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lunedì 28 gennaio 2019

Sulle Rune

“Rune tu troverai
lettere chiare,
lettere grandi,
lettere possenti,
che dipinse il terribile vate,
che crearono i supremi numi,
che incise Hroptr degli dèi.”

Pochi argomenti in grado di attirare l’interesse del “pagano medio” come ogni genere di dissertazione riguardante le rune e gli usi delle stesse, purtroppo questo è ben noto ad ogni genere di ciarlatano e non è raro vedere questi simboli, o il loro stesso nomi, trattati a sproposito da fanfaroni e commercianti di ogni risma.
Partiamo dunque dalle basi: le rune sono l’alfabeto alla base del sistema di scrittura dei popoli germanici, non esistono “rune celtiche” (esiste, se mai, l’alfabeto ogamico, che è tipicamente celta ma non ha alcun collegamento con le rune) o altre amenità.
Si sviluppano in un periodo compreso fra il II secolo a.e.c. ed il II secolo e.c. e sono state lungamente utilizzate fino a buona parte dell’età moderna (in Islanda, dove il loro uso magico sopravvisse assai più a lungo che altrove, ancora nel XVIII secolo era possibile essere condannati al rogo solo per averne incisa una) sia come alfabeto vero proprio che come base per utilizzi di tipo magico/rituale.
Partiamo da un presupposto: la cautela, nel maneggiare le rune, è se non propriamente obbligatoria quantomeno fortemente consigliata. Non tanto perché possiate fare dei danni, il potere delle rune è strettamente legato a quello di che le utilizza essendo le stesse uno strumento, per quanto potente, ma perché data la loro origine divina sarebbe d’uopo seguire i dettami odinici in merito:

“Tu sai come incidere?
Tu sai come interpretare?
Tu sai come dipingere?
Tu sai come provare?
Tu sai come invocare?
Tu sai come sacrificare?
Tu sai come mandare?
Tu sai come immolare?”

E ancora:
“È meglio non essere invocato
che [ricevere] troppi sacrifici:
un dono è sempre per un compenso.
È meglio essere senza offerte
che [ricevere] troppe immolazioni.
Così Þundr incise
prima della storia dei popoli;
poi egli si levò su
da dove era venuto.”

Siate rispettosi, quindi, ed approcciatevi a questi segni con il rispetto che meritano, e non fidatevi del primo ciarlatano (e ve ne sono molti) che vi prometterà mari e monti tramite il loro utilizzo, ricordatevi sempre che ogni dono è per un compenso e che nulla si ottiene se non è volere del Wyrd.

Nota finale: noi non siamo soliti consigliare libri, se non in privato a chi ce lo richiede ma vista l’abbondanza di testi farlocchi sulla questione ci sentiamo di consigliare il libro: “Iniziazione alle Rune” di Anne-Laure D'Apremont e Arnaud D'Apremont, di cui apprezziamo l’approccio cauto e rispettoso che consiglia ai suoi lettori.

venerdì 25 gennaio 2019

Coscienza rurale

È nella ruralità che si sono preservate le usanze arcaiche, ritualità agrarie, stagionali, antiche quanto il mondo e ben più della storia. Ed è solo tornando alla terra che è possibile acquisire anche solo una scintilla di questa profonda sapienza.
La terra e gli alberi conservano ancora memoria di quando i figli degli uomini rendevano giusto culto agli Dèi immortali, ed è fra paludi, boschi e fossi che l’antica via è sopravvissuta, lontano dalle città, preda dei mercanti d’anime orientali.

Uscite dalle metropoli e cercate gli anziani saggi, quei pochi che rimangono, il tempo è poco e la sapienza che rischia di andare perduta molta. Scoprite quali creature si annidano fra le nebbie, quali riti, quali usanze seguivano i vostri antenati e trasmettete quanto avrete appreso, il mondo che verrà ne avrà un estremo bisogno.

E, già che ci siete, riscoprite il valore della convivialità, il piacere semplice di un racconto davanti ad un bicchiere di vino.
Ovunque voi siate, chiunque voi siate, se figli delle nebbie o della brezza marina, spetta a voi salvare quanto ancora resta.

mercoledì 23 gennaio 2019

I demoni del grano, parte II

Nel 1865 Mannhardt avviò con il beneplacito ed il sostegno dell'Accademia Berlinese delle Scienze una grande somministrazione di questionari riguardanti le usanze del raccolto inviandoli in Germania come pure negli stati confinanti di Francia, Olanda, Danimarca e Russia; siccome nelle usanze del raccolto comparivano gli antichi nomi di divinità quali 'Wotan' (i.e. "Odino") e 'Donar' (i.e. "Thor", Ase dei contadini), egli riteneva questo una prova del fatto che essi fossero una sopravvivenza di un culto religioso germanico.
Alle sue molte lettere ricevette altrettanto numerose risposte e da queste partì l'analisi che venne da lui presentata proprio nel libro del 1868 'I demoni del grano'.
Ciò che ricevette in risposta corrispose totalmente alle sue aspettative; stando alle testimonianze contadine la crescita della vegetazione era causata da un demone che si manifestava sotto svariate forme animali. Quando i mietitori tagliavano il grano, il demone volava di campo in campo e si andava infine a nascondersi nell'ultimo covone. Tagliarlo era pericoloso dacché equivaleva ad un assassinio; i mietitori si dichiaravano disposti a farlo solo in cambio di un premio in natura o denaro dal proprietario del fondo.
Il demone del grano doveva così morire affinché il nume della vegetazione potesse riprodursi in forme sempre nuove.
Quanto sinora descritto corrisponderebbe ad un rituale narrato nel canto di Litierse che consisteva nella decapitazione, dopo averli legati ad un covone, di banditi nascosti sotto le spoglie di semplici stranieri.

Ovviamente gli scritti di Mannhardt dopo la recensione positiva di Frazer ottenero un grande successo; tuttora vi sono suoi sostenitori come vi sono pure suoi detrattori quali ad esempio la studiosa tedesca di folclore Ingeborg Weber-Kellermann la quale afferma che questo peculiare rituale del taglio dell'ultimo covone fosse solamente una rivalsa proletaria sul proprietario terriero e sulla sua stessa terra costringendo quest'ultimo a sborsare una maggiore somma per il proprio lavoro. Inutile dirvi quanto riteniamo idiota una simile visione socialisticheggiante della questione.
Alla domanda 'Sozialismus oder Barbarei?' (i.e. "[Sceglierete] il socialismo o la barbarie?") formulata da Rosa Luxemburg, personalità tanto cara alla Ingeborg, noi risponderemo sempre:
"Barbarei!"

Fonti:
- La scoperta della Storia delle Religioni, Kippenberg

martedì 22 gennaio 2019

I demoni del grano, parte I

Nel 1868 Wilhelm Mannhardt, libero ricercatore tedesco nato a Friedrichstadt, pubblicò la sua terza opera 'Die Korndämonen' (i.e. "I demoni del grano"); come le sue precedenti opere 'Wald- und Feldkulte' (i.e. "I culti del bosco e del campo" del 1875-76) e 'Roggenwolt und Roggenhund. Beitrag zur germanischen Sittenkunde' (i.e. "Il lupo di segale ed il cane di segale. Contributo alla conoscenza dei costumi germanici" del 1865-66) anche quest'ultima riscontrò una scarsa attenzione.
Fu grazie allo studioso dell'antichità ed antropologo inglese James George Frazer che i volumi di Mannhardt ricevettero le dovute attenzioni. Nella prefazione alla prima edizione della sua opera più nota, 'The Golden Bough' (i.e. "Il ramo d'oro" del 1890), Frazer rivelò che l'opera dello scomparso Wilhelm Mannhardt gli era stata fondamentale soprattutto riguardo alla superstizione dei contadini europei; eccone un estratto:
"L'ariano (i.e. 'indoeuropeo') primitivo non è morto nella sua natura e struttura spirituale. Egli è fino ad oggi rimasto fra noi."

Wilhelm Mannhardt passò la sua gioventù inchiodato ad un letto ortopedico per via di una grave scoliosi che lo spinse - assieme con una "miopia fuori dal comune" - a buttarsi "sul mondo interiore della fantasia".
Fu un suo amico danese che si vantava della possente mitologia nordica a ridestare il suo interesse per la mitologia tedesca; egli voleva contrapporre alla mitologia nordica un qualcosa che avesse la stessa magnificenza ma che avesse origini germanico continentali. Lesse a questo scopo la 'Mitologia tedesca' di J. Grimm e giunse alla conclusione che le popolazioni rurali di lingua tedesca del suo tempo fossero espressione diretta  di quegli ariani che personalità del calibro di Friedrich Max Müller ascrivevano ad un'epoca ormai lontana.
Chi volesse saperne di più sulla "fede della nostra antichità remota pagana nazionale" doveva solamente andare fra le campagne della Prussia e della Slesia e studiare il modo di vivere e di pensare dei contadini; lì è possibile trovare le cellule germinative di qualsivoglia mitologia.
Mannhardt raccogliendo quante più informazioni possibili sui costumi delle popolazioni rurali tedesche stava sempre più avvicinandosi al suo obbiettivo: la costruzione di una mitologia tedesca.

Mannhardt nel 1860 era intenzionato a radunare in una raccolta di fonti della tradizione popolare germanica i 'Lieder' (i.e. "canti" di matrice mitico magica) ma ben presto abbandonò questo progetto dacché comprese quanto meglio le usanze agricole conservassero al loro interno in modo ancor più evidente i residui del paganesimo germanico. Come nelle città anseatiche spesso le antiche case avevano una facciata moderna nonostante nel retro e nella struttura interna presentassero segni di un remoto passato gotico, così presso la popolazione rurale vi erano ancora singoli ambiti vitali, angoli e nicchie di quel mondo oramai oscurato da secoli di storia.

Fonti:
- La scoperta della Storia delle Religioni, Kippenberg

mercoledì 16 gennaio 2019

Lo sciamanesimo e lo specchio, parte III

Come abbiamo sinora visto in molte culture gli specchi vengono visti come oggetti di grande importanza magico religiosa; su molti fra gli antichi specchi cinesi sinora rinvenuti è possibile trovare svariate iscrizioni nelle quali erano espressi desideri riguardanti la felicità, la longevità, la ricchezza, la salute e la numerosa discendenza.

Proprio il non dottrinalmente sviluppato sciamanesimo (i.e. insieme di conoscenze, credenze, pratiche religiose e magiche incentrate sull'animismo) è fortemente legato allo specchio per via di un elevato numero di credenze e di rituali; attraverso uno specchio lo sciamano può studiare il futuro, osservare gli spiriti maligni per poi scacciarli.
Nell'antichità si era soliti collocare uno specchio sul petto del cadavere per proteggerne il cuore dagli spiriti maligni.
Gli sciamani buriati sono soliti narrare di come gli specchi siano doni degli esseri celesti e dunque originari di un mondo altro; è questa la ragione che li rende degli ottimi strumenti curativi.
L’abito dello sciamano mongolo include nove specchi chiamati “la cavalcatura dello sciamano” dacché si ritiene che il cavallo dello sciamano - solitamente bianco - risieda nello specchio.
Gli specchi degli sciamani riflettevano non solo l’esterno ma anche l’interno ed i segreti degli uomini; l’onniscienza degli sciamani deriva dal potere degli specchi.

In conclusione è possibile affermare che lo specchio viene utilizzato fra le varie culture per i più disparati scopi i quali però posseggono una radice comune; questa è legata a quanto sinora detto.
Gli specchi vengono infatti dai più utilizzati per predire il futuro, mostrare luoghi o oggetti lontani; vi sono specchi che rispondono a domande o che aiutano a trovare tesori. Gli specchi possono accecare o rendere gli oggetti invisibili, possono esaudire desideri o restituire la giovinezza.
L'importanza degli specchi è insomma legata al fatto che questi possono mostrare un qualcosa che è nascosto ed è da questa loro peculiarità che il detto "gli occhi sono lo specchio dell’anima" si è sviluppato dacché i nostri sguardi rivelano chi siamo veramente.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

Fonte ed Approfondimenti:
- Enciclopedia delle religioni, Mircea Eliade

martedì 15 gennaio 2019

Lo sciamanesimo e lo specchio, parte II

Le credenze dapprima esposte sono legate al rapporto fra l'individuo e la sua ombra; l’ombra rappresenterebbe l’anima dell’individuo.
La perdita dell’ombra in quanto correlata all'anima era dunque presagio di morte o quantomeno legata a quest'ultima - esemplari per quanto sinora detto sono i vampiri del folklore dell'est Europa i quali non riflettono loro stessi nello specchio.
Il fatto che i morti siano privi di ombra è da ascriversi agli antichi greci. Questi erano soliti fare sacrifici per i defunti a mezzogiorno proprio quando il sole è più alto e l’ombra minore.
Ciò spiega anche il perché l'infrangere uno specchio sia per molte genti presagio infausto o di morte; il rompere l’immagine riflessa nel vetro dello specchio equivale al perdere la propria anima.

Presso molti popoli c’è l’usanza di coprire gli specchi in casa quando qualcuno muore, poiché gli spiriti malvagi sono particolarmente attivi alla presenza del morto e potrebbero portare via la sua anima impressa negli specchi. 
In Germania si credeva che vedere la propria immagine riflessa dallo specchio, dopo la morte di un parente, avrebbe portato l'osservatore alla stessa fine.
I membri dei Khakass (i.e. popolo turco che vive in Russia) sono soliti affermare che “l'uomo è morto, il suo corpo imputridirà, ma la sua anima vivrà nella terra dei morti. Anche le cose devono essere uccise, in modo che le loro anime vengano fuori e seguano l’anima dell’uomo nella terra dei morti”. 
Per molti popoli, spezzare un oggetto del corredo funeraria equivaleva alla morte dell’oggetto spezzato; nasce cosi l’usanza di spezzare lo specchio del corredo funerario per farlo morire e quindi liberare l’anima che in questo modo può accompagnare l’uomo nel regno dei morti. 
Nell’Asia centrale alcuni riti includono la rottura di uno specchio - cioè dell’anima di una persona - al fine di impedire all’anima del defunto di tornare.
Un’altra pratica è quella di rompere lo specchio di una coppia - marito e moglie o amanti o parenti - in procinto di separarsi. Questa pratica affonda le sue radici nella credenza che quando due anime hanno vissuto insieme queste si fondano nello specchio. La separazione della coppia è definitiva quando sia i loro corpi e le loro anime si separano; la rottura dello specchio è ciò che separa quest'ultime.

Nel corso del tempo molte credenze si sono associate agli specchi dandogli anche una funzionalità positiva.
Nei prossimi tre punti vedremo come la sua forma rotonda e la sua capacità di riflettere il sole diedero vita alla correlazione fra sole e specchio, di come quest'ultimo fosse considerato fonte di acqua e di come fosse legato al principio femminile:
- Un motto lettone recita più o meno così: “quando il sole sorge risplende come uno specchio”

- Fra i Tagiki (i.e. popolo di stirpe iranica la cui antica lingua con forti caratterizzazioni indoeuropee li pone fra i più antichi abitanti dell'Asia centrale) lo specchio è associato all'acqua; stando a quanto sostengono lo specchio conterrebbe un corso d’acqua ed ogni volta che un eroe getta a terra uno specchio ne sgorgano specchi lacustri.
Fra i cinesi è diffusa la credenza che lo specchio attragga l’acqua della vita e le donne sono per questo solite appendere specchi ai loro letti. 

- Tra i tibetani lo specchio era simbolo opposto al simbolo fallico della freccia e per questo veniva associato alla vagina; aveva il curioso epiteto di "luogo segreto". 
Medaglioni provenienti dai tumuli funerari sciti rappresentano una dea seduta con lo specchio nella mano alzata.
Nell’India antica lo sposo era solito mettere nella mano della sposa uno specchio così da rendere il matrimonio terreno il riflesso di un matrimonio celeste. 

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

Fonte ed Approfondimenti:
- Enciclopedia delle religioni, Mircea Eliade

lunedì 14 gennaio 2019

Lo sciamanesimo e lo specchio, parte I

Nadia Stepanova, sciamana buriata membro del Consiglio interreligioso dell’Unesco, che indossa il suo costume blu e un copricapo con visiera con frange per proteggerla dagli spiriti; al collo il tooloj, una specie di medaglione, detto lo specchio dello sciamano, forgiato in una lega di cinque metalli, pendente proprio sul cuore.














Per l’uomo, lo specchio è: “l’altra dimensione” nella quale conoscere se stesso e la sua parte nascosta, i morti o vedere oltre il visibile. Il riflesso dell’uomo, fin dall’antichità, ha affascinato e dato vita a molteplici storie, leggende, miti, fiabe. L’immagine riflessa, dell’uomo antico, poteva essere interpretato solo all’interno di credenze animistiche o in un quadro concettuale religioso.

Si pensava che lo specchio rappresentasse il doppio spirituale di una persona, la sua anima che viveva anche senza il corpo - pensate agli specchi “maledetti” che contengono l’anima dei morti. Per alcuni popoli era vietato guardarsi allo specchio poiché la sua anima sarebbe volata via attraverso la “dimensione” dello specchio stesso; l’incontro con il proprio doppio, riflesso nello specchio, poteva avere conseguenze: negative, neutre o positive.

Le antiche leggi indiane di Manu [1] contengono la seguente frase: “Che egli non guardi la propria immagine riflessa nell’acqua”.

Ancora oggi in alcuni paesi quali Marocco, Senegal, India, Zanzibar sussiste - fra le genti legate ad una cultura che potremmo definire “primitiva” - la credenza che farsi una foto sottragga l’anima.

Gli antichi greci avevano credenze analoghe; credevano che sognare la propria immagine riflessa fosse presagio di morte; un sogno non molto dissimile dallo svolgersi del mito di Narciso che innamoratosi della propria immagine riflessa in uno stagno ne morì.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

Note:
- [1] Il Mānava-Dharmaśāstra (i.e. Leggi di Manu) racconta come si è formato il mondo e qual è il dharma, la "legge" naturale e sociale che lo governa, e informa sia le prescrizioni relative al sacrificio sia quelle che riguardano i "quattro stadi" dell'esistenza. L'opera è anche un testo giuridico: descrivendo in ogni dettaglio il modo in cui era articolata la vita nell'India antica, elenca i più svariati delitti e le ragioni per cui vengono perseguiti.

Fonte ed Approfondimenti:
- Enciclopedia delle religioni, Mircea Eliade

domenica 13 gennaio 2019

Il conte effimero

Incipit
-

C’era una volta in un bosco incantato un’austera dimora ove viveva un conte con la bella contessa con i suoi millesima rampolli.
Egli spesso parlava davanti ad uno specchio magico che irradiava la sua figura in tutto il mondo; così pontificava sulla sua visione strampalata, contorta e spesso fallace del mondo e più nello specifico delle sue tradizioni.
Il conte traviava così le menti dei giovani dalle più disparate origini e più adepti aveva più il suo ego cresceva.

-

Ovviamente molti dei nostri carissimi lettori avranno capito che stiamo parlando del norvegese “Vürg” Vikernes famoso ex musicista di talento ed ora youtuber; in questo articolo noi vorremmo parlare di alcuni punti con cui ci troviamo in disaccordo con il suddetto personaggio.
Egli affronta argomenti anche di un certo calibro con una leggerezza ed un semplicismo disarmanti spesso facendo dei distinguo inutili o fin troppo netti per non si sa quale scopo.
Ne volete qualche esempio?

Secondo costui i veri europei sono solo biondi con occhi azzurri; caratteristiche che secondo Vürg sono segni di una diretta discendenza dai Neanderthal.
Tutto ciò è falso dacché i cacciatori europei del paleolitico da cui maggiormente discendiamo avevano quasi certamente capelli castani, carnagione olivastra tendente al chiaro, occhi grandi di un forte acquamarina, una corporatura slanciata e nerboruta sul metro ed ottanta con spalle larghe ed arti lunghi. I loro crani avevano una mandibola ben pronunciata con orbite oculari squadrate e fronti bombate.
Il biondismo in Europa è arrivato con gli Yamanaya (i.e. insieme di popoli dell’Eurasia centrale discendenti da quei cacciatori di mammut alti e robusti e dai più slanciati seppur ugualmente alti cacciatori-raccoglitori del Mar Nero) nel periodo delle grandi migrazioni; affermare che il biondismo possegga un certo maggior valore rispetto agli altri colori di capelli per determinare il grado di ‘europicità’ di un individuo è reale quanto l’autostima del ragionier Fantozzi.

Inoltre, riallacciandoci al discorso appena concluso, Vürg afferma che il fenotipo più prossimo al Neanderthal sia l’Hallstatt Nordid - o Nordico Hallstatt - di cui ritiene di far parte.
I Neanderthal avevano un fisico a campana con spalle più strette del torace e fianchi più laghi del torace, erano molto tarchiati con una muscolatura massiccia e possente mentre un Nordico Hallstatt ha un fisico più alto e slanciato con un torace dalla forma a “v” più sottile delle spalle e fianchi stretti e squadrati - le donne Hallstatt Nordid fanno eccezione in quanto caratterizzate da fianchi e spalle di uguale ampiezza.
Gli Hallstatt Nordid, grazie alla loro muscolatura più scattante e resistente alla fatica, hanno movenze più fluide ed aggraziate rispetto a quelle che poteva avere un Neanderthal e mentre questi ultimi erano alti in media un metro e 65/70, i Nordico Hallstatt sono alti in media un metro e 80/90.

Vediamo adesso un altro esempio forse ancor più evidente dell’assoluta incapacità di affrontare i fatti del soggetto in questione, il fatto che Vürg sostenga l’incapacità delle donne alla guerra e la totale assenza di queste sui teatri di guerra europei alto e basso medievali.
Molti sono gli esempi documentati da storia ed archeologia di donne che combatterono in battaglia; certo non erano affatto in maggioranza rispetto agli uomini ed in alcuni popoli erano del tutto assenti, precisazione ad ennesima dimostrazione del fatto che Vürg è prono ad ipersemplificazioni insensate.
Basti pensare alla regina di Mercia, Æthelflæd figlia di Alfred detto “il Grande”, la quale era solita guidare il suo esercito in battaglia riportando numerose vittorie contro quei Dani e quegli Juti che all’epoca razziavano i regni dell’eptarchia anglosassone occupandoli.
Basti pensare alle donne nordiche che divenivano ‘schildmädchen’ (i.e. “scudiere”, lett. “fanciulle dello scudo”) come la leggendaria Brynhildr (i.e. “eroina con la corazza”).
Addentrandoci poi nell’universo cosacco è necessario ricordare che fra i guerrieri mistici vi erano donne versate nell’arte della guerra e nell’uso della Šaška (i.e. spada monofilare del Caucaso) ma per Vürg quest’ultime non conterebbero molto dacché, pur avendo una carnagione chiara, avevano capelli castano chiari ed occhi verdi od ambrati, tratti che per Vürg sono indice di non appartenenza genetica ai popoli europei.

F. Eldvindur

venerdì 11 gennaio 2019

Spiritualità preistorica

Questo articolo, preferisco metterlo in chiaro fin da subito, non è un articolo accademico, è piuttosto una riflessione spontanea, frutto di letture e birra, e spero che la prenderete, e la gradirete, come tale.
Partiamo da un assunto: sappiamo poco, pochissimo, su quanti ci hanno preceduto e sul loro rapporto con gli Dèi, riusciamo a spingerci, neppure troppo agevolmente in realtà, fino ad alcune migliaia di anni fa ma nulla di più, dei nostri antenati più remoti, della stragrande maggioranza di loro, non sappiamo che informazioni frammentarie, in grado di dirci qualcosa sulla loro vita quotidiana ma pochissimo su quella che era la loro spiritualità.
Come vivevano il loro rapporto con gli Dèi? Con quali nomi li chiamavano? Con quali riti li onoravano?
Gli Dèi già allora accompagnavano il nostro incerto incedere, donandoci guida e istruzione, fornendoci le armi, spirituali prima che fisiche, necessarie a vivere e prosperare.
L’archeologia, l’arte e l’antropologia possono darci alcune vaghe risposte, ma nulla posso innanzi ai grandi interrogativi.
Che fare quindi? Come agire per riscoprire la spiritualità di quanti ci hanno preceduto?
Calcare le loro orme, vivere oltre il nostro tempo.
Le risposte sono là fuori, fra boschi e acque, fuoco e legno.
Non nei libri, non nella civitas.
Io sono un lettore, lo sono sempre stato, ma sono consapevole che essi sono solo uno strumento, un modo per prepararsi.

Ciò che più conta l’ho scoperto seguendo corvi e falchi, camminando fra foglie e rami secchi.

Questa non è un’epoca di libri, e vi invito a diffidare di chiunque affermi il contrario.
Il pensiero senza azione è indecisione, e gli Dèi non amano coloro che esitano.

mercoledì 9 gennaio 2019

Volontà e Sogno

Noi non ci renderemo partecipi di azioni eclatanti bensì rimarremo in disparte ponendo giorno per giorno le fondazioni di un esercito silente che come dormienti sotto la Montagna possa perdurare al crollo del mondo; allora al chiaro suono di trombe d'argento marceremo in schiere ordinate a testimonianza dei secoli eterni e del sangue degli antenati.
Intoneremo allora canti di guerra per i nostri re passando per le contrade fredde e cupe, le quali immantinente ne saranno rischiarate.
Saremo portatori di luce fra le nebbie della Ragione.
Davanti al crepitio delle fiamme questo io sogno.

Sogno di giganti fra le nebbie, sogno i racconti delle genti passate narrati fra lunghe tavolate e le alte sale, sogno il freddo splendore delle lance e delle spade, sogno di battaglie e di re vittoriosi e di re caduti nella scura terra, sogno di quel che è stato e di quel che presto di nuovo sarà.

martedì 8 gennaio 2019

L'omerico antro delle ninfe

Dal nord, d’altronde, come insegnava la dottrina pitagorica, “si discende”: è dal sud, al contrario, che “si ascende”.

Questa legge è antichissima. Omero, in Odissea XIII, vv. 102 – 112, parla dell’antro delle Ninfe che si sarebbe trovato in Itaca. In tale antro “due sono le porte, / l’una che scende verso Borea è per gli uomini, / l’altra verso Noto, è per gli dèi; per di là / non entrano gli uomini, ché è la via degli immortali”. Porfirio, rifacendosi alla dottrina pitagorica di Numenio di Apamea, ricostruisce correttamente tale antro come simbolo del cosmo: si tratta evidentemente di una di quelle “pietre ciclopiche”, di quei pezzi di ancestrale mitologia muta, di cui parlano Santillana – Dechend, “riciclati” dal parvenu Omero (o chi per esso). Ma cosa sono queste porte? Esse sono le porte solstiziali. Dice Porfirio: “Dato che l'antro costituisce l'immagine e il simbolo del mondo, Numenio e Cronio suo compagno dicono che due sono nel cielo le estremità, delle quali una non è più meridionale del tropico invernale, e l'altra non è più settentrionale di quello estivo. Quello estivo poi è nel Cancro, mentre quello invernale è nel Capricorno. Ed essendo per noi vicinissimo alla terra il Cancro, a buona ragione [il suo segno] è attribuito alla Luna che è prossima alla terra. Mentre il Capricorno, essendo invisibile più del polo meridionale, è attribuito a quello che di gran lunga è il più lontano e alto di tutti [gli astri] vaganti, cioè a Kronos”. I Pitagorici, perciò, sapevano perfettamente di che cosa Omero stesse parlando. La lezione fu ben appresa da Platone, per il quale le anime dimorano sul bordo della Via Lattea e lì, in un luogo meraviglioso, dove si aprono “a poca distanza l’una dall’altra, due voragini sulla terra e, in perfetta corrispondenza, altrettante su nel cielo”, attendono di ascendere all’etere oppure di ricadere sulla terra e reincarnarsi, dopo essere state sottoposte all’esame di una commissione di giudici. Le voragini speculari rappresentano, di nuovo, le due porte solstiziali: l’ascensione avviene attraverso la porta del Capricorno, posta a sud della Via Lattea, mentre la discesa attraverso la porta del Cancro posta a nord di essa. Piccola precisazione: quando si parla di Cancro e Capricorno si intendono i segni zodiacali, non le costellazioni, che rimangono i Gemelli a nord e il Sagittario/Scorpione a sud. Perciò, quando Porfirio dice: “Orbene, il Capricorno e il Cancro si trovano nella Via Lattea, della quale vengono ad occupare le estremità: il Cancro, quella settentrionale, il Capricorno, invece, quella meridionale”, non si deve cadere in fallo. Ovviamente, Omero parla di “uomini” ed “immortali” (da cui gli uomini sono esclusi), non certo di anime, concetto a lui sconosciuto, a dispetto della discutibile esegesi porfiriana sulla figura delle Naiadi; nondimeno, lo scheletro del sistema è lo stesso, e nella sua natura puramente cosmologica affonda le radici nella più antica preistoria dell’uomo: si ascende dal sud e si discende dal nord, assecondando il corso del sole sul cerchio annuale. Alcuni secoli dopo Omero (se si eccettua la parentesi eraclitea, che della “via in su” e della “via in giù”, in fr. 98 Tonelli, dichiara la sostanziale identità, fedele alla propria visione panica del cosmo), Parmenide ritornerà a parlare di queste porte, a guardia delle quali troverà Dìke “che molto punisce” (si tratta, come ben nota Giovanni Ferrero, della personificazione del coluro solstiziale), recante “le chiavi alterne”, la chiave d’oro della porta del Capricorno, e la chiave d’argento della porta del Cancro."

A. Casella, "Alle radici dell'albero cosmico"

lunedì 7 gennaio 2019

Lo scudo: fortezza e nobiltà di spirito

“Perché l'elmo e la corazza uno li indossa per la sua sicurezza personale; mentre lo scudo protegge anche i compagni di fila.”

(Demarato, Re di Sparta, a coloro che gli domandavamo come mai gli spartani se la prendevano con quelli che gettavano lo scudo e non con quelli che si toglievano l'elmo e la corazza)

Lo scudo è stato uno dei primi, se non il primo equipaggiamento difensivo inventato dall’uomo. Dall’hoplon usato dagli opliti a quelli “a goccia” adoperati prima dai Normanni e poi dalle cavallerie che si resero protagoniste nei campi di battaglia del X secolo e infine a quelle nomadi asiatiche che si scontrarono molti secoli più tardi insieme allo Zar contro Napoleone. Uno strumento sulla cui superficie si dipingevano motivi che delineavano la propria appartenenza alla città stato, a una determinata religione e al proprio status all’interno della società.
Arma di difesa ma anche offensiva, molti difatti avevano un rinforzo centrale metallico detto umbone che poteva essere usato per colpire il proprio nemico provocandogli non pochi dolori, rendendola versatile e allo stesso tempo semplice.
Ora nel mondo moderno, un mondo che ha dimenticato l’onore, dove le menzogne e i sotterfugi sono all’ordine del giorno.
Chi non si allinea alla weltanschauung dei parolai protagonisti delle televisioni e dei nostri cellulari (ahimè sempre più presenti nelle nostre vite) viene “attaccato” da ogni direzione da pensieri inutili e dannosi che possono portarlo solo verso il basso.

Sarà allora che dovrà farsi scudo con i principi e i valori arcaici che compongono la sua fede e riempono lo spirito di quella unicità oggi così rara, per poi avanzare e farsi spazio tra le rovine di questa terra di mezzo verso il proprio divenire.
In un mondo da sempre in guerra uno scudo fa comodo.

venerdì 4 gennaio 2019

Þursar, parte II

Con questo oceano di sangue i figli di Borr avvolsero la terra sul cui limitare esiliarono la stirpe di Bergelmir che divenne progenitore di tutti gli hrímþursar (i.e. "giganti della brina).
Per proteggere la neonata stirpe degli uomini, Óðinn ed i suoi fratelli crearono dalle sopracciglia di Ymir il cosiddetto 'Miðgarðr' (i.e. "recinto/terra di mezzo").

Gli Jötnar, cacciati dagli Æsir sul limitare del mondo, giurarono vendetta contro questi ultimi e divennero nemici giurati del nuovo ordine cosmico. Gli Jötnar divennero insomma un contraltare alla possanza degli Æsir compiendo ardite imprese ai danni di questi ultimi; il ratto dell'Asinia Iðunn e l'inganno ai danni di Þór narrato nel 'Gylfaginning' (i.e. "inganno di Gylfi") e portato a compimento dagli jötnar Skrýmir (i.e. "[colui che] si vanta) ed Útgarða-Loki (i.e. "Loki al di là del recinto", sovrano della rocca di Útgarðr in Jötunheimr). Sono destinati a fronteggiare gli Æsir nel Ragnarök (i.e. "crepuscolo degli Dèi") quando lo jötunn Surtr giungerà dall'estremo Sud con una fiammeggiante alla testa delle schiere del Múspellheimr; sarà questi ad uccidere Freyr.

Gli Jötnar vengono solitamente descritti dalla vulgata comune come degli esseri non molto intelligenti pur non essendo affatto vero dacché Ymir - loro capostipite - era un essere molto saggio, qualità che tramandò ai suoi discendenti.
Non tutti gli Jötnar hanno forma umana; basti pensare a Jörmungand, figlio di Loki e la gigantessa Angrboða altrimenti noto con il nome di 'Miðgarðrsormr' (i.e. "serpe di Miðgarðr").

Vi sono infine diverse stirpi di giganti:
- Hrímþursar (i.e. "giganti della brina" che dimorano in Jötunheimr)
- Múspellmegir/Múspellssynir (i.e. "figli di Múspell", giganti del fuoco che dimorano a Múspellheimr come Surtr)
- Sjörisar (i.e. "giganti del mare" quali Ægir e Rán)
- Leirjötnar (i.e. "giganti della terra" quali Jörð)
- Vindþursar (i.e. "giganti del vento")

giovedì 3 gennaio 2019

Þursar, parte I

Termine legato alla runa 'thurs' (i.e. "gigante") del Fuþark antico, va ad raccogliere sotto di sé quelle variegate stirpi di giganti che sono parte integrante della mitologia scandinava.

Esistono in norreno due termini per identificare questi esseri e sono 'Jötnar' - il cui equivalente anglosassone è 'Eotenas' stando al Beowulf - ed appunto 'Þursar' - il cui equivalente anglosassone è 'Ðyrs'.

Gli Jötnar che sopravvissero al diluvio di sangue erano i discendenti di Bergelmir (i.e. "[colui che] rumoreggia"), figlio di Þrúðgelmir (i.e. "[colui che] grida con forza") e nipote di Ymir (i.e. "mormorante").
Stando all'Edda Poetica ed alla Völuspá (i.e. "Profezia della Veggente"), Ymir nacque in 'Ginnungagap' (i.e. "abisso aperto", voragine dei tempi primordiali attraversata dagli undici Élivágar, fiumi primordiali le cui acque erano velenifere) stretto fra il 'Niflheimr' (i.e. "terra delle nebbie" dalla quale provenivano freddo e tenebre) ed il 'Múspellheimr' (i.e. "terra delle fiamme" dalla quale provenivano calore e luce).
Quando la brina ed il vento caldo si incontrarono in Ginnungagap questa si sciolse e dalle sue gocce ebbe origine Ymir; dacché quelle gocce contenevano stille del veleno degli Élivágar, Ymir e la sua progenie furono per natura malvagi. I suoi diretti discendenti nacquero per generazione spontanea; dal suo sudore crebbero sotto la mano sinistra un uomo ed una donna, dai suoi piedi nacque invece un gigante con sei teste (i.e. Þrúðgelmir).

Assieme ad Ymir, dalla brina nacque anche Auðhumla (i.e. "vacca abbondante [di latte]", latte con il quale Ymir era solito nutrirsi) che - leccando via per ben tre giorni il sale da alcune pietre ghiacciate - portò alla luce Búri (i.e. "generato") il quale generò Borr (i.e. "[colui che] perfora"), il quale una volta unitosi con Bestla generò Óðinn, Vili e Vé.
I figli di Borr e Bestla uccisero Ymir in una sorta di sacrificio e trascinarono quel che ne rimaneva nel Ginnungagap dando origine al mondo; le sue carni vennero usate per creare la terra, le sue ossa divennero montagne, i suoi denti e gli altri frammenti d'osso divennero pietre e massi, il suo cranio divenne la volta celeste ed infine il suo cervello fu scagliato nell'aere e divenne nube.
Óðinn, Vili e Vé decisero poi di affogare con il sangue sgorgato dalla ferita di Ymir la sua progenie temendone l'ira; soltanto Bergelmir assieme alla moglie scamparono al diluvio di sangue che affogò il resto dei giganti discesi da Ymir.

mercoledì 2 gennaio 2019

Atena

"Cominciò a cantare Pallade Atena, la gloriosa dea
dagli occhi splendenti, ingegnosa, dal cuore inflessibile,
vergine casta, intrepida signora dell'acropoli,
Tritogenia; il saggio Zeus la generò da solo,
dal suo capo venerabile, rivestita già delle armi da guerra
dorate e lucenti. Tutti gli immortali si stupirono
a questa vista: essa balzò fuori rapidamente
dal capo immortale, agitando un giavellotto acuto
davanti a Zeus egioco. Il vasto Olimpo sussultò
cupamente sotto l'urto della dea dagli occhi splendenti,
la terra emise un grido terribile, il mare si sconvolse,
gonfiandosi con flutti spumanti. Poi d'improvviso le onde
si fermarono, il luminoso figlio di Iperione arrestò
lungamente i veloci cavalli, fino a quando la vergine
Pallade Atena ebbe tolto dalle spalle immortali
le armi divine: ne gioì il saggio Zeus.
Così ti saluto, figlia di Zeus egioco:
io canterò te e anche un’altra canzone."

Inno Omerico ad Atena (XXVIII)

Atena, Dea dagli occhi glauchi, prima in battaglia, la vergine signora dell’Acropoli, molti sono i suoi nomi anche se essa, da coloro che davvero la venerano, è spesso chiamata, in maniera molto semplice, è Thèa, la Dea.

Protettrice di eroi, guida sicura al compimento del proprio destino, essa è figlia prediletta di Zeus, protettrice delle arti, della guerra e della sapienza.
Si narra che in tempi remoti il cronide giacque con Meti, Dea della prudenza e della sapienza, ma che dopo l’amplesso, colto da timore conoscendo la profezia che voleva i figli della Dea superiori in potenza al padre, Zeus la convinse ad assumere le sembianze di una goccia d’acqua e la inghiottì.
La Dea aveva però già concepito e tempo dopo il cronide fu colto da un terribile male al capo, doloroso al punto da consigliargli di rivolgersi a Efesto, fabbro degli Dèi, domandandogli di aprirgli la testa, egli, armato di ascia bipenne, aprì il cranio del figlio di Crono ed Atena ne uscì già adulta, armata di tutto punto.
La madre, infatti, le aveva forgiato una panoplia completa, ed era questo martellare a provocare al padre degli Dèi dolore al capo.
Ad ogni modo Zeus fu felice di questa sua figlia, ella divenne per lui la più cara della sua progenie.

Secondo una versione arcaica del mito, contenuta nella storia fenicia, Atena sarebbe invece figlia di Crono, padre degli Dèi. Questa versione, ad ogni modo, è comunque parecchio minoritaria ma ugualmente meritevole di essere conosciuta, il fatto che due o più miti possano essere discordi non inficia il loro valore.
Va sempre ricordato che il mito è prima di tutto istruzione, non verità letterale, esso è rappresentazione simbolica della verità primordiale.

Atena è protagonista di moltissimi miti, fra i più importanti vediamo quello relativo alla città di Atene, all’epoca ancora priva di un nome, e alla disfida fra Dèi per chi ne dovesse essere la divinità protettrice.
Oltre alla glaucopide vi era Poseidone in lizza per ottenere il patrocinio della città. Le due divinità si accordarono a questo modo: entrambi avrebbero fatto un dono agli abitanti della città, la disputa sarebbe stata decisa da quale, fra questi, sarebbe stato giudicato il più utile dai cittadini.

Il primo a procedere fu Poseidone, il Dio piantò il suo tridente nel suolo e da esso scaturì una sorgente, l’Enosìctono, però rimaneva pur sempre una deità marina e la fonte risultò quindi sgorgare acqua salmastra, buona per commerciare ma poco piacevole da bere.
Fu poi il turno della instancabile, essa offrì agli abitanti l’ulivo, pianta che avrebbe donato loro cibo, olio e legname e agli ateniesi piacque scegliere questo dono.
Secondo alcune fonti la scelta fu dettata, oltre che dall’effettivo gradimento del dono, anche dalla cautela: era infatti noto a tutti che Poseidone era una divinità assai difficile da compiacere, la Pallade Atena aveva invece una fama migliore, e fu quindi preferita.
Durante la guerra di Troia essa parteggiò per gli Achei, svolgendo attivamente il suo ruolo di guida di eroi positivi.
La lista di eroi che hanno avuto l’onore della sua guida in battaglia è lunga, fra costoro ricordiamo Perseo, Achille ed Eracle.

Ad essa era tributato onore e culto in tutta la Grecia, ed in buona parte del mondo antico, da parti di molti strati della società, così come egualmente diffuso fra le donne e gli uomini.

Nella città di Atene veniva celebrata in suo onore la festa delle Panathénaia, il 28 del mese di Hekatombaiòn, a cavallo fra i nostri mesi di Luglio e Agosto.