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giovedì 31 maggio 2018

Tribalismo e feudalesimo, affinità e divergenze

Molti, specialmente in ambito tradizionalista, amano definirsi sostenitori delle specificità locali, ciò è ovviamente un bene dato che la preservazione e la trasmissione delle tradizioni è quanto di più importante vi sia per i figli degli uomini,  insieme al fuoco e all’amore per gli Dèi.


Le tradizioni infatti ci donano un’identità, un’appartenenza, scaldano il nostro cuore, così come il fuoco scalda le nostre membra e l’amore per gli Dèi, con il loro culto, dona calore al nostro animo. 

Molti, si diceva, si dicono in prima linea in questa lotta ma, vi è un ma, lo sono solo a patto che si mantenga un’unione politica formale, che vi sia il riconoscimento di svariate gerarchie imposte e non dettate da doti naturali, il pagamento di congrui tributi e l’adesione incondizionata ad un sistema di governo “standard”, corrispondente ai canoni feudali scelti dal sovrano. 

Si tratta, in parole povere, di un tribalismo depauperato delle sue prerogative, un contentino, una concessione d’autonomia “de jure” davanti ad un controllo burocratico “de facto”.

Questa autonomia mutilata è inoltre assai fragile, basta un capriccio del sovrano a ridurla, ridimensionarla o cancellarla del tutto. 

La storia del resto è maestra e quella dell’istituzione feudale, pur millenaria, dona un messaggio molto chiaro per tutti i localisti di ogni tempo. 

Fin dalle sue origini con i franconi Merovingi passando poi per il suo apogeo con Carlo il macellaio ed i suoi discendenti, il feudalesimo ha sempre avuto in sé il germe della propria fine, una nota stonata di centralismo e burocrazia, lascito della componente Gallo-romanizzata alla base della sua stessa creazione.

Il feudalesimo fu sì autonomia locale, negarlo sarebbe inutile, ma funzionale alle necessità di una stato già burocratico e destinata a scomparire con l’avanzata delle sovrastrutture dello stesso. 

Il tribalismo, al contrario, prevede autonomia vera e completa a livello locale, sia a livello legislativo, che politico, che militare. 

Sono poi i capi locali, designati per elezione fra gli appartenenti ad una famiglia e non forzatamente per primogenitura, a dover collaborare alla gestione della confederazione tribale d’appartenenza insieme ai loro pari. 

Il tribalismo è quindi pluralità, rispetto degli usi e collaborazione fra pari, il feudalesimo, al contrario, è l’illusione di tutto questo. 

Chi promuove il sistema feudale non vuole quindi vedere la propria terra libera, abitata da uomini liberi davanti agli Dèi e alla legge, vuole, in definitiva, solo un padrone diverso da quello attuale, al quale portare più volentieri le ciabatte in attesa di un buffetto o di una crocchetta in premio. 





mercoledì 30 maggio 2018

Arianesimo e Politeismo germanico, parte II

I successivi imperatori combatterono con tutte le loro forze l'eresia ariana così definita sotto Teodosio imperatore. Ciononostante l'Arianesimo si diffuse grazie all'operato di Ulfila fra i visigoti ed il resto dei popoli germanici; esemplare è il caso di Fritigil regina dei Marcomanni che si convertì al credo ariano. Alcuni studiosi ritengono che alla base di queste conversioni vi fosse il fatto che i popoli germanici entrarono in contatto con zone dell'Impero nelle quali l'Arianesimo si era in precedenza diffuso; l'esempio principe che molti fanno è quello dei Visigoti che si scontrarono con Valente imperatore della Pars Orientis dove sotto Costanzo la dottrina ariana era fortemente radicata.

Non c'è niente di più sbagliato. Il motivo che spinse membri dei popoli germanici ad accettare l'arianesimo (i.e. non a convertirsi) è legato proprio a quel principio di subordinazione introdotto da Ario nel 320 d.C. che involontariamente definì la struttura trinitaria in un modo più vicino alla struttura gerarchica del pantheon del politeismo germanico; secondo quest’ultimo Thunraz pur essendo un Dio alla stregua di suo padre Wōđanaz era a quest’ultimo sottoposto. In più Wōđanaz era padre di tutti gli Dèi e creatore di tutte le cose alla stregua di come il Padre trinitario era per Ario creatore del Figlio suo e del mondo.

Furono queste le ragioni che spinsero i popoli germanici ad accettare l'Arianesimo e non il Cristianesimo della Grande Chiesa. Fra gli stessi longobardi che discesero nella penisola italiana nel 568-569 d.C. ve ne erano molti di fede ariana fra cui lo stesso Alboino. Questi verso la metà del 500 d.C. sconfisse Cunimondo, il re dei Gepidi, dal cui cranio ricavò una coppa dalla quale bere e ne sposò la figlia Rosamunda la quale fu costretta a bere dalla suddetta coppa. "Quest'uso, connesso con la credenza di assimilare così la forza del nemico ucciso, attesta sicuramente […] il sopravvivere del paganesimo alla corte stessa del re." (Lidia Capo, commento al Liber I della Historia Longobardorum di Paul Warnefried)

La maggioranza di questi accolsero quindi questa dottrina come un modo per rendersi presentabili agli occhi dei Cristiani mantenendo però sempre viva dentro di loro la fiamma degli antichi Dèi; lo spirito universalista della religione del Cristo bianco fu inizialmente respinto e scacciato.

martedì 29 maggio 2018

Arianesimo e Politeismo germanico

Nel 320 d.C. Alessandria d'Egitto fu scossa da un furente dibattito cristologico fra il presbitero Ario ed il vescovo della città Alessandro.

Con il solo scopo di difendere la stabilità del monoteismo ed il dogma della trascendenza divina Ario propose una diversa concezione della struttura trinitaria alla quale Alessandro rispose asserendo che il Logos fosse eternamente generato da Dio.

Ario di rimando formulò il principio di subordinazione negando la generazione del Logos da Dio ché ammettere un tale concetto implicava una natura mutevole della divinità. Negò anche che il Logos fosse coeterno al Padre ché se così fosse vi sarebbero due eterni ingenerati ossia due dèi superni e non più un solo dio. Negò infine il ‘da' della preposizione di Alessandro ché il corrispondente termine greco ‘ek‘ da lui usato indica causa materiale il che implicherebbe una divisione nell'essenza divina che definisce il Padre.

In più aggiunse che il Figlio fosse stato creato - non generato come verrà invece stabilito nel Concilio di Nicea - ‘ek ouk onton' (i.e. greco per "dal nulla") per fungere da intermediario fra il Padre trascendente ed il mondo. Anche il Figlio era un dio ma non coeterno al Padre ed ad esso legato da un forte rapporto di subordinazione.

Con il Concilio di Nicea del 325 d.C. e quello di Costantinopoli del 381 d.C. la dottrina di Ario che era stato nel mentre scomunicato da Alessandro, venne respinta in pieno nel tentativo infruttuoso di arginarne un nuovo scisma. In molti furono i cittadini della Pars Orientis dell'Impero che accettarono la nuova dottrina; fra questi vi fu lo stesso imperatore Costanzo, figlio di Costantino I.

L'Arianesimo non fece in un primo tempo presa fra le genti della Pars Occidentis dell'Impero ché l'imperatore Costante, fratello di Costanzo, era un fervente seguace della Grande Chiesa e della dottrina di Nicea e per questo ostile alla suddetta dottrina. Alla morte di Costante avvenuta nel 351 d.C. Costanzo divenne unico imperatore e fece di tutto per diffondere il credo ariano in Occidente.

lunedì 28 maggio 2018

Gæð a wyrd swa hio scel

La civitas è notoriamente ingannatrice, fatta di blandizie, compromessi e illusioni più o meno pie. 

Mente su ogni cosa, in primo luogo sulla sua stessa natura, per sopravvivere infatti essa deve farsi credere eterna o, quasi. 


Queste menzogne, ben architettate e diffuse, servono a smorzare la naturale irrequietezza della nostra anima tribale.

I giovani vengono ammansiti, viene insegnato loro che la civitas non può cadere ed è quindi necessario obbedire alle sue leggi ed adattarsi in maniera comoda alla propria gabbia.


La storia però la pensa diversamente, per quanto possa essere manipolata essa rimane spietata e giusta come ogni cosa dovrebbe essere, ed è insegnante assai preziosa per chi la sa interpretare.

Essa insegna che gli imperi millenari, tutti, sono caduti e che ogni civiltà non è che un battito di ciglia, nota stonata nel perenne ripetersi dei cicli eterni. 

Roma è caduta, così come molte altre prima di lei, e le sue sovrastrutture smantellate dalle tribù. 

Ciò non avvenne ovunque, purtroppo, se infatti angli, longobardi, sassoni furono in grado di compiere questa impresa vi furono al contrario popoli che abbracciarono l’organizzazione romana dando nuova vita al suo corpo putrescente. 

Franconi, juti e visigoti vennero a patti con la struttura burocratica romana sacrificando ogni cosa in nome del “progresso”, feticcio mefitico di ogni tempo. 

Ciò avvenne a caro prezzo, rinnegando gli Dèi e, successivamente, la propria identità.

Resta però un fatto incontrovertibile, limpido come acqua di fonte: la civitas non è irreversibile.

Ed essa è più vulnerabile tanto più si è consapevoli del suo essere effimera. 


Gæð a wyrd swa hio scel, tornerà anche il nostro momento, quando il fato vorrà. 

domenica 27 maggio 2018

Io sogno di von Ungern e l’Eurasia eterna

Quando il giovane Roman venne in contatto per la prima volta con la cultura delle tribù siberiane era poco più che un ragazzo, cosa vide quindi questo figlio del baltico, cresciuto nella placida Europa della Belle Époque? 

Molte tribù, sia orientali che ugriche che con tracce indoeuropee, abitavano al tempo (talvolta, ma non sempre purtroppo, ancora oggi) quelle lande antiche nelle quali la sopravvivenza era tutt’altro che scontata, il loro stile di vita era dettato da questa necessità e quindi duro, disciplinato e regolato da una ritualità antichissima. 

Conobbe anche lo sciamanismo e in questa religione degli albori vide forse il primo richiamo di un’Eurasia eterna, di foreste e steppe, di guerrieri e sacerdotesse.

Di sangue germanico, cresciuto in terra baltica e venuto poi a contatto con popoli asiatici fu forse affascinato da quei contatti, animato da quello spirito tribale del guerriero a cavallo che fu delle Sciti e degli Wusun, dei Goti e dei Sarmati, degli Unni e dei Mongoli. 

In lui fece rivivere lo spirito dei signori della guerra arcaici, del ciclo eterno, degli Dèi.

Dalle foreste del Nord Europa alla taiga siberiana, dal golfo delle terre dei Finni alle coste del mar del Giappone egli vidi, o solo intuì, un filo rosso, un legame arcaico più antico della storia e di ogni civitas, una furia sacra temuta da ogni società urbanizzata. 

Egli fu l’ultimo, ma non ultimo, di una lunga stirpe di signori della guerra, condottieri tribali del Perm, della Vistola e del Reno che sempre hanno minacciato gli imperi di ogni tempo, manifestazione di un archetipo, figura spirituale prima che fisica.

Alla decadenza imbellettata della Russia zarista, alla rancorosa Russia rossa, egli volle opporre un disegno diverso, realmente eterno e duraturo, non un impero millenario ma un’Eurasia arcaica e tribale, fatta di popoli, sostenuta dagli Dèi, una terra di fuochi notturni e riti senza tempo. 


sabato 26 maggio 2018

Vikings o Dell'arte della guerra

Equipaggiamento

Nella società germanico scandinava ogni uomo libero possedeva armi ed era solito portarne con sé almeno una nella vita di tutti i giorni. Il tipo di armi e la fattura delle stesse indicavano il rango del portatore. Stesso principio valeva per quelle armi che venivano specificatamente usate in scontri campali o razzie. La lancia, arma prediletta da Odino, era onnipresente sui campi di battaglia affiancata dal più corto giavellotto spesso usato come arma da getto contro gli Skjaldborg nemici (i.e. formazioni serrate di scudi). Essendo entrambe di facile realizzazione venivano usate dai combattenti tutti senza distinzioni di rango. È necessario specificare che il numero di giavellotti di cui un individuo poteva disporre dipendeva dal fatto che l’individuo avesse o meno uno scudiero e quindi variava in base al rango. Altra arma spesso usata dagli uomini liberi era lo scramasax, una lama dotata di un solo filo di lunghezza e foggia variabili. La sua lunghezza dipendeva dal rango del proprietario mentre la sua foggia era espressione del popolo al quale il proprietario apparteneva. Ogni individuo disponeva infine di un’ascia; fosse stata quest’ultima forgiata per tagliar legna o specificatamente per il combattimento non era questione molto rilevante. Man mano che si ascendeva nella scala sociale iniziavano a comparire le prime asce da lancio eredi delle franziske usate durante il periodo vendeliano. Infine vi era la spatha, segno inequivocabile di appartenenza ai ranghi più elevati e quindi arma assai rara. Spesso le spathe avevano foggia differente per quanto concerne l’elsa - per le varie classificazione in base all’elsa si rimanda al Petersen. Le lame erano invece rigorosamente realizzate in materiale composito al fine di renderle più resistenti ed a causa del metodo di forgiatura presentavano dei ricchi disegni nella scanalatura.

Assieme ai ferri d’offesa, gli uomini erano dotati di strumenti di difesa come elmi e scudi rotondi. Mentre i primi erano alquanto costosi e spesso - stando all’iconografia del tempo - venivano rimpiazzati con berretti frigi in lana spessa, i secondi erano invece alla portata di tutti gli uomini liberi. Va però sfatato il mito per il quale i germani settentrionali utilizzassero gli scudi come mero strumento di difesa statica; il seguente passo della Grettis saga Ásmundarsonar testimona che gli scudi venivano spesso utilizzati come strumenti d’offesa:

“... Slær hann fæti sínum neðan undir skjaldarsporðinn svo hart að skjöldurinn gekk upp í munninn svo að rifnaði kjafturinn en kjálkarnir hlupu ofan á bringuna.”

“Egli spinse il fondo del suo scudo fin dento la bocca [dell’avversario] con cotanta forza da aprirgli il viso e facendone scendere la mascella sul petto suo.”

Infine erano pochi gli uomini liberi che potevano permettersi una cotta di maglia rivettata; spesso buona parte dello schieramento era composto da uomini con indosso la sola tunica od al più un cappotto in lana spessa, antesignano del gambesone tardo medievale. Spesso le tuniche indossate in battaglia erano intessute con fili dai colori sgargianti ed in base alla loro lunghezza si poteva determinare il rango dell’individuo che le indossava. I combattenti erano soliti scendere in battaglia con indosso la loro tunica migliore.

Ora ditemi voi, o gentile lettore, quanto dell’equipaggiamento ivi descritto sia presente nella serie televisiva Vikings. La risposta è la seguente, quasi nulla.

venerdì 25 maggio 2018

Crociate e Cristianità, parte II


Paradossalmente la prima crociata fu l’unica ad avere successo nonostante il fatto che alle successive parteciparono le più importanti corone europee con i loro eserciti. La causa del fallimento delle successive sette crociate furono gli stessi principi e re che le guidarono ché anteposero i loro interessi e le loro rivalità agli obbiettivi comuni ed alla fede nel cristo bianco di cui invece si erano fatti difensori.
Le rivalità interne furono la causa del crollo dell’Oltremare (i.e. domini crociati in Siria e Palesina fra la fine del XI secolo e gli inizi del XIV secolo) che resistette sino al 1303, anno della conquista da parte del sultano mamelucco Muhammad ibn Qalāwūn dell’isola fortificata di Arados (i.e. Arwād o Ruad), solo per il fatto che il nemico contro cui combattevano fu a lungo disorganizzato e privo di personalità carismatiche che potessero fare la differenza in battaglia e nell’ars diplomatica. Con l’avvento di personaggi del calibro di Nūr al-Dīn (i.e. Noradino) e alāḥ ad-Dīn (i.e. Saladino) la situazione cambiò drasticamente in quanto nelle file islamiche iniziò a nascere un senso d’appartenenza ad un unico corpo religioso e politico, senso d’appartenenza che fu foraggiato della presenza di un nemico comune: il regno d’Oltremare.
I cristiani finirono per giunta per volgere le spalle ai guerrieri che combatterono durante le crociate. Esemplare è la sorte dell’ordine dei Pauperes commilitones Christi templique Salomonis (i.e. cavalieri templari) creato intorno al 1118-19 ed ufficializzato in regola monastica nel 1129 con l’appoggio di Bernardo di Chiaravalle. Cresciuto nei secoli in potere e ricchezze, l’ordine si inimicò il re di Francia Filippo il Bello che spinse a favore di una sua dissoluzione per inglobarne in parte le ricchezze; dissoluzione che ebbe compimento con la bolla Vox in excelso del 1312 di papa Clemente V.
Il sangue di molti europei fu versato nel tentativo di svolgere pellegrinaggi armati in Terra Santa prima e di conquistare nuovamente quelle lande poi. Ciò non servì a fermare le invasioni e le razzie dei pirati saraceni sulle coste e nelle lande europee, anzi le rafforzò dando a quelle genti sino ad allora disorganizzate un motivo per unirsi sotto l’egida dell’Islam. L’unica vera opposizione allo strapotere dei Mori fu rappresentata dalla Reconquista portata avanti dalle corone spagnola e portoghese che durò per più di 750 anni e che culminò solamente il 2 Gennaio 1492 con la presa di Granada e l’espulsione del suo sultano Abu ‘Abd Allāh Muhammad (i.e. Boabdil) sotto il regno di Ferdinando II d’Aragona e di Isabella di Castiglia, los Reyes Católicos.
La religione e la fede nel cristo bianco divennero solo veli atti a nascondere i veri interessi dietro le spedizioni armate nel Vicino Oriente, ossia l’acquisire territori chiave per i commerci, l’arricchirsi sulle spalle dei propri confratelli in barba al sentimento cristiano. Se mai le crociate dimostrarono qualcosa, dimostrarono quanto profonde fossero le divisioni fra i vari regni cristiani, mostrarono a noi contemporanei quanto le religioni monoteistiche fossero invischiate nelle cose terrene, dimostrarono ai vertici laici e non dell’epoca quanto le antiche rivalità e le sane conflittualità dell’età degli Dèi arcani fossero ancora vive nei cuori delle genti non ancora completamente corrosi dall’universalismo del cristo bianco. La pistis cristiana non aveva del tutto piegato la natura di ‘carne e spirito’ propria degli antichi culti.

giovedì 24 maggio 2018

Crociate e Cristianità

Le svariate crociate che si susseguirono dal 1095 sino al 1291 nel Vicino Oriente vengono dai più ritenute emblema della lotta santa portata avanti dai principi europei contro il dilagare della fede islamica nei territori sacri per la cristianità.

A tutt’oggi si è soliti identificare il fenomeno delle crociate come diretta espressione della concordia creata dalla religione del cristo bianco fra i vari regni europei un tempo divisi da culti diversificati ed ora uniti sotto la bandiera universalista del cristianesimo. Le crociate divengono così soggetto primario della lotta allo spadroneggiare dei seguaci dell’Islam lungo le coste tutte del Mediterraneo.

Quanto c’è di vero in questo? Le crociate furono davvero guerre mosse da una schiera di signori uniti dal furor militis christiani? Le crociate funsero davvero da argine al dilagare dell’Islam sul territorio europeo? Scopriamolo assieme.

Prima di inoltrarci in una selva interminabile di accadimenti storici è sufficiente ricordare che la prima crociata indetta da papa Urbano II durante il concilio di Clermont nel 1095 aveva semplice accezione di pellegrinaggio armato e non certo di Guerra Santa; soltanto con la quarta crociata indetta da Innocenzo III nel 1198 si iniziò a parlare di Guerra Santa ma invece di liberare come indicato nell’enciclica papale dell’agosto 1198 la città di Gerusalemme ed il santo sepolcro, la crociata colpì Zara e Costantinopoli che erano, ironia della sorte, due città cristianissime.

Durante la fase iniziale della crociata del 1095 che va sotto il nome di ‘crociata dei poveri’ alcuni manipoli improvvisati di pellegrini armati sotto la guida di un sacerdote cristiano Pietro d’Amiens (i.e. Pietro l’Eremita) ed un drappello autonomo comandato da Gautier Sans-Avoir (i.e. Gualtiero l’Eremita), luogotenente di Pietro, devastarono senza remora alcuna gli svariati territori cristiani che gli si paravano davanti. Gautier Sans-Avoir giunto in Ungheria entrò in conflitto con le genti della città di Semlin per ottenere viveri; per questa ragione al suo arrivo a Costantinopoli il 20 Luglio 1095 fu scortato da drappelli di Peceneghi che formavano la gendarmeria bizantina. Pietro d’Amiens, giunto anch’egli sotto le mura della cristiana Semlin e venuto a conoscenza del fatto che alcuni dei pellegrini al seguito di Gautier erano stati giustiziati per razzia, prese d’assalto la città conquistandola e massacrando quasi 4000 correligionari ungheresi. Gli uomini di Pietro d’Amiens saccheggiarono anche la città cristiana di Belgrado da cui i cittadini erano per la maggior parte fuggiti in territorio bizantino dopo la notizia del massacro di Semlin. Non pago di questo, una volta giunto a Niš, decise di scontrarsi con gli stessi bizantini. Ricongiuntosi con il drappello di Gautier Sans-Avoir nella città di Costantinopoli decisero di muovere guerra ai Selgiuchidi stanziati nei pressi di Nicea. Dopo qualche saccheggio, i pellegrini vennero fatti a pezzi dalle armate turche.

La seconda fase della crociata del 1095 che va sotto il nome di ‘crociata dei nobili’ iniziò nel 1096. Quasi la metà dei dieci nobili al comando delle truppe pellegrine erano segretamente ostili all’imperatore romeo Alessio I Comneno e nonostante fossero uniti da un unico obbiettivo, la presa di Gerusalemme, proseguirono lungo itinerari differenti per arrivare alla città di Costantinopoli. Quando vi giunsero l’imperatore Alessio I memore delle disavventure con Pietro d’Amiens pose i nobili europei sotto stretta sorveglianza ed in cambio di forniture, armi e vettovaglie impose ai condottieri crociati un giuramento di fedeltà che li vincolava a consegnare a Bisanzio ogni territorio strappato ai Turchi. Quando i crociati mossero verso l’Anatolia il sospetto fra i vertici crociati e le guide romee crebbe a dismisura tanto che i primi accusarono i secondi di essere responsabili delle imboscate dei Turchi Selgiuchidi. Nel 15 Luglio 1099 dopo aver assediato e conquistato Gerusalemme i crociati si abbandonarono a razzie e devastazioni dalle quali i cristiani della città scamparono per puro caso; erano stati infatti allontanati da Iftikhar al-Dawla, capitano della guarnigione fatimide di Gerusalemme, qualche giorno prima. Nacque così il regno di Gerusalemme.

mercoledì 23 maggio 2018

Wyrd bið ful āræd



Si dice che il cristianesimo abbia ingentilito le nostre genti, che abbia placato gli animi di uomini e donne convertendoli ad una vita più pacifica e produttiva.
Ammesso che sia vero, seppur mai mancarono uomini e donne nei quali il fuoco divino mai poté essere placato, a quale prezzo questo avvenne?
Popoli un tempo fieri ed implacabili furono trasformati in greggi ammansite, facilmente manipolabili dalla chiesa, dai Re, da chiunque fosse in grado di suscitare in essi sufficiente paura o desiderio.
Il cristianesimo non agì da solo, la decadenza della civitas, già infiltrata in molte società che ancora adoravano gli Dèi antichi, contribuì a questo fine facendo del cristianesimo una delle sue armi più potenti.
Tutti i moti rivoluzionari successivi, dal protestantesimo alla rivoluzione francese, furono una semplice conseguenza di tutto ciò e sono da considerarsi una continuazione di questo processo e non, come vorrebbero taluni, una sua interruzione.
La stessa Chiesa cattolica, del resto, si è dimostrata quanto mai pronta a piegarsi a mediare con ogni forza del suo tempo.
Preti, mercanti e commissari, del resto, appartengono alla stessa razza, quella degli ori e delle blandizie, della cecità e del vacuo.
Solo tornando ai veri Dèi, alla nostra antica fede e ad una società autentica, tribale e spirituale, è possibile combattere questo fenomeno. In attesa che tutto crolli per poi rinascere, come è sempre stato, e che il destino di ogni uomo e di ogni Dio si compia.

martedì 22 maggio 2018

Il vaso di Soissons, storia di un tradimento

Avvenne nell’anno 486 dell’era comune che Clodoveo, capoguerra francone, ottenesse una grande vittoria contro il Regno di Soissons, ultimo rimasuglio dell’ormai decaduto impero d’occidente.


Al termine di una dura battaglia e di una lunga campagna militare il signore della guerra raccolse una ingente quantità di beni ed arrivò il giorno, come da tradizioni immemori, della divisione del bottino.
Fra quanto destinato alla ripartizione vi era un vaso particolarmente prezioso, frutto della razzia di una chiesa avvenuta a seguito della vittoriosa campagna di cui sopra, un vaso sacro per i seguaci del Cristo Bianco.

Il vescovo di Reims, forte della considerazione che gli ecclesiastici godevano all’interno della corte francone (il veleno universalista, insieme al malefico influsso della civitas, aveva già intossicato parte della nobiltà di quel popolo un tempo sano e forte) ne chiese la restituzione al Re e quest’ultimo accettò, a patto che l'assemblea dei guerrieri, dove avveniva la distribuzione delle spoglie di guerra, glielo assegnasse. 


Venne quindi il giorno dell’assemblea e Clodoveo, contrariamente agli usi comuni al suo popolo, reclamò da subito per sé il vaso in questione, i presenti si dichiararono favorevoli alla richiesta dichiarando che nessuno poteva opporsi al suo volere, si nota quindi un deciso cambiamento nella tradizionale visione germanica che aveva sempre visto il Re (o lo Jarl, o il capo militare) come il primo fra i pari, una figura il cui potere si esercitava tramite la consultazione degli uomini liberi, e non come un autocrate la cui volontà e cui capricci dovevano essere rispettati a prescindere. 


Vi fu, pur tuttavia, un coraggioso, un uomo libero fra quelli presenti all’assemblea distrusse il vaso dichiarando che la cosa andava contro le leggi e le consuetudini sacre al popolo Franco e che Clodoveo, pur essendo il Re, aveva diritto solo alla parte di bottino che la sorte gli avrebbe assegnato, una cristallina dimostrazione di quel principio di uguaglianza fra guerrieri che aveva sempre caratterizzato la società germanica e indoeuropea antica.

Il sovrano, meschino e ormai legato a logiche e dottrine di dominio di stampo romanico, questo a riprova che l’adozione alla civitas è un sintomo di una più grande e totale perdita valoriale e spirituale, non dimenticò l’accaduto e alla prima occasione assassinò vilmente il prode soldato che aveva osato opporsi al suo volere ed ergersi a difesa della legge.
Dalla perdita dell’onore al tradimento dei veri Dèi a favore del Cristo bianco il passo fu breve, come ben sappiamo.
L’antica fede rimase forte, inizialmente, ma nel giro di poco più di un secolo iniziarono le persecuzioni e per più di un millennio in terra francone l’antica via sopravvisse fra boschi, fiumi e villaggi, lontano dalla società urbana e corrotta, appannaggio del Cristo bianco e dei suoi seguaci. 

lunedì 21 maggio 2018

Sincretismo, ma quale?

Il tema del sincretismo è, mai come al giorno d’oggi, di stretta attualità per chiunque frequenti l’ambiente dei fedeli dell’antica via, molto è stato scritto e molto può essere detto su questo, invero molto interessante, tema.

Occorre, fin da subito, fare un piccolo chiarimento: il sincretismo è sempre esistito e sempre esisterà, almeno fino a quando gli Dèi vivranno ed il mondo con loro, e non ha mai rappresentato un problema a patto che questo non venga avvelenato dal malefico influsso dell’universalismo (che porta al monoteismo i cui frutti venefici sono, oggi come ieri, davanti agli occhi di tutti).

Senza la presunzione di detenere la verità assoluta, quella (la presunzione, ovviamente) la lascio agli adepti del ddd*, vorrei darvi la mia visione di questa questione assai spinosa.

Partiamo da un presupposto: ogni uomo sano, che davvero voglia dedicarsi al proprio destino, segue una via, una strada che porta al rapporto con gli Dèi.

I nostri antenati indoeuropei si rapportarono a svariate divinità, talune comuni a tutti, magari con appellativi differenti, altre invece tipiche, come culto, di un unico popolo. 

Lo stesso padre del tutto, Wodanaz che i longobardi chiamano Godan, viaggiò ovunque palesandosi con nomi differenti presso ogni popolo. 

Come approcciarsi, quindi, a divinità di tradizioni affini alla nostra? 

Il rispetto in questo caso è il primo, imprescindibile, passo. Non siamo monoteisti schiavi di un Dio geloso ma uomini liberi che servono, per scelta e vocazione, la causa divina e appunto per questo noi non insultiamo alcuna divinità.

Per quanto riguarda il culto la questione è più delicata e, in definitiva, assolutamente personale. 

La storia, che se è vero che nulla insegna agli uomini da poco e altrettanto vero che rappresenta, per coloro che vogliono imparata, la prima degli insegnanti, ci viene anche in questo caso in aiuto: molti grandi del passato, molti eroi della tradizione sacrificarono a divinità diverse, spesso appartenenti a tradizioni apparentemente differenti, ma non per questo sono degni di biasimo.

Rurik, grande conquistatore della Rus, si rivolse a divinità tipiche del suo popolo e a divinità del popolo, altrettanto sano e degno di lodi, degli Slavi, da lui conquistato, e lo stesso fecero a lungo i suoi discendenti.

Alessandro di Macedonia, detto Magno per la grandezza delle proprie imprese, sovrano di un regno ancora tribale che piegò le società urbane di Grecia, sacrificò a svariate divinità di svariate tradizioni, Egizie e Persiane ma anche orientali.

Roman von Ungern Sternberg, Khan di Mongolia e ultimo grande eroe tribale, sacrificò più volte a divinità orientali, ugriche e indiane (talvolta inquadrate in una visione buddista) nonostante egli fosse di sangue e tradizioni germaniche.

Per quanto il sottoscritto segua una via ben precisa e ritenga talune divinità più antiche di altre perché legate al nostro mondo, alla terra e alla nostra reale natura tribale, non per questo vorrebbe mai impedire il culto di altri Dèi purché questi culti non prendano una deriva monoteista, pericolosa per l’equilibrio di questa nostra terra di mezzo.

In definitiva, a parer mio e della storia, questo è quanto.

domenica 20 maggio 2018

Ungern Khan

“Non volendo raccontare la vita di un uomo simile come fanno i freddi accademici ma volendone invece tessere la leggenda questo articolo apparirà agli occhi del lettore squadernarsi nella sua essenza. Nel leggere immaginate intorno a voi petrose desolazioni e deserti di bianche nevi ché questo è la Mongolia di Roman von Ungern-Sternberg.”



Vedo infra le steppe mongole e lungo l’altopiano tutto marciare dei rossi draghi, sozzi corruttori del Dharma e vili servitori della rivoluzione.
Bodg Khan è convinto che in me si sia incarnato lo spirito di quel Mahakala Dharmapala che è emanazione di Avalokiteśvare e che si cinge di nero e che porta sul capo una corona di cinque teschi ed innumerevoli spoglie dei nemici uccisi.
I buriati ed i mongoli della mia Divisione Asiatica di cavalleria credono che io sia la reincarnazione di un tremendo dio della Guerra.
È quindi Destino che io sparga il rosso sangue di questi invasori sulle bianche nevi di Urga.
In quel giorno di nuovo venereremo gli astri roteanti delle notti arcane ed il pallido sole del chiaro giorno e bruceremo ancora grandi fuochi sulle alte colline. I bolscevichi osservandoli da lontano si chiederanno quale diavoleria avremo in serbo per loro. Alla loro guerra di rivoluzione noi opporremo un convincimento terribile, una guerra di religione.
Nella notte di quel Luglio in cui spezzarono lo Zar e la sua discendenza, nel Fuoco di un supremo sacrificio, crollò l’impero che mi crebbe. Seppur nel mio sangue, nel sangue dei miei ufficiali, dei miei cosacchi e dei buriati che mi seguono quel fuoco continui a risplendere, il sacrificio di coloro che sono morti per vivere in eterno già segna la condanna di questa umanità allucinata e corrotta dove ora - crollati gli Ideali e mutate le Bandiere - si vive soltanto per morire.
Non paghi di ciò gli adoratori della stella rossa spingono tuttora per la lotta di classe, foraggiati da quell’ignota maledizione che è flagello e piaga delle umane sorti. Sto preparando loro l’unica risposta possibile: la lotta di razza, il culto del Sangue. Non temo la forza dei rossi. Essa è nell’ordine spietato delle cose di questo mondo. No, io temo la nostra debolezza eretta a virtù.
Per questo, mentre tutto attorno il mondo avvizzisce avvolto nell’ombra che da Ovest cala sugli Urali, nelle menti e nello Spirito rifuggiremo sentimentalismi, pietà e carità. Non avremo timore dell’incedere tremendo dell’ultima Età ché noi ne siamo parte, ché noi lo seguiremo come stuolo di spettri alla stregua di come Morte rincorre Vita.
Come nella giovinezza i miei occhi sorrideranno di nuovo al freddo e splendente ferro, alle bocche di fuoco che rigurgitano piombo.
Mi crederete folle ma non me ne farò un cruccio; l’esser dai più chiamato ‘Barone Folle’ anzi mi rallegra. In un mondo capovolto come il nostro dalla Rivoluzione, le menzogne sono divenute verità e la saggezza derisione.
Per Trotzski, fermo nel suo sogno messianico, io sarei dunque un pazzo. Quale omaggio alla mia lucidità!
Quando l’universo crolla, tutto diviene possibile. Mille cavalieri possono ancora sollevare l’Asia.
È sufficiente un capo dal pugno di ferro.

sabato 19 maggio 2018

Su Vikings e sulla Ragnarssaga


Deyr fé, deyja frændr, | Muore il bestiame, muoiono i parenti,
deyr sjalfr it sama, | morirai anche te egualmente,
ek veit einn at aldrei deyr: | ma conosco una cosa che non muore mai:
dómr um dauðan hvern. | la reputazione di chi è morto.



Nell’epoca in cui tutto è merce, in cui ogni azione è solita essere pesata in vista di un possibile guadagno persino le sorti delle passate genti non sono al sicuro.
La Storia così come le antiche religioni divengono infatti terreni fertili per un nuovo tipo di marketing; è così che negli ultimi anni sono sorte una miriade di serie televisive a tema storico. Fra queste le più gettonate sono quelle ambientate nel Medioevo e nel Tardo antico; prima fra tutte è Vikings, serie co-prodotta da Irlanda e Canada.

Nelle sue prime quattro stagioni viene proposta e stravolta la Ragnarssaga loðbrókar, saga germanica incentrata sulla figura di Ragnarr Sigurðsson che succedendo al padre Sigurðr Hringr divenne in giovane età re di Danimarca e Svezia.
A differenza dei medievalismi di metà ‘900 - esempio principe ne è ‘Il Signore degli Anelli’ di John Ronald Reuel Tolkien - nei quali la Storia veniva presa ad esempio per la creazione di un èpos mitologico narrativo completamente nuovo, Vikings irrompe sulla scena internazionale come narrazione storiografica e così dai più viene accettata, non soltanto da spettatori anonimi ma dalla stessa critica.
Il Wall Street Journal, in un articolo di Smith DeWolf, ne ha evidenziato l’autenticità di ambientazioni e costumi asserendo che essa stessa sia “uno studio di carattere, resistenza, potenza e [...] di risveglio sociale, emotivo e persino intellettuale” concentrandosi sulla contrapposizione quasi dantesca fra la sete di conoscenza del protagonista ed il suo desiderio di conquista. Inutile dire che la prima sembri prevalere sulla seconda quasi come a svilire l’essere guerriero; eppure nulla di tutto ciò trova riscontro nella Ragnarssaga. Il “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” non ha infatti alcun posto nella Ragnarssaga. Ribadisco questo concetto non certo per asserire che il figlio di Sigurðr fosse un cane incivile - ricordiamo che lo stesso Odino che Ragnarr venerava sacrificò il suo occhio per poter bere alla fonte di Mímir divenendo così onnisciente - ma per far presente che la narrazione della sua vita sotto forma di saga aveva come unico scopo il trasmetterne le gesta al fine di creare uno strato di consuetudini al quale le genti potessero far riferimento. L’èpos è per definizione didascalico; in esso sono infatti raccolti gli usi e le consuetudini, la Storia e la Religione delle genti che ne sono protagoniste. L’èpos è quindi un’estensione imperitura del popolo che ivi viene descritto così come è la garanzia di eterna fama per il suo protagonista; non è certo un’opera atta a propagandare messaggi politici.
Violarne l’essenza porta a violarne la sacralità sua e dei protagonisti suoi rendendola un tristo e vile vessillo di modernità.

Seguiranno una serie di articoli nei quali verranno analizzate con occhio critico le varie tematiche trattate nella serie.

venerdì 18 maggio 2018

Legami

Nel momento in cui gli uomini abbandonano gli Dèi in molti divengono preda di bisogni di dubbia utilità. Questi dimenticano quali siano le virtù da perseguire.
Sono in pochi coloro che pur non avendo avuto modo di conoscere gli Dèi rimangono ancorati alla moralità di quest'ultimi. Essi sono custodi inconsapevoli di un afflato divino che gli viene dal loro legarsi alla terra ed ai suoi lavori.

giovedì 17 maggio 2018

Tribalismo, una via alternativa


Chiunque abbia mai letto uno straccio di giornale negli ultimi dieci lustri avrà sentito parlare, almeno una volta, dello scontro fra il modello capitalista e quello socialista e delle svariate “terze vie” che sono state proposte e/o applicate negli ultimi decenni.

E’ un dibattito che ha appassionato, e ancora appassiona, milioni di persone nel mondo, che agita gli economisti e fa strillare come galline più della metà degli intellettuali da salotto del mondo.
Un dibattito, fondamentalmente, fatto fra nemici nella forma ma eguali negli ideali.
Mercanti e commissari, economisti e intellettuali, piani di sviluppo e piani quinquennali appartengono alla medesima famiglia gestionale, quella del governo burocratico e statalista.
L’impero romano, quello francone, quello cinese, l’Unione Sovietica, la Germania guglielmina e la Russia zarista, solo per fare alcuni esempi, sono diverse rappresentazioni del medesimo concetto universalista, di una volontà di dominio e annientamento dell’uomo e sull’uomo. 

Con questo non si intende, ovviamente, demonizzare qualunque tipo di contrapposizione, anzi, riteniamo il conflitto necessario alla formazione dell’uomo ma, al contempo, siamo fortemente contrari alle opere di dominio ed assimilazione portate avanti dalle varie incarnazioni del principio universalista.

Noi siamo per i popoli, per le tribù, per le specificità di ogni singola espressione dell’uomo, per il locale e lo specifico contro il principio che ci vorrebbe tutti ad assimilati ad una autorità universale, quale che questa sia.

Legno e cannicci contro marmo e cemento, uomini liberi di fronte agli Dèi contro schiavi inconsapevoli.

mercoledì 16 maggio 2018

Godan

Molto si può scrivere, e molto è stato scritto su questa figura.


Godan, Wodan, Odinn, il padre del tutto, il viandante, colui che veglia su di noi, che offre istruzione e guida a quanti a lui si consacrano, Jólnir, signore degli Dèi.


Egli è anche Haptagoð, Dio dei legami, delle fratellanze, della lotta per qualcosa di più grande, Oðinn, Ása-Oðinn, Ásagrimmr, scuotitore di scudi, creatore dei galdra, Grímnir.

A lui e per lui consacriamo la nostra opera e la nostra lotta, Hagverkr.

Egli ha dato un nome al nostro popolo, e lo guidato nel compimento del proprio Wyrd anche innanzi al tradimento e dopo esser stato rinnegato. 


Angan Friggjar, ha seguito il consiglio della sua consorte donandoci un nuovo nome insieme alla vittoria.


Hléföðr, padre dei popoli, progenitore di Re ed eroi, guida contro il male, Hrjóðr, ci possa guidare nelle sue vie. 


martedì 15 maggio 2018

Oddr l’arciere e l’inevitabilità del proprio Wyrd

Sono giunte fino a noi alcune versioni della saga che prende il nome del suo protagonista, Oddr l’arciere, delle sue imprese e delle sue opere.

Uomo irrispettoso verso gli Dèi, seppur dotato di eccezionale tempra, seppe ben guadagnarsi stima e maledizioni nella sua lunghissima e travagliata vita. 

In giovane età, superbo e arrogante, trattò duramente un’anziana donna di nome Heidr, una völva saggia e di grande potere.


Nonostante la sua riottosità, e nonostante dichiarasse di non credere nei poteri della donna, non poté sottrarsi all’ascolto di quanto l’anziana sapiente aveva da dirgli: 

“Per quanto tu vaghi per vasti fiordi 

per quanto percorra ampie insenature

e anche se il mare si chiuderà sul tuo capo

sarai bruciato a Berurjódr 


Una lucida vipera ti morderà il piede 

uscendo da cranio vetusto di Faxi.” 


Nonostante la sua prosopopea il giovane dimostrò subito di temere le parole di Heidr e si premurò subito, con l’aiuto del suo compagno Ásmundr, di uccidere Faxi, il cavallo nominato nella profezia, e di seppellirlo in profondità, coprendolo poi di terra ed erigendo un tumulo sopra di esso. 

Credeva Oddr di potersi, in questo modo, sottrarre al volere delle norne cosa, come ben sappiamo, impossibile. 

Egli visse poi a lungo, compiendo grandi imprese, e le sue azioni, come predetto, furono grandi e degne di memoria. 


Viaggiò fino alle terre dei Finni, poi dei giganti, toccò le coste irlandesi e aquitane e arrivo fino in Sicilia dove rinnegò i propri Dèi in favore di un Dio straniero ma neanche questo poté nulla contro il suo Wyrd e contro la profezia di quella veggente che egli tanto disprezzava. 

Giunse fino alle terre degli Unni (ndr probabilmente si può già parlare di “mongoli”) e, entrato al servizio del Re locale, mosse guerra ai Rus distruggendo templi e compiendo razzie. 

Così narra la saga: 


“Oddr arse i templi, e infranse gli altari 

i tuoi idoli di legno egli distrusse: 

a nulla servivano sulla terra,

se al fuoco sottrarsi non seppero.”


E ancora: 


“Di questo io rido: che la collera 

terribile di Freyr ti sei guadagnato 

Aiutino gli Asi e le Asinne,

gli Dèi tutti aiutino le loro sacerdotesse!

Chi dall’est ti ha spinto fin qui

uomo mendace e malvagio?”


Costretti i Rus a pagare ai Mongoli il tradizionale tributo egli poté quindi sposare la figlia di questi e, alla morte del sovrano, regnare su di essi. 

Visse quindi qui a lungo finché, insoddisfatto, non fece ritorno alla terra natia per sapere cosa fosse accaduto alle proprietà famigliari, qui, saputo che queste erano passate ai discendenti della figlia, mostrò ai membri del proprio seguito la proprietà finendo poi con l’inciampare nel cranio di Faxi, smossosi dalla terra nella quale riposava.

Da questo, come predetto, uscì una vipera che consegno alla morte il nostro. 

Finisce così la saga di Oddr, arciere e comandante, traditore degli Dèi e Re, prova eccellente di come nulla si possa contro il proprio destino. 


Wyrd bið ful aræd

lunedì 14 maggio 2018

Forseti

Forseti


Dio della giustizia, della verità e della pace, figlio di Baldr il luminoso e di Nanna sua sposa, presiede alla risoluzione pacifica delle controversie.


Non va tuttavia invocato invano, la sua sacralità è tale da richiedere la sua invocazioni solo per i giuramenti più solenni e per la risoluzione di situazione gravi nella quale mi sia assolutamente necessario il prevalere della giustizia. 


Si racconta che in un tempo lontano dodici asegeir vagarono per tutte le terre in cerca delle leggi migliori di ogni tribù, loro obbiettivo era scegliere le migliori fra questa leggi e formarne un unico corpo legislativo che permettesse giuste pene e ricompense per quanti agivano su questa terra di mezzo.


Una volta ascoltate tutte le leggi decisero quindi di prendere il mare, in cerca di un luogo tranquillo ove poter discutere e stilare le nuove leggi ma il mare, si sa, può essere pericoloso ed i dodici saggi si ritrovarono così in balia di una tempesta.

Fu quindi invocato il Dio, patrono di ogni impresa tesa a portare sacra giustizia, e questi apparve sulla imbarcazione guidando i dodici verso un’isola che prese da lui il nome di Helgoland, isola sacra. 


Dopo aver aver creato una fonte ed unito le leggi portate dai savi in un unico corpo egli scomparve.

Da quel giorno l’isola divenne luogo di un importante santuario e questi non venne mai saccheggiato ne oltraggiato, neppure in epoca volgarmente detta vichinga.

Fu inoltre luogo di numerose assemblee, tesi alla risoluzione di importanti questioni, ed era tradizione che non vi si discutesse mai in inverno o di notte. 


Non vi sono notizie di una sua partecipazione al Ragnarök, quanto il nostro mondo cadrà per poi rinascere, ma è lecito supporre che egli, vista la sua natura pacifica, non vi prenderà parte e che assisterà suo padre nella prossima era. 


domenica 13 maggio 2018

Racconti

Il mondo moderno ha perso il gusto per le belle storie, quelle arcaiche, piene di spade, esempi e cibo per i corvi.
Si culla in narrazioni consolanti e pietose o, al limite, riscrive in maniera scorretta i miti antichi.

Dobbiamo riscoprire, ed insegnare ad altri, l'amore per i racconti davanti ad un fuoco, solo così vi sarà speranza per il nostro mondo. 
Essere una tribù, far propri i valori del sangue, del clan, dell'essere pienamente ciò che si è.
Terra e alberi, fiumi e sassi, famiglia e tribù, questa è la vera rivolta contro il mondo moderno, e contro la civitas di cui è espressione. 

Chissà che poi, una notte, Jólnir non si unisca poi a noi davanti alle fiamme, per condividere un racconto.

Come è stato, come è sempre e sempre sarà.

sabato 12 maggio 2018

Il valore della libertà e l’antica via

Vi è un rapporto assai stretto fra libertà personale autonomie locali, e culto degli Dèi antichi; tutti coloro che si sono votati a divinità straniere o a fedi universalistiche hanno solo ottenuto, con il tempo, di servire potentati e sovrani stranieri.


Il cristianesimo, per fare un esempio a noi purtroppo assai vicino, è infatti una fede che ben si presta ad una politica di accentramento dei poteri a scapito di uomini liberi ed autonomie locali. 

Lo stesso feudalesimo, spesso osannato da talune correnti tradizionaliste, altro non è che una versione fortemente romanizzata e cristianizzata dei Chiefdom di epoca precristiana, privata però di quelle che era le componenti cardine di questi: un forte ceto di contadini liberi, nessuna tassa e nessun contributo che andasse al di là del servizio militare in tempo di crisi, completa autonomia e leggi ed usi prettamente locali. 

Una versione diluita quindi, espressione di quella ipocrisia tipicamente monoteista che vede l’uomo come mero strumento di un potere superiore, in cui le libertà tradizionali lasciano il posto ad una sudditanza reale, seppur, almeno inizialmente, più blanda che non nelle terre di competenza della corona. 

Ma si trattava, ovviamente, di una mera illusione, una sorta di contentino teso a blandire e controllare l’aristocrazia guerriera che venne così presa alla cavezza neanche si trattasse di un cavallo imbizzarrito e ridotta, a poco a poco, ad una imbelle accozzaglia di amministratori locali, mantenuti, giocatori d’azzardo e sifilitici senza più un briciolo di sangue nelle vene.


Questo è stato il lascito del Cristo bianco e della suo culto su questa terra di mezzo, la devastazione, in poco più di un millennio e mezzo, di una istituzione, l’aristocrazia militare indoeuropea, plurimillenaria. 

Solo con l’aiuto degli Dèi, di Godan, Donar, Nehalennia, Freyja e di tutti gli spiriti della nostra terra possiamo interrompere questa corsa verso il nulla, tornare al locale, a quanto è sacro, e ricostruire e preservare ciò che i nostri antenati ci hanno donato. 


venerdì 11 maggio 2018

La Gísla saga Súrssonar e i riti funebri



La Gísla saga Súrssonar è ricolma di informazioni inerenti alle ritualità dei popoli scandinavi; seppure l’episodio esuli in toto dall’oggetto trattato da questo articolo, è impossibile non citare il rituale con il quale venne consacrata la lancia che avrebbe poi trafitto Vestein, fratello di Gísli per patto di sangue contratto con quest’ultimo sul principiare della saga.

Ancor più interessanti dal punto di vista storiografico sono però le narrazioni dei vari riti funebri che costellano l’intera saga; narrazioni sulle quali questo articolo è incentrato.
Emblematica è la sezione in cui viene narrato il funerale di Vestein. Nella Gísla saga Súrssonar vengono descritte sepolture a tumulo e navi funerarie simili per foggia e disposizione nel terreno a quelle ritrovate a Vendel od a Valsgardë. Il defunto Vestein viene inumato in una nave funeraria al cui centro era stata in precedenza deposta da Þorgrim una grande pietra atta a favorire la navigazione nell’aldilà dell’imbarcazione; lì riceve da Gísli un paio di helskór (i.e. “scarpe [skór] per Hel”) da questi donategli al fine di facilitargli il futuro peregrinare nell’aldilà.

Il rituale della sepoltura di Vestein appare quindi portato avanti nei suoi più minuziosi particolari eftir fornum sið (i.e. “secondo le antiche usanze”); rispetta infatti in toto quei precetti impartiti alle umane genti dallo stesso Odino, precetti che furono riportati da Snorri Sturluson nella della Ynglinga saga di cui segue un breve estratto:
“Così, egli disse, ognuno giungerà nel Valhalla con le ricchezze poste con lui su di quel mucchio e godrà anche di qualsiasi cosa che egli stesso abbia seppellito nella terra.
Un tumulo deve essere costruito in memoria degli uomini più importanti ed una pietra eretta per tutti i guerrieri che si fossero distinti per vigore.”

Nessuno dei due celebranti, né Gísli né Þorgrim, è però una figura sacerdotale, né agisce come tale. Per questo motivo il rituale funebre del defunto assume non più una valenza spirituale o mistica che dir si voglia ma bensì una semplice valenza terrena divenendo quasi uno svolgersi di ciò che è ordinaria amministrazione.
Per comprendere la cagione di ciò bisogna tener conto non tanto dell’epoca in cui la saga è ambientata, sul finire del decimo secolo, quanto soprattutto dell’epoca in cui è stata messa per iscritto, vale a dire il tredicesimo secolo; secolo in cui la religione del Cristo Bianco era oramai vastamente diffusa nelle lande nordiche.

Tenendo conto di ciò la Gísla saga Súrssonar può essere letta come un manifesto programmatico volto a dimostrare quanto le faide familiari non rechino altro che sventure a chi le porta avanti; un manifesto di stampo cristiano che è stato innestato su di un sostrato mitico risalente al decimo secolo, epoca nella quale invece il culto degli antichi Dèi era preponderante. Solo così si può spiegare la dovizia quasi maniacale di particolari usata nel descrivere i riti funebri e l’assoluta mancanza di una dimensione sacrale degli stessi.

giovedì 10 maggio 2018

Dell'Amore e della Guerra

In un mondo in cui ogni forma di conflitto è negata, in cui la tensione è vista come un eccesso, l'ultima guerra che ci è concesso combattere è quella dell'Amore.
In essa sono presenti due dei tre fondamenti del vivere umano; il tendere ad un qualcosa di più alto ed il lottare strenuamente per raggiungerlo. Infine da essa può nascerne il terzo; una famiglia.
Per quanto sinora detto l'Amore è caro agli Dèi, in quanto conflitto generatore, come pure lo sono Guerra e Poesia.

mercoledì 9 maggio 2018

La ruralità come unico futuro possibile.

Articolo primo di una serie. 

La città è morta, ammesso e non concesso che mai sia stata viva.
Questo araldo della modernità, agglomerato senz’anima, Fede e bellezza, segno distintivo della decadenza intima ed esteriore di ogni società ha fatto il suo tempo.
Ma cosa significa, a livello pragmatico e senza voli pindarici, “superare” la dimensione urbana? 
Non è sufficiente, non più, la riscoperta delle campagne, occorre un lavoro più profondo che vada ad intaccare il viscido putridume che la società capitalistica e più di un millennio di monoteismo ha portato ad inzozzare anime e cuori della gente. 
Bisogna quindi agire per gradi, con pazienza e tatto sapendo ben dosare provocazioni ed inviti all’azione. 
Per fare questo è necessaria una non comune vicinanza di intenti fra personalità e gruppi di persone diverse, con spiritualità saldi e radicate, tutte con l’obbiettivo, di una società nuova, che sia antica, presente e futura ad un tempo, in grado di preservare quanto di buono vi era e quanto ancora deve venire. 

Partiamo quindi, come è ovvio, dal principio: cos’è, nel secolo ventunesimo dell’era comune così come nel settimo o ne decimo, la ruralità? 

La risposta, tutt’altro che semplice, può però essere condensata in un’unica parola: vita. 

La società rurale è infatti autosufficiente, in grado di provvedere senza ingerenze esterne a ciò che più occorre allo svolgersi dell’esistenza.
Ruralità è quindi autonomia, opposizione locale al globale, eternità contrapposta alla vacuità, spirituale come terrena, della realtà urbana. 
Ruralità è famiglia, clan e tribù, i tre cardini dell’organizzazione ancestrale, dei legami sacri. 

Questi valori, incisi nella costituzione stessa di ogni popolo, sono quindi la base minima e necessaria di ogni società realmente sana. 

Quale differenza, e quanto grande, con i valori della società consumistica, ultima materializzazione di un male antico quanto il mondo e teso a svuotare l’uomo di tutto ciò che è alto e sacro.

Una società che fa del vuoto, affettivo e spirituale, un valore non può del resto che opporsi alla pienezza della vita, in ogni sua forma.

Concludo qui questo mio primo scritto, salutandovi e augurandomi che abbiate apprezzato quando sopra affermato.

Appuntamento al prossimo articolo, sinceramente vostro 

martedì 8 maggio 2018

Sacrificare agli Dèi

È importante, per chi davvero crede e vive delle antiche vie, sacrificare ai propri Dèi, seguire rituali propri ed offrire i frutti della terra.
Non è necessario esagerare in queste pratiche, che vanno utilizzati con cura, quando necessario per glorificare le nostre divinità e rendere viva l testimonianza della nostra fede.
 Vale poi la pena ricordare di come i nostri Dèi non necessitino di sacrifici continui ed esagerati, siamo noi, con questo atti, a rendere volontario omaggio a loro riconoscendo il bisogno della loro guida.

Citando il discorso dell’eccelso:

“È meglio non essere invocato
che [ricevere] troppi sacrifici:
un dono è sempre per un compenso.
È meglio essere senza offerte
che [ricevere] troppe immolazioni.”
(Hávámal, verso 145)

Molte cose possono essere sacrificate, ovvero rese sacre, che si tratti di cibo o bevande, in questo caso meglio se fermentate in quanto la fermentazione è vita, fino all’accensione di un fuoco o la realizzazione di un oggetto rituale.
Il toccare spesso un simbolo sacro, quali un martello Mjöllnir od una lancia Gungnir, può essere considerato come un segno di rispetto verso le divinità.

A rimanere valido è il sempiterno principio del buonsenso, sia ne l’offrire che nel domandare.