne il numero e di mandare i più giovani, i quali dovevano accamparsi vicino ad esse, e fare ciò che quelle facessero; e se li inseguivano non combattere, ma evitarle fuggendo, e quando avessero smesso tornare ad accamparsi lì vicino. Presero questa decisione perché volevano averne figli.
I giovanetti inviati eseguirono il piano stabilito. E quando le Amazzoni si accorsero che non erano affatto venuti con intenzioni ostili li lasciarono stare. Di giorno in giorno i due accampamenti si avvicinavano di più. I giovanetti, come le Amazzoni, non disponevano di alcun'altra cosa che delle armi e dei cavalli, e vivevano la stessa vita di quelle, cacciando e predando. Sul mezzogiorno le Amazzoni avevano l'abitudine di sparpagliarsi [...] un giovane si unì ad un'Amazzone rimasta sola, la quale non lo respinse e lo lasciò fare. E parlare non sapeva, perché non si comprendevano, ma gli fece intendere a gesti che venisse il giorno dopo nel medesimo luogo conducendo un altro - gli fece segno che dovevano essere in due -, ed ella avrebbe condotto un'altra. Il giovane se ne andò e riferì l'invito ai compagni. [...] Finché unirono gli accampamenti e abitarono insieme, tenendosi ognuno quella donna alla quale si era da principio congiunto. Gli uomini non riuscirono a imparare la lingua delle donne, ma queste compresero quella degli uomini. Giunsero a comprendersi, e gli uomini tennero alle Amazzoni questo discorso:«Noi abbiamo genitori, abbiamo averi; non conduciamo quindi più oltre questa vita, viviamo riuniti col nostro popolo. E per donne terremo voi, non altre». Ma a questo discorso risposero le Amazzoni: «Noi non potremmo abitare con le vostre donne. Abbiamo abitudini diverse. Noi tiriamo con l'arco, il giavellotto, andiamo a cavallo. Non abbiamo imparato i lavori femminili. Le vostre donne invece non fanno nulla di ciò che noi facciamo; attendono alle opere femminili aspettando sui carri, e non vanno a caccia né in alcun altro posto. Sicché non potremmo trovarci bene con loro. Ma se volete tenerci come donne vostre, e aver fama di correttezza andate dai vostri genitori, prendete la vostra parte di averi, e quando sarete tornati abiteremo, voi e noi, per conto nostro».
Ascoltarono i giovani ed eseguirono questo consiglio. Ottennero la parte degli averi che spettava loro e tornarono dalle loro Amazzoni. Ma queste: «Noi», dissero, «non siamo affatto tranquille ad abitare in questa contrada, dopo avervi privati dei vostri padri e aver recato gravi danni alla vostra terra. Giacché volete tenerci come vostre donne, seguiteci nella nostra idea. Togliamoci senz'altro da questa contrada e abitiamo al di là del fiume Tanai» [il fiume Don].
Varcarono il Tanai, e percorsero, a partire da esso, tre giorni di strada verso oriente, e altri tre giorni dal Lago Meotico verso il vento Borea [ossia verso Nord]. Giunsero nella regione nella quale abitano adesso, e vi si stabilirono. Da allora le donne dei Sauromati conducono la loro vita antica; vanno a caccia a cavallo sia insieme con gli uomini che senza di loro; vanno in guerra; e indossano lo stesso vestito degli uomini.
E i Sauromati parlano la stessa lingua scitica storpiandola da tempo antico, perché le Amazzoni non l'impararono bene. Quanto al matrimonio hanno quest'uso: nessuna fanciulla si sposa prima di aver ucciso un nemico; anzi alcune, che non riescono ad adempiere l'obbligo, muoiono vecchie senza essersi sposate."
Erodoto, Storie (IV, 110-117).
Articolo dalla pagina Facebook “Mímameiðr”, pubblicato previa permesso
domenica 11 novembre 2018
Culto degli antenati
venerdì 9 novembre 2018
Dziady, la festa dei morti - Parte IV
Nei Zaduszki, l’antica festa contadina dei Dziady si mostra contaminata con il culto cristiano, e viene festeggiata nella tradizionale data del due novembre. L’ibridazione di queste due concezioni della morte, la pre-cristiana e la cristiana, si attua lentamente, a partire dalla Controriforma. Gli Avi ritornanti con le loro richieste e i loro doni vengono gradualmente sostituiti con le anime del purgatorio, in vacanza per un giorno dal castigo purgatoriale, per cui bisogna pregare e far dire delle messe.
Tornando alle usanze della civiltà contadina, in alcune regioni i Dziady andavano accolti preparando il bagno o anche la sauna. In tutti i casi, il pavimento della stanza preposta ai lavacri veniva cosparso di cenere, per osservare la mattina le tracce lasciate dai ritornanti, per vedere se i Dziady “avevano fatto il bucato”.
I vivi dovevano quindi prendersi cura dei morti.
Bisognava in generale comportarsi in modo da accattivarsi il favore dei Dziady, perché erano proprio loro a portare fertilità e benessere. Questo tratto è legato alla concezione della morte precristiana, dell’Europa neolitica legata alla terra, che vedeva vita e morte come strettamente collegate e reversibili. La terra è la madre dei morti, che riaccoglie il morto-bambino.
I morti però portano fertilità solo se sono morti da un po’ di tempo; subito dopo la dipartita averli intorno porta sfortuna. Grochowski sostiene che, nelle prime fasi della dipartita, la morte è ritenuta contagiosa. Questo finchè non vengono svolti tutti i rituali funebri che segnano il passaggio del morto dalla condizione di vivo a quello di avo, di membro dei Dziady. Non appena torna nell’utero terrestre, il morto diventa patrono della fertilità, garantendo raccolti abbondanti. Chiunque abbia mai seppellito un proprio piccolo animale avrà notato come in corrispondenza della sepoltura la vegetazione cresca più rigogliosa. Ci sono modi di dire propri del volgo, come “il dziad è già lì che se lo annusa”, per indicare una persona gravemente malata, oppure “che i dziady ti si portino”. Un po’ come evocare “li mortacci tua”.
Ai tempi pagani, prima della cristianizzazione ad opera di Mieszko I, il primo re della Polonia, la festa dei Dziady si chiamava uczta kozła, la Festa del Capro. La Festa del Capro veniva celebrata dal Koźlarz o Guślarz, una figura sciamanica ibrida fra il sacerdote e il poeta, la cui denominazione andrà ad indicare nei secoli successivi il mago, lo stregone, l’esperto di erbe ed incantamenti. Ma il Guślarz era innanzitutto un poeta, esperto della potente magia della legatura delle parole, capace di versificare per incantare gli astanti.
A proposito di poeti, Adam Mickiewicz, sommo scrittore annoverato fra i Tre Bardi della letteratura polacca, alle usanze dei Dziady ha dedicato un componimento teatrale. Nella prefazione al testo Mickiewicz scrive che i proprietari terrieri hanno cercato di sradicare questa festa pagana, e per questo motivo per molto tempo la ricorrenza è stata celebrava di nascosto, in case abbandonate, vicino ai cimiteri. Le tradizioni dei Dziady erano più forti e radicate nelle aree di culto ortodosso.
Fonti:
- http://www.kainowska.com
Articolo in collaborazione con la pagina Facebook “Slavic Polytheism and Folklore notes”
giovedì 8 novembre 2018
Dziady, la festa dei morti - Parte III
I Dziady in quanto spiriti degli antenati tornavano soprattutto durante la notte fra il 31 ottobre e il primo novembre, e durante questo periodo bisognava osservare una serie di tabù per permettere che l’andata e il ritorno dei morti avvenisse senza intoppi e soprattutto che i morti ritenessero la visita presso i vivi soddisfacente. Nonostante ci fossero scambi di doni fra i vivi e i morti, la potenza della morte era ritenuta qualcosa di indomabile e completamente altro rispetto alla vita. I morti andavano ospitati e rispettati per le feste loro preposte ma erano comunque una presenza pericolosa e destabilizzante. I rapporti fra le due fazioni quindi, fra i vivi e i morti, erano strettamente regolamentate, per non rischiare di scatenare l’ira dei defunti.
Era necessario tenere usci e finestre accostati, per favorire la loro entrata. Era proibito buttare l’acqua sporca fuori dalla finestra, per evitare di centrare in testa l’anima di qualche antenato. Non si poteva cucire, né filare o tessere, perché lo spirito di qualcuno poteva rimanere imprigionato nei punti o nella trama dell’ordito.
A tavola era necessario comportarsi non troppo rumorosamente, e non ci si poteva alzare di scatto, per non spaventare i Dziady. Non si poteva neppure accendere il fuoco nel camino, perché spesso le anime passavano anche da lì. Bisognava limitare al minimo i lavori nei campi, perché i campi quel giorno si riempivano di spiriti. Per i Zaduszki (il due novembre) non si poteva stirare con la pressa, fare il burro, qualsiasi cosa che potesse schiacciare o imprigionare da qualche parte un’entità immateriale.
Oltre a queste prescrizioni, era necessario fare tutto quello che si fa quando arrivano degli ospiti, quindi rifocillarli, scaldarli, offrire loro la possibilità di rilassarsi facendo un bagno o una sauna.
Il cibo che veniva offerto era cibo rituale. Le uova, simbolo di rinascita, erano gradite, assieme all’orzo, che costituiva la base di carboidrati della dieta contadina mitteleuropea. Il miele, che in molte culture è alimento o libagione delle divinità, era molto apprezzato. Poi c’era un piatto tipico della cucina slava, la kutia, una bomba di nutrienti, proteine e zucchero a base di semi di zucca, uvetta, grano, semi di papavero, miele, noci, arancia candita, e talvolta latte o panna.
Oltre ai dolcificanti, la kutia è formata principalmente di semi. Il seme è legato alla simbologia precristiana della morte, che implica sempre e necessariamente l’idea della rinascita. Il seme rappresenta il defunto seppellito nella terra, pronto a trasformarsi in altra vita.
I prodotti caseari erano molto importanti; se non fossero stati offerti ai Dziady le mucche “si sarebbero seccate”. E poi, chiaramente, per un’ospitalità est-europea degna di questo nome, non poteva mancare la vodka.
Durante i pasti in occasione delle feste dei morti era usanza rovesciare o versare parte dei cibi per gli spiriti. Un altro modo per adempiere a quest’usanza era di dare il cibo rituale, o il cibo preferito dai propri defunti più prossimi, ai mendicanti erranti. Nelle zone di Bialystok e nel voivodato della Podlachia ancora si usa portare piccole offerte di cibo sulle tombe, nei giorni compresi fra il primo e il due novembre. Nella Bielorussia il cibo spesso veniva affumicato con della resina raccolta nei formicai per la festa di San Giovanni.
Il tavolo doveva essere rivestito con una tovaglia bianca lavata di fresco e illuminato con candele di produzione casalinga. Dopo aver recitato le preghiere, il capofamiglia si metteva sulla soglia della casa e recitava delle formule di invito:
“O Dziady, vi invitiamo, venite, volate verso di noi, mangiate e bevete ciò che il buon Dio ci ha dato. Vi stiamo offrendo il cibo migliore che abbiamo in casa. Prego, prego!”
Poi ci si sedeva tutti al tavolo, ma in modo che ogni commensale fosse distante dall’altro, perché vicino ad ogni vivo si doveva sedere un morto. Per prima cosa, si beveva la vodka. Ogni bevuta e ogni portata andava a finire per metà nel bicchiere e nella scodella dei morti. Il pasto era consumato in un clima cupo.
Alla fine c’era la formula di saluto rituale:
“O Dziady, mangiare avete mangiato, bere avete bevuto. Ciao ed ave a voi. Diteci, vi serve qualcosa? Ma meglio ancora, volate, volatevene in cielo. Via! Via! Via!”.
Tutti gli avanzi venivano lasciati sul tavolo fino al giorno dopo e le porte si lasciavano accostate fino al canto del gallo.
Altrimenti, la festa poteva essere organizzata direttamente al cimitero, e in quel caso le cose avevano un altro tipo di atmosfera, molto meno lugubre, più festosa.
Questi party cimiteriali in Bielorussia erano chiamati radaunice, e venivano fatti il martedì successivo al Lunedì dell’Angelo, per cui erano detti anche la Pasqua dei Morti. Al pomeriggio si portava un sacco di roba da mangiare alla necropoli locale, con uova dipinte di giallo e rosa ed ettolitri di vodka.
Una volta giunti al cimitero, per prima cosa si diceva la messa. Dove non era disponibile un prete, la sua funzione veniva adempiuta dai mendicanti, che pregavano e cantavano in coro le loro canzoni per i morti. Le donne di tanto in tanto singhiozzavano, e poi via via iniziavano ad urlare, come le prefiche dell’Italia del sud. Le uova dipinte venivano fatte rotolare sulle tombe dei propri cari e sepolte. Poi il banchetto veniva apparecchiato dagli anziani, sopra la tomba di una persona di riguardo. Gli uomini dovevano stare allegri, mentre alle donne era prescritto di lamentarsi a gran voce anche durante il tragitto verso casa.
I Dziady, oltre che essere rifocillati, dovevano essere riscaldati, quindi si accendevano dei falò.
Chi era morto di morte violenta riceveva un trattamento speciale, soprattutto nelle zone limitrofe ai monti Tatra, che erano infestate da banditi. Tutti coloro che passavano nel luogo in cui era avvenuta la violenza vi dovevano lasciare un pezzo di legno, finchè non si formava una catasta. Questa catasta veniva incendiata proprio per la notte dei Dziady.
Le vestigia di questi falò si possono vedere anche ai nostri giorni, nelle znicze, i variopinti e multiformi ceri che vengono lasciati sulle tombe per il giorno dei morti. A forma di lampada, di urna, di Sacro Cuore, di vetrata policroma, con angeli piangenti o decori floreali, le znicze colpiscono per la varietà dei loro colori, che vanno dal rosso, al viola, al lilla, al bianco lattescente, all’oro. Lo spettacolo di migliaia di znicze accese rende i cimiteri polacchi della notte fra il primo e il due di novembre sicuramente degni di una visita, da qualunque parte della barricata vita/morte si stia.
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Articolo in collaborazione con la pagina Facebook “Slavic Polytheism and Folklore notes”
mercoledì 7 novembre 2018
Dziady, la festa dei morti - Parte II
La parola dziady (pronuncia giàde) ha molteplici significati, Piotr Grochowski ne segnala addirittura cinquantasette. Il primo e il più importante è quello di “i Vecchi”, nel senso degli Antenati. “Moje dziady i pradziady” vuol dire letteralmente “i miei nonni e bisnonni” e indica la linea ascendente della propria genealogia. Per indicare propriamente i nonni, si usa piuttosto il diminutivo “dziadki”. La parola dziady ha un significato spostato rispetto a nonni, più profondo ed epico, perché indica gli antenati morti, gli avi.
Ma dziad, oltre che “vecchio”, significa anche “pezzente”, “mendicante”. Nella civiltà contadina polacca si riteneva che spesso i propri antenati venissero a bussare alla porta di casa sotto forma di sconosciuti questuanti, e che pertanto bisognasse trattare i mendicanti con dignità e rispetto. Si riteneva che i mendicanti avessero contatti privilegiati con l’Aldilà, forse per il loro essere costantemente esposti al rischio di morte per inedia o freddo. Inoltre i mendicanti, viaggiando da un luogo all’altro, avevano una natura erratica omologa a quella degli spiriti.
Oltre a ciò, secondo Poniatowski, la parola dziady poteva indicare anche una serie di creature soprannaturali. Altre accezioni della parola possono designare l’ultima fascina di grano del raccolto. Ma in qualche modo tutto ciò ha a che fare con l’idea della morte.
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martedì 6 novembre 2018
Dziady, la festa dei morti - Parte I
La festa dei Dziady è stata celebrata per millenni nelle campagne polacche, ma anche in altre zone di area slava come la Bielorussia, l’Ucraina, la Lituania, la Russia e la Curladia, ovvero una parte dell’attuale Lettonia. È una tradizione antica che proviene dai proto-Slavi e dai Balti. Gli Slavi avevano non una, ma tre o addirittura sei feste dei morti nel corso dell’anno, a seconda dell’area. Le più importanti erano il due di maggio e nella notte fra il 31 ottobre e il primo novembre. L’idea centrale di questa festa è che i morti non siano del tutto morti, ma che possano tornare fra i vivi almeno in periodi prestabiliti dell’anno, e che sia necessario adempiere ad una serie di atti propedeutici per propiziare un loro felice ritorno. Questi riti partono fin dalle primissime fasi della morte.
In effetti, oltre che funzionali all’elaborazione del lutto di chi resta, i riti funebri sono anche rituali di iniziazione per i morti, in cui il corpo del defunto viene lavato e preparato a una nuova fase della sua esistenza, quella oltremondana. Nella Polonia della civiltà contadina, per secoli, erano prescritte una serie di pratiche per evitare che il morto seppellito da poco tornasse subito nel mondo dei vivi. Per questo motivo spesso i morti venivano sepolti senza scarpe, con l’eccezione delle giovani madri, alle quali le scarpe venivano lasciate di modo che potessero percorrere agevolmente la strada dal cimitero alla loro casa, per occuparsi dei loro piccoli orfani.
La vita dopo la morte non era ritenuta granchè diversa da quella prima, e si credeva che i morti adempissero alle stesse funzioni dei vivi, che avessero le stesse esigenze e gli stessi bisogni. C’erano delle usanze funebri peculiari che rivelano l’aderenza a queste credenze. Ad esempio, nelle bare dei morti venivano messi degli oggetti consoni al loro status: i bambini avevano i loro giocattoli, gli studenti si portavano nell’aldilà i loro amati libri, gli uomini ricevevano per il viaggio del tabacco, le donne incinte si portavano il corredino per il loro nascituro, i pescatori non erano pronti per partire se qualcuno non aveva messo nella bara le loro reti. Anche gli ubriaconi venivano onorati con tutti i crismi, e nelle loro bare si metteva una bottiglia di vodka.
Era assolutamente prescritto di porre nella bara tutti gli oggetti che potevano servire al morto, altrimenti, per la festa dei Dziady, il defunto sarebbe tornato a reclamarli. Una volta pacificato nelle sue esigenze, sarebbe potuto tornare per fare cose più utili, come ad esempio per rivelare dove aveva nascosto dei soldi, o per chiedere perdono per qualcosa che aveva fatto da vivo.
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Articolo in collaborazione con la pagina Facebook “Slavic Polytheism and Folklore notes”
lunedì 5 novembre 2018
Ossa e pietre
Ci riprenderemo ciò che è nostro
Ogni valle
Ogni tempio
Ogni fiume e ogni albero
Niente più fabbriche, niente più chiese
Finirà l’era della pietra e del cemento
Sarà l’ora del legno
Sarà il ritorno delle tribù
Non vogliamo compromessi, oro o danaro
Nostra è la terra, nostri i corvi
Serviamo gli Dèi e loro soltanto, né con onori, né con lusinghe ci potrete avere
Fuoco e sangue, albero e foglia, danze e venti
Pietra e osso, legno e paglia, tamburi e corni, questo sarà nuovamente
Rinneghiamo la civitas ed i suoi mostri, abbracciamo ciò che è vero e sacro e nulla d’altro
domenica 4 novembre 2018
Smembramento e rinascita di Djukhade- parte seconda
Poi entrai nell’apertura di un’altra roccia.
Li era seduto un uomo nudo che alimentava il fuoco con dei mantici. Sul fuoco era appeso un enorme calderone, grande come metà della terra.
Quando mi vide, l’uomo nudo andò a prendere un paio di tenaglia grandi come la tenda e mi afferrò con quelle.
Prese la mia testa e la staccò, poi taglio il mio corpo in piccoli pezzi e li mise nel calderone. Lì fece cuocere il mio corpo per tre anni. Poi mi mise su un’incudine e mi colpi la testa con un martello, quindi la immerse in acqua tiepida per temprarla. Tolse dal fuoco il grande calderone in cui aveva fatto bollire il mio corpo e ne versò il contenuto in un’altra pentola. Ora tutti i miei muscoli erano separati dalle ossa. Adesso io sono qui, posso parlare normalmente e non so dire quanti pezzi ci siano nel mio corpo.
Ma noi sciamani abbiamo diverse ossa e muscoli in più degli altri uomini. Si scopri che di pezzi in più ne avevo tre: due muscoli e un osso.
“Quando tutte le mie ossa furono separate dalla carne, il fabbro mi disse: “il tuo midollo è diventato un fiume”, e io davvero vidi nella capanna un fiume su cui galleggiavano le mie ossa. “guarda, ecco le tue ossa che scorrono via!”, disse il fabbro, e cominciò a tirarle fuori con le sue tenaglie.
Quando tutte le sue ossa furono deposte sulla riva il fabbro le rimise insieme: esse si ricoprirono di carne e il mio corpo riprese il suo aspetto originario. L’unica cosa che era rimasta staccata era la mia testa. Sembrava nient’altro che un teschio nudo. Il fabbro ricopri il teschio di carne e lo attaccò sul busto. Ora avevo ripreso la mia forma umana precedente. Prima di lasciarmi andare via il fabbro mi cavò gli occhi e li sostituì con un paio di occhi nuovi.
Mi bucò le orecchie con il suo dito di ferro e mi disse: “saprai udire e comprendere il linguaggio delle piante”. Dopo di ciò mi ritrovai sulla cima di un monte e di lì a poco mi svegliai nella ma tenda. Vicino a me sedevano preoccupati mio padre e mia madre.
Djukhade riceve il suo tamburo dall'albero cosmico
Lo sciamano siberiamo Djukhade racconta come ha avuto il suo tamburo: "Allora gli spiriti mi condussero ai piedi di un giovane larice, che era cosi alto da toccare il cielo. Udii voci che dicevano: "è stabilito che tu debba avere un tamburo fatto con un ramo di questo albero". Mi accorsi che stavo volando come gli uccelli del lago. Non appena mi staccai dal suolo, il padrone dell'albero mi gridò: "mi sta cadendo un ramo che si è spezzato...prendilo e fanne un tamburo, esso ti servirà per il resto della tua vita". Vidi il ramo cadere e lo presi al volo.(***)
FONTE: GLI SCIAMANI - Piers Vitebsky
Orlando, in collaborazione con Le vie di Wodanaz
(*) Djukhade, importante sciamano del popolo Nganasan della siberia nord occidentale degli anni ’30.
(**) da tenere sempre presente che la figura dello sciamano è molteplice e non è possibile inquadrarla del tutto; Anche le iniziazioni sono diverse da popolo a popolo, hanno temi comuni ricorrenti ma differente modo di "attuabilità", quest'ultimo differente addirittura da sciamano a sciamano dello stesso popolo. Per alcuni popoli l'iniziazione dello sciamano dura tutta la vita.
(***) Ho riportato questo breve episodio per far comprendere che non basta creare un oggetto. L'oggetto che appartiene allo sciamano ha uno spirito, ed è donato al momento giusto e in momenti particolari. Molti di oggi si concentrano solo ed esclusivamente sul tamburo, ma potrebbe essere un qualsiasi altro "strumento" necessario allo sciamano. Non basta comprarlo, non basta comprare i materiali, ogni "pezzo/componente" di uno strumento (qualsiasi oggetto che possiede lo sciamano) e lo strumento stesso, deve essere preceduto da un evento particolare. Proprio quell'evento fà la differenza e sapremo quale "strumento" ci appartiene. Bisogna aspettare, senza avere fretta di "apparire" e di "fare", poichè le istruzioni arrivano nel momento giusto, nè troppo tardi, nè troppo presto.
sabato 3 novembre 2018
Smembramento e rinascita di Djukhade- Parte I
Il processo d’iniziazione dello sciamano (**) siberiano Djukhade(*) rivela molti temi legati alla morte e alla rinascita sciamanica. Egli stesso descrive la prova con le seguenti parole:
“il marito della signora dell’acqua, il grande signore del sottosuolo, mi disse che avrei dovuto percorrere il sentiero di tutte le malattie. Egli mi diede come guida un ermellino e un topo, e con loro proseguii il mio viaggio addentrandomi nel mondo sotterraneo. I miei compagni mi condussero su un’altura, dove c’erano sette tende. Le persone che abitano queste tende sono cannibali, mi avvertirono il topo e l’ermellino. Ma io mi avvicinai lo stesso a quella di mezzo e di colpo persi la ragione. Quella gente era il popolo del vaiolo. Mi tagliarono la testa e la buttarono in un calderone che bolliva. In quella tenda incontrai il signore della pazzia, in un’altra vidi il signore della confusione e in un’altra ancora il signore della stupidità. Io feci il giro delle tende e conobbi i sentieri delle varie infermità umane.
Poi arrivai a un mare senza fine. Sulla costa crescevano alberi radi e un tappeto di erba corta. Di li vidi sette rupi di roccia piana. Salii su una di esse e quella si spalancò.
Dentro si vedevano dei denti, come quelli di un orso, e l’interno era cavo come un cesto. “io sono la pietra che tiene ferma la terra”, annunciò la roccia. “il mio peso trattiene i campi perché il vento non li porti via”.
La seconda rupe si spalancò e disse: “che tutti gli uomini, battezzati e non battezzati, possano togliermi la pietra di dosso e usarla per fondere il ferro”. Poi ciascuna disse come l’umanità avrebbe potuto usarla. Per sette giorni rimasi senza parole davanti a quelle pareti di roccia. Erano proprio loro che mi avevano dato quelle istruzioni.
Orlando, in collaborazione con Le vie di Wodanaz
giovedì 1 novembre 2018
Il valore tradizionale della caccia nella cultura tribale indoeuropea
Siamo consapevoli che questo articolo provocherà dissensi e polemiche, lo pubblichiamo anche per questo, da tribalisti riteniamo infatti che sia necessario essere chiari fin dal principio, anche e soprattutto su argomenti che la morale odierna considera spinosi.
La caccia ha sempre svolto un ruolo insostituibile nelle società indoeuropee, arcaiche come moderne, ha nutrito e addestrato alla guerra, al dolore e alla fatica generazioni su generazioni mantenendo, fino a poco meno di un millennio fa, la propria centralità nella formazione dell’uomo libero.
Saper maneggiare un’arma alla bisogna, sapersi procurare il necessario alla sopravvivenza in un ambiente potenzialmente ostile erano, e sono, capacità di primaria importanza tese a forgiare in maniera incisiva la persona.
L’avvento della società feudale prima e quello delle armi da fuoco poi hanno snaturato completamente la natura di questa arte antica quanto il mondo, rendendola prima esclusiva, edulcorata, di una élite spesso imbelle e parassitaria e successivamente democratica tramite l’introduzione di armi che permettono a chiunque di abbattere animali di ogni tipo.
Qual è quindi la nostra posizione? È molto semplice, siamo non solo a favore della caccia ma la riteniamo esperienza indispensabile nella formazione di qualunque uomo che davvero vuol dirsi libero ma, al contempo, siamo fortemente contrari all’uso di armi da fuoco in quanto teso ad appiattire e rendere uguali gli uomini, la polvere da sparo è infatti una pialla che rende il debole in grado di competere con il forte, essa quindi corrompe la pratica venatoria snaturandone quindi l’insostituibile funzione formativa.
Questa è la nostra linea in merito, nulla di più, nulla di meno.