Cerca nel blog

domenica 11 agosto 2019

Su Budicca, simbolo di libertà

Sulla base di Tacito, si pensa che Budicca fosse di famiglia nobile. A circa sette anni sarebbe andata a vivere con una seconda famiglia, presso cui rimase fino ai 14 anni circa. Fu in questo periodo che apprese storia, tradizioni, religione e cultura delle tribù celtiche e imparò l'arte militare. Attorno al 47 tornò a casa e la sua famiglia la diede in moglie all'iceno Prasutago. La coppia ebbe due figlie.


Prasutago sperava di lasciare il regno ai suoi familiari, nominando co-erede l'imperatore romano. Secondo il suo testamento, dunque, il regno doveva essere equamente diviso tra la moglie, le figlie e l'Impero Romano, a quel tempo comandato da Nerone. 


Era pratica normale di Roma concedere l'indipendenza ai regni alleati solo finché erano vivi i re clienti, che però dovevano lasciare in eredità a Roma i loro regni, era così ovunque ed i romani violavano in maniera sistemica i patti che loro stessi avevano siglato, tradendo la parola data ogni volta questo potesse portare loro un vantaggio. 


Così, quando Prasutago morì, i suoi tentativi furono vanificati e il regno fu annesso dai Romani, come se fosse stato conquistato. Terre e proprietà furono confiscate e i nobili trattati come schiavi. Budicca protestò con forza: per tutta risposta, i Romani la umiliarono esponendola nuda in pubblico e frustandola, mentre le giovani figlie furono stuprate (come ammette lo stesso Tacito).


Sento spesso attaccare Budicca da fanatici romani di ogni risma ma ella non fu altro che un simbolo, la nobiltà celto-britanna la seguì perché era stufa di vedere le proprie prerogative usurpate da genti straniere, di dover temere costantemente stupri e angherie da parte della soldataglia romana, di sapere che per un capriccio di un tizio spelacchiato a Roma la propria casa, la casa avita, poteva esservi tolta per ricompensare il lecchino romano di turno.

Com'è che si dice? 


"Peggio per i popoli che non accettarono Roma che rimasero all'età del ferro" giusto?

 

Cosa te ne fai di un ponte di pietra, quando sei uno schiavo? A che giova avere un teatro o una strada lastricata quando non puoi nemmeno girare libero sulla tua terra? A cosa servono acquedotti e mura di pietra se devi obbedire ad una legge straniera?


La libertà per sé stessi e per i propri cari è un valore assoluto, molto più importante dei monumenti e delle comodità che può garantire una Roma qualsiasi.

venerdì 9 agosto 2019

I cosacchi durante la seconda guerra mondiale - parte I

Durante la campagna contro l'Unione Sovietica della seconda guerra mondiale, Italiani e Tedeschi incorporarono alcune decine di migliaia di Volontari Cosacchi nel Regio Esercito, nella Wehrmacht e nelle Waffen SS.
I Cosacchi sono una popolazione che viveva e che tuttora vive nelle steppe meridionali dell'Ucraina e della Russia, principalmente vicino ai fiumi Don, Dnerp, Dunay ( i.e. Danubio ), Terek, Kuban, Volga, Ural e Amur, nelle zone in prossimità del Caucaso e anche del Mar Nero. Possedevano e tuttora possiedono una cultura ed anche una lingua tutte loro.
I Cosacchi, a differenza di altri popoli, non hanno mai conosciuto la servitù della gleba; il termine 'Kazak', o 'kozak' a seconda del dialetto o lingua, vuol dire appunto "uomini liberi". I Cosacchi erano totalmente indipendenti ed eleggevano il loro capo autonomamente; questi erano poi ortodossi praticanti anche se accettavano altre realtà religiose come buddhisti, musulmani e pagani.
I Cosacchi furono per lungo tempo una popolazione a sé stante finché nel 1721, una volta divenuti parte dell'Impero Russo, persero la loro autonomia; vennero infatti dichiarati Russi pur mantenendo intatte la loro cultura, le loro tradizioni ed i loro usi e costumi dietro previo giuramento di fedeltà allo Zar di Russia.

Durante la guerra civile scoppiata in seguito alla crisi del 1917, i Cosacchi mantennero il giuramento di fedeltà allo Zar e combatterono dalla parte dei Bianchi contro i Bolscevichi.
Fu per questo motivo che vennero perseguitati dal regime comunista; circa un milione di loro - ovvero un quarto dell'intera popolazione Cosacca - furono arrestati, deportati e uccisi.
Chi fra i Cosacchi ebbe i mezzi per farlo emigrò ad Ovest verso i Balcani o in altre realtà europee.

Per il trattamento riservatogli dal regime bolscevico con l'inizio dell'operazione Barbarossa ( i.e. attacco preventivo in terra sovietica portato avanti dalle forze dell'Asse ) i Cosacchi si arruolarono come volontari nelle file tedesche ed italiane nella speranza di potersi riprendere le terre, la libertà e l'autonomia strappategli dai Bolscevichi. Per un breve periodo di tempo riottennero le loro terre e ripresero ad amministrarle autonomamente come un tempo praticando l'Ortodossia Cristiana e rispolverando le loro tradizioni, usi e costumi.

Questo idillio però duro ben poco; con il crollo dell'Ostfront i Sovietici si ripresero le terre dei Cosacchi costringendoli a vagare nuovamente privi della loro patria.
Fu per questo che il 10 Novembre del 1943 l'alto comando tedesco promise ai Cosacchi un territorio dove poter vivere tranquillamente e autonomamente sino al loro previsto ritorno in patria a guerra finita.
Inizialmente i Cosacchi si stanziarono per un breve periodo in Bielorussia; successivamente, per via della guerriglia partigiana in Friuli che portò alla proclamazione della 'Repubblica partigiana della Carnia' nell'estate del 1944, il Comandante superiore delle SS e della polizia di Trieste Odilo Globočnik concordò con gli alti comandi tedeschi l'insediamento dei Cosacchi in Carnia al fine di contrastare i partigiani italiani.

Fu questo l'inizio dell'Operazione ATAMAN che nel giro di qualche settimana trasferì circa 22.000 cosacchi con le loro famiglie ed i loro animali, tra cui moltissimi cavalli e cammelli, a bordo di cinquanta treni merci militari ove si incontrarono con qualche migliaio di Cosacchi reduci dalle guerriglie anti-partigiane, per un totale di venticinquemila Cosacchi incluse le loro famiglie.
Crollata ad Ottobre la "zona libera" della Carnia, i Cosacchi iniziarono la costruzione della 'Kosakenland in Norditalien' e replicando nei villaggi a loro concessi la loro organizzazione, la loro cultura, la loro religione, i loro usi e costumi.
Il comune di Vergenis divenne la sede dell'Atamano ( i.e. capo supremo dei Cosacchi ) Pëtr Nikolaevič Krasnov già reduce della guerra civile in Russia contro i bolscevichi. Molti paesi vennero ribattezzati con i nomi delle città russe: Alesso fu ribattezzata in Novočerkassk, Trasaghis in Novorossijsk, Cavazzo in Krasnodar e Tolmezzo divenne la sede del Consiglio Cosacco.
I Cosacchi in quel periodo convissero in maniera pacifica con la popolazione locale, contrastando i partigiani che ogni volta tentavano di attaccare i vari paesi dove si erano insiediati gli stessi Cosacchi.
Spesso i bambini del posto giocavano con i bambini Cosacchi e gli stessi Cosacchi instaurarono buoni rapporti con la popolazione locale nonostante le radicali differenze etniche.

Articolo di Аврелиан Сороковский

domenica 4 agosto 2019

Il significato di arga- nell’universo delle lingue germaniche - parte IV

In conclusione è dunque certo che le testimonianze letterario-giuridiche longobarde ed anglosassoni come pure quelle altotedesche non contribuiscono in alcun modo ad accreditare un’implicazione omosessuale dell’aggettivo argr al di fuori dell’area scandinava, forse per scarsità di fonti ma più probabilmente - come afferma lo stesso V. Santoro - per l’assenza totale fra i germani continentali ed insulari di un simile utilizzo del termine.


Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Filologia Germanica 1A (2018 - 2019) tenuto dalla professoressa Carla del Zotto, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

Il significato di arga- nell’universo delle lingue germaniche - parte III

DE ORIGINE ET SITU GERMANORUM

Resta da analizzare una fonte che spesso viene fatta entrare a forza in questa questione, ossia il seguente passo di Tacito tratto dal libro XII del De origine et situ Germanorum riguardante il fato che le popolazioni germanico continentali erano solite riservare a quei membri delle loro Sippe che si fossero macchiati di perversioni omosessuali:

“Distinctio poenarum ex delicto: proditores et transfugas arboribus suspendunt, ignavos et imbelles et corpore infames cæno ac palude, iniecta insuper crate, mergunt. Diversitas supplicii illuc respicit, tamquam scelera ostendi oporteat, dum puniuntur, flagitia abscondi.”

Partiamo dallo studio dei tre aggettivi in allitterazione “ignavos et inbelles et corpore infames”.
I primi due sono traducibili come "i vili e gli imbelli" e sono praticamente sinonimi.
I corpore infames ( i.e. "[coloro che] infamano il [loro] corpo” ) sono invece i pathici ( i.e. plurale di pathicus termine spregiativo derivante dal termine greco παθικός usato per definire gli omosessuali e traducibile con “degenerato" ) come risulta dal confronto con altri passi di opere di Tacito fra le quali spiccano gli Annales; esemplare è lo stralcio “Cassium quendam mimum corpore infamem” (Annales, I, 73, 2) dove Tacito racconta di Cassio, pantomimo dai più del suo tempo dileggiato per il suo essere sfrontatamente omosessuale.
Su questa linea si attesta anche l’opinione di V. Santoro.

Seguitiamo con lo studio del seguente passo contenente l'endiadi cæno ac palude e dove l'avverbio insuper assume valore locale:
“cæno ac palude, iniecta insuper crate, mergunt”
che tradotto suona così:
“li affogano nel fango di una palude, sovrapponendo loro un graticcio” azione compiuta forse per impedire al cadavere di tornare a galla o per rendere più breve la condanna.
Tra i passi che attestano il ricorrere dello stesso tipo di pena presso altri popoli ve ne è uno di Livio “deiectus ad caput aquæ Ferentinæ erat superna iniecta saxisque congestis mergeretur” (Ab Urbe condita, I, 51, 9)

Segue ora l'analisi di due brevi spezzoni prima di discutere l’importanza del brano rispetto alla questione argr:

- “illuc respicit, tamquam” tradotto suonerebbe come “mira a questo [secondo loro], che [...]" ossia “si fonda sulla loro considerazione [...]”. Tramite l'uso del tamquam con il congiuntivo si pone l’accento sul fatto che la considerazione presentata è propria dei Germani e non di Tacito stesso.

- “scelera ostendi oporteat dum puniuntur, flagitia abscondi” qui Tacito con i termini scelera ( i.e.
“scelleratezze" ) e flagitia ( i.e. “infamie" ) identifica rispettivamente i delitti contro la comunità, tra cui tradimenti e diserzioni, e quelli che implicavano una colpa vergognosa e per questo infamante come la viltà e l’omosessualità. Non è ben chiaro quanto le due colpe fossero fra loro collegate nell’immaginario dei germani continentali.

Come si può dedurre da quanto sinora detto nonostante il passo fornisca informazioni essenziali sul rapporto dei germani continentali con l’omosessualità esso non ne restituisce alcuna sull’utilizzo dell’aggettivo argr in ambito continentale per descrivere un simile atteggiamento.


Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Filologia Germanica 1A (2018 - 2019) tenuto dalla professoressa Carla del Zotto, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

Il significato di arga- nell’universo delle lingue germaniche - parte II

Testimonianze LONGOBARDE, ANGLOSASSONI ed ALTOTEDESCHE

Il termine germanico arga- è presente sia nella lingua longobarda che in quella anglosassone.
In entrambi questi mondi fortemente influenzati dal cristianesimo - gli anglosassoni dal cristianesimo romano-celtico, i longobardi da quello ariano di Ulfila prima e da quello romano poi - l’aggettivo argr non presenta implicazioni semantiche afferenti alla sfera del sessuale pur mantenendo quell’aurea di negatività propria anche del mondo scandinavo.
In quei luoghi dove la differente moralità cristiana cercava di far breccia negli animi dei nuovi fedeli non vi era più spazio per termini avversi all’essenza di quest’ultima ed è forse per questa ragione che l’aggettivo argr perse quella forte connotazione sessuale tipica del mondo scandinavo mutando di impiego.

Per quanto riguarda l’area longobarda basti citare un articolo dell’editto promulgato dal re Rotari del 643, editto che oltre ad essere prima codificazione delle sue consuetudini giuridiche sancì il passaggio del popolo longobardo dal cristianesimo ariano a quello romano ( oss. bisogna tener da conto che fra le genti longobarde vi fossero persino a quell’epoca ampie resistenze di culti pagani come documentato da Stefano Gasparri ne “La cultura tradizionale dei longobardi” ). In questo articolo si analizza il peso dell’ingiuria arga che come traspare dal testo dell’articolo assume il significato di “viltà - codardia”; lo stesso termine con la stessa accezione viene utilizzato da Paul Warnefried nell’Historia Langobardorum ( i.e. “Storia dei Longobardi” fine secolo VIII, in essa si narra di come lo sculdascio Argait fosse stato dileggiato dal duca ligure Ferdulfus il quale - giocando su significante della radice del nome Argait, in realtà composto da harja, ossia “esercito”, e da gaiðaz, ossia “lancia” - aveva paragonato lo sculdascio ad un arga e di come questi per lavare l’infamia decise di condurre un’operazione militare contro degli slavi dimostrando così il suo valore marziale e trovando così la sua morte ).
Altro impiego dell’aggettivo arga fra i longobardi è quello di descrivere il tradimento coniugale come
riportato dal Liber Papiensis, calcando l’accento sulla slealtà dell’atto della violazione coniugale.

Per quanto riguarda l’Inghilterra anglosassone il pensiero corre subito al poema epico Beowulf dove l’atto di affrontare un drago in solitaria viene così descritto: “ne bið swylc earges sið!” ossia “non è questa l’impresa di un codardo!”. Per descrivere l’eroismo dei guerrieri che parteciparono alla battaglia di Maldon, l’autore del poema storico Sæcc Mǣldūnes ( i.e. “La battaglia di Maldon” tardo secolo XI ) usa l’epiteto di “wlance þegenas” affiancandolo ad un altro epiteto “un-earge men” entrambi traducibili come “prodi guerrieri”.
Ecco che nuovamente ritorna il significato di “viltà - codardia” condiviso con il mondo longobardo e quello scandinavo.
Un altro utilizzo dell’aggettivo argr sempre in riferimento alla condotta in battaglia in un’accezione di codardia mista ad indolenza è accreditato nella versione anglosassone della Historia ecclesiastica di Beda dove la schiera di soldati britanni che attendeva inerte l’attacco dei Pitti dopo il 410 - anno della lettera dell’imperatore Onorio nella quale esortava i britanni a difendersi da soli dacché Roma avrebbe presto abbandonato l’isola a sé stessa - viene descritta come “se earga feða Brytta” traducendo con earga l’aggettivo latino segnis “pigro, inerte”. Il sostantivo legato a questo aggettivo è yrgþo ed è traducibile in latino con segnitia e dunque dal significato circoscrivibile al concetto di “pusillanimità”.
La vera novità è però l’uso comune anche alle testimonianze altotedesche che dell’aggettivo earg viene fatto nei testi cristiani - sia in poesia che in prosa. Esso è completamente slegato dai significati tradizionali sinora incontrati ma mantiene la sua carica negativa dacché viene usato in riferimento a disvalori cristiani quali l’indolenza di fronte ai precetti degli uomini santi che seguono il percorso di Cristo. Ecco che nel Cristo di Cynewulf il termine earg va ad indicare l’uomo cacciato dal paradiso terrestre privato di ogni beatitudine in quanto peccatore mentre nella traduzione anglosassone del passo dell’evangelo di Matteo (12, 39) nel quale il Cristo apostrofa i Farisei come “cneorisso yflo and arg” ossia come “generatio mala et adultera” il termine arg riprende il significato di infedeltà traslandola dal piano coniugale a quello metafisico dacché non si parla certo di tradimento carnale ma bensì di tradimento della volontà del dio trinitario.

Per quanto concerne le testimonianze altotedesche non afferenti ad ambiti ecclesiastici si è soliti rifarsi all’aggettivo superlativo argosto usato nell’Hildebrandslied ( i.e. “Canto di Hildebrand” ) come insulto ai danni del protagonista Hildebrand il cui significato, checché ne dica lo studioso Yoël L. Arbeitman, non ha implicazioni semantiche legate all’omosessualità; come fa presente lo stesso V. Santoro l’Hildebrandslied è l’unico esempio di poesia eroica dell’area germanica continentale ed in più il termine argosto viene utilizzato in un contesto guerresco proprio affianco al sostantivo wiges ossia “battaglia, guerra”.
Siamo di nuovo dinanzi ad un’idea di viltà e di codardia espressa tramite l’utilizzo dell’aggettivo argr in forma superlativa; im Westen nichts Neues insomma.


Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Filologia Germanica 1A (2018 - 2019) tenuto dalla professoressa Carla del Zotto, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

Il significato di arga- nell’universo delle lingue germaniche - parte I

La seguente tesina tratterà dell’utilizzo in ambito germanico del termine arga- e della sua implicazione omosessuale che spesso viene ritenuta comune a tutto il panorama delle lingue e dialetti germanici.

Testimonianze SCANDINAVE

Nelle lingue scandinavo-islandesi dell’epoca medievale, l’aggettivo argr - nei componimenti poetici e negli scritti aulici, dunque più linguisticamente e stilisticamente posati, si preferiva utilizzare la metastasi eufemistica ragr - presenta numerose implicazioni semantiche legate fra di loro da uno sfocato significato comune.

La prima di cui V. Santoro ci rende partecipi nel suo scritto riguarda l’idea di “viltà - codardia” di cui si ha testimonianza in varie saghe islandesi quali la Gísla saga Súrssonar ( i.e. “Saga di Gísli Súrsson” metà secolo XIII, in essa Gísli sceglie di affrontare un berserkr e la voce narrante rimarca di come un argr - ossia un “vile - codardo” - non avrebbe mai computo un simile gesto ) e la Grettis saga Ásmundarsonar ( i.e. “Saga di Grettir Ásmundarson” seconda metà secolo XIII, in essa Grettir asserisce durante un alterco giovanile che solo un argr aldri - ossia un “uomo vile - codardo” - rinuncerebbe alla vendetta ). Altro scritto da tenere in considerazione è la norvegese Karlamagnús saga ok kappa hans ( i.e. “Saga di Carlo Magno e dei suoi errori” fine secolo XIII, in questa raccolta di opere franche sulla figura di Carlo Magno redatta in norreno per re Haakon V di Norvegia vi è un passo in cui il re Kossablin chiede di poter marciare contro Rolando proclamando che mai avrebbe voluto essere apostrofato come regimaðr - ossia “uomo vile - codardo” - termine che nella trascrizione in islandese della suddetta saga verrà affiancato alla metastasi eufemistica ragr per descrivere le gesta di un re ragr sim geit, ossia “codardo come una capra” dove geit è la controparte femminile del termine che indica il capro ). Questo significato è proprio anche dei composti argskapr e ragskapr dove l’utilizzo del suffissoide -skapi dona ai due aggettivi un’accezione astratta indicante carattere, essenza, condizione, stato.
Nella Hálfs saga ok Hálfsrekka ( i.e. “Saga di Hálf e degli campioni di Hálf” fine secolo XIII, si utilizza il termine ragmenn per descrivere gli otto jarlar figli di Úlfr che caddero combattendo contro Hálf e i suoi seppur in netta superiorità numerica ) l'aggettivo ragr sostituisce alla semplice quanto generica accezione di “viltà - codardia” quella di “scarsa capacità, inettitudine in battaglia”.

All’idea di “viltà - codardia” nel mondo scandinavo è evidentemente connessa quella di “non virilità - effeminatezza” basti pensare alla già citata espressione ragr sim geit, ossia “codardo come una capra”. Già in precedenza si era posto l’accento sul fatto che il sostantivo geit indicasse un esemplare di sesso femminile e non maschile senza però andare a fondo nella questione; la scelta del suddetto non appare casuale ma ponderata dacché il termine hafr ( i.e. sostantivo maschile per “capro” ) è legato all’immaginario dell’Ase Þórr, epitome di forza e possanza virile.
Ecco che già si palesa un infelice connubio fra l’aggettivo argr e la dimensione del femmineo, connubio che si palesa prepotentemente in alcuni carmi dell’Edda Poetica; basti pensare al passo della Þrymskviða dove proprio l’Ase Þórr si ritrova ad impersonare Freyja indossando abiti femminili per rientrare in possesso del suo martello sottrattogli da Þrymr, signore degli jotnar. In esso Þórr si lamenta di come il resto degli Asi lo avrebbero chiamato argan ( i.e. “effeminato” ) dacché si era vestito del lino nuziale. Nella Lokasenna Óðinn e Njorðr, irati per le pesanti offese che Loki stava lanciando alle Asinie durante il banchetto organizzato da Ægir, decisero di rispondergli per le rime ricordandogli di come fosse un Ase effeminato dacché si tramutò in giumenta e partorì un cavallo ad otto zampe, Sleipnir, che divenne il destriero di Óðinn. Loki rispose alle accuse restituendo ad Óðinn l’epiteto infelice, accusandolo di praticare arti magiche come le veggenti.
È quindi naturale che l'aggettivo argr presenti nel mondo scandinavo un’inequivocabile implicazione omosessuale ed in questa veste per gli scandinavi rappresenta senza dubbio l’offesa più grave punibile con la morte ( e.g. rassragr “culo stuprato”). L’aggettivo argr in questa connotazione si riferisce ad entrambe le persone coinvolte nell’atto sessuale, senza alcun distinguo fra ruolo attivo e passivo dacché irrilevante.

Il termine argr può essere usato anche per indicare comportamenti femminili lascivi o incestuosi, basti pensare al composto arghola presente nella Hauksbók dove il secondo elemento femminile hola che solitamente sta a significare “buco - cavità” viene usato in senso traslato per indicare una donna di malaffare che attraverso dei filtri magici sottrae alle legittime mogli i loro uomini.

Altra implicazione semantica è quella appartenente al lessico giuridico norvegese e dunque legata al temine argafas che sta ad indicare, secondo l’etimologia proposta da V. Santoro, un attacco ( fas ) farlocco ( arga ) e dunque minacciato ma non attuato.

Insomma è corretto asserire che l’aggettivo argr ed il sostantivo ergi ad esso legato siano impiegati per descrivere un qualcosa di negativo.


Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Filologia Germanica 1A (2018 - 2019) tenuto dalla professoressa Carla del Zotto, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

Elogio della filosofia eroica, terza parte

E fu proprio Giordano Bruno che, nell’opera “Sigillo dei sigilli”, esponendo le tipologie di contrazioni filosofiche, ovvero modalità di realizzazione della vita spirituale, parlò di un poco conosciuto filosofo greco, Anassarco, che, giunto allo stato di concentrazione perfetta, fu in grado di non percepire il dolore delle torture terrificanti che un tiranno gli stava infliggendo. Il filosofo avrebbe esclamato che, proprio grazie alla sua virtù, i ruoli di torturatore e vittima si erano invertiti.
Bruno, sebbene ciò possa sembrare folle, credeva davvero che ciò fosse possibile, e lo realizzò anche in prima persona, quando, dopo la sentenza a morte dell’inquisizione romana, esclamò ai giudici:

« Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza, che io nell’ascoltarla».

Questi personaggi, veri e propri miti della filosofia, erano coloro che, realizzando il modello dell’uomo perfetto, erano in grado di compiere azioni straordinarie. La filosofia, dunque, era denotata essenzialmente come una forma di educazione al mondo e, come ogni processo educativo, necessitava di immagini modello a cui l’individuo sperava di uniformarsi concretamente e, se non sovrapporsi ad esse, almeno condividerne delle peculiarità. In un certo qual modo, la filosofia è poi vista da queste correnti come forma di depersonalizzazione. Il filosofo, infatti, perde le particolarità della propria persona per uniformarsi ad un modello archetipico, mitico. Il saggio possiede determinate caratteristiche simboliche, mitiche, e sarà tale colui che introietterà questa essenza in sé. Non a caso, leggendo le parole dei maestri dell’umanità quali Socrate, Ermete Trismegisto, Eraclito, Lao Tze, Seneca, sembra quasi che questi condividano la stessa voce. Essi, tra l’altro, tendono ad assomigliarsi persino nelle rappresentazioni plastiche e pittoriche. Sono spesso visti come uomini anziani, dalla lunga barba e il fisico provato, ma stabile.

Francesco Savini, in collaborazione con le vie di Wodanaz 

Elogio della filosofia eroica, seconda parte

Questi personaggi si muovevano all’interno di un orizzonte di Senso che li spronava all’azione, orizzonte che, nel mondo moderno, appare come irrimediabilmente perduto. Quale il fine di vivere una vita saggia, all’insegna della sapienza e delle virtù umane, se essa, nell’orizzonte metafisico che fa da sfondo alle nostre vite, è di fatto equivalente ad una vita passata tra i vizi e l’ignoranza? Certo, la sapienza e la virtù valgono per sé stesse, ma quando ricercavano la sapienza e la virtù, questi personaggi miravano ad un inserimento in un orizzonte di senso definito, cosmico, che ora è scomparso. Marco Aurelio desiderava certamente arrivare ad una visione equanime di tutti gli eventi del mondo, così da non soffrire più ed essere sempre massimamente felice, ma ciò era pensabile solo ponendo un mondo in cui fosse possibile sovrapporsi al pensiero di Giove, il Logos del cosmo. Occorreva innanzitutto un cosmo, inteso come ordinamento universale, a cui equipararsi, per essere sommariamente felice e realizzare la condizione umana. 


La filosofia, dunque, era intesa come realizzazione di uno stato che andava a comporre condotta e metafisica, impossibile pensare una felicità ulteriore. Lo stesso vale per il Socrate platonico, secondo cui l’uomo realizzato era colui che, uscito dalla caverna, ammirava le forme assolute e, infine, ricongiunto col Bene, soddisfaceva l’ardente erotismo dato dall’attrazione verso la bellezza assoluta, ma dov’è finita, ora, la caverna?


E’ importante pensare che ogni pensiero, ogni atto della filosofa di ognuno di questi personaggi eroici, aveva all’orizzonte questa possibilità, e dunque la presenza di saggi che, in tempi passati, avessero realizzato questo viaggio, appreso la lezione del mondo. Non si può in alcun modo, quando si parla di loro, prescindere da questo presupposto, che comprendeva in sé anche la divinità. Farlo sarebbe qualcosa di altrettanto assurdo quanto trascrivere la legge di gravitazione universale di Newton su un foglio, e pretendere che possa rivelare il suo senso anche a qualcuno che ignora completamente ogni nozione matematica.



La filosofia eroica, è importante specificarlo, non avrebbe avuto alcun senso senza la presenza di figure sovraumane, in grado di realizzare cose che, a colui che non aveva nulla a che fare con la filosofia apparivano impossibili e folli. Socrate, si dice, era rimasto in piedi immobile nello stesso punto per giorni meditando un problema filosofico, e riusciva ad amministrare perfettamente le proprie passioni, tanto da resistere all’ubriachezza e al sonno, come messo in scena nel Simposio; Epicuro era stato in grado di affermare di star vivendo istanti di assoluta felicità malgrado gli atroci dolori dati dalla malattia che lo avrebbe ucciso dopo pochi giorni, per non parlare degli atti fuori dal comune di Diogene il Cinico, che portavano i più a considerarlo semplicemente pazzo. Giordano Bruno, per giungere a tempi più recenti, fu in grado di resistere per ottanta mesi nelle prigioni dell’inquisizione, continuando a mantenere la sua proverbiale lucidità e scaltrezza, scandalizzando i giudici con una resistenza alle vessazioni senza pari e continuando al contempo a prendersi gioco dei suoi compagni di cella stupendoli con le proprie considerazioni alquanto poco ortodosse e blasfeme. 


Francesco Savini, in collaborazione con le vie di Wodanaz 

sabato 3 agosto 2019

Elogio della filosofia eroica, prima parte

I più grandi pensatori a cui oggi facciamo risalire l’origine della filosofia e del pensiero occidentale si muovevano tutti all’interno di un contesto religioso e metafisico per cui, in modo più o meno velato, siamo arrivati a provare vergogna. Non siamo del tutto da biasimare, dato che per secoli, in Europa, è stato proprio il pensiero religioso istituzionalizzato a costituire un serio pericolo per il sapere. Una preoccupazione non certo dialettica, filosofica, per contro argomentazioni particolarmente argute o prove inoppugnabili, ma una minaccia che riguardava l’incolumità fisica, psicologica e sociale del dissidente.

Non è certo un mistero che la motivazione che spinse Cartesio a lasciare nel cassetto i propri lavori più importanti sia stata proprio la notizia del feroce processo a Galileo Galilei, di pochi anni successivo alla messa al rogo dell’eretico Giordano Bruno e quasi contemporaneo alle innumerevoli e lunghissime incarcerazioni nelle segrete romane di Tommaso Campanella. La religione cristiana, nelle sue forme occidentali: cattolica e protestante, ci ha abituati ad un’idea di religiosità guerresca, reattiva ed avulsa dalla filosofia e dal pensiero. Tutto questo, tra l’altro, ha motivato in occidente un distacco sempre più marcato del pensiero filosofico dalla componente religiosa, fino ad un conflitto aperto. Filosofia e religione, in Europa, sono così diventate due componenti avulse e in continua polemica. Già Marsilio Ficino criticava, a suo tempo, la sempre maggiore distanza tra le due. La cacciata dal seno della Chiesa di ogni corrente che tentasse di caratterizzarsi come esoterica, sapienziale e dunque filosofica, era cominciata tuttavia molto prima, con la persecuzione e lo sterminio di eresie come il catarismo ed innumerevoli altri movimenti. Al contrario dell’Ortodossia, che seppe conservare nel proprio cuore una tradizione importantissima come l’Esicasmo, il cattolicesimo ha bandito ogni componente simile, portando di conseguenza alla nascita di società segrete come la Massoneria, formate da individui che, non ritrovando né nel cattolicesimo né nel protestantesimo una tradizione sapienziale soddisfacente, seppero rimediare in altre modalità mettendo però a rischio la vita.


Il motivo, insomma, del divorzio irreparabile tra autorità religiosa e filosofia, è riconducibile storicamente nella chiusura ostinata della prima nei confronti della seconda, che portò alla formazione inedita di una religiosità prettamente essoterica, con la soppressione quasi totale della componente esoterica. Queste due dimensioni, in praticamente tutte le tradizioni, si mantengono unite, pur con fini diversi e inevitabili attriti. Tale chiusura di rapporti, tuttavia, non riguardava certo il senso religioso, che continuò a convivere in filosofi fondamentali per la tradizione occidentale, rimanendo però una componente di minoranza.

A fronte di tutto questo, dunque, è importante ricordare che figure che rispettiamo come esempi di umanità che travalicano i secoli, come Marco Aurelio, Socrate, Epitteto, Epicuro, Seneca, Diogene il Cinico, Dante Alighieri, Giordano Bruno e innumerevoli altri, si inserivano in toto all’interno di una visione del mondo essenzialmente religiosa, e il loro mettere in atto filosofie che hanno dell’eroico ritrova in questa componente la motivazione fondante.


Francesco Savini, in collaborazione con le vie di Wodanaz