Ecco che - seppur in sordina rispetto ad altri suoi romanzi - il Leitmotiv della modernità come forza che, tramite il progresso della tecnica, devasta l’essenza preesistente, arcana e metafisica delle cose, viene qui riproposto dall’autore bellunese.
In seguito ad alterne vicende, una fra tante la liberazione del folle e possente vento Matteo operata dal colonnello Procolo, quest’ultimo giunge a patti con il Bernardi, portavoce delle istanze dei genî di Bosco Vecchio e loro più giovane elemento, per salvare la vita del nipote Benvenuto a cui si era con il passare del tempo tremendamente affezionato.
Benvenuto, contro tutte le previsioni dei dottori che l’avevano visitato, sopravvive alla tremenda febbre che l’aveva colpito. Si arriva così all’epilogo dell’opera che si articola in due episodi differenti, aventi luogo fra la notte del 31 Dicembre 1925 ed il mattino del 1 Gennaio 1926 e riguardanti i destini del colonnello Procolo, del vento Matteo e del giovane Benvenuto. Sono questi i due episodi che, se osservati con attenzione, svelano l’essenza più profonda, la maieutica più nascosta di quest’opera all’apparenza banalmente favolistica.
La morte per assideramento del colonnello Procolo, avuta luogo nella notte di Capodanno in seguito al tentativo di salvare il nipote Benvenuto che egli erroneamente credeva travolto da una slavina, diviene redenzione ultima di un uomo disonorato che da tempo si era allontanato dal mos che aveva seguito durante tutta la sua carriera militare; troppo a lungo Sebastiano Procolo aveva rincorso il proprio interesse più gretto, quello di conservarsi il più possibile integro e ricco nella sua anzianità. Egli muore così ritto nella neve vedendo sfilare dinanzi a sé il suo antico reggimento con in testa i suoi colori che splendevano alla luce della luna. I vecchi consentono al sacrificio per il futuro della gioventù.
Nella stessa notte il giovane Benvenuto, ignaro della da poco avvenuta morte dello zio Sebastiano, accompagna a sua volta il debole vento Matteo, ormai moribondo, sulla cima del Corno dove questi, come ultimo atto, gli rivela della morte dello zio alla quale lo stesso vento aveva assistito come pure del fatto che quella sarebbe stata l’ultima sua notte da fanciullo. I giovani accompagnano le precedenti generazioni sino al loro ultimo atto su questa terra per poterne portare in alto, seppur anche per un solo attimo, il ricordo.
In tutto questo dipanarsi di accadimenti la natura è onnipresente: anch’essa soggetta al fato alla stregua degli uomini [2], ne diviene immagine speculare, arcana e remota della loro più recondita essenza. Così come muore il colonnello, l’uomo, così svanisce anche il vento, il metafisico, entrambi legati indissolubilmente l’uno all’altro che, oramai giunti al termine dei loro fati, lasciano il posto all’eterno ritorno che è assieme ciclo di distruzione e rito di rinascita.
Note:
[2] D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 125, 126:
Nella fonda notte, senza far uso della lampadina, probabilmente per non rivelare che l’ombra l’aveva abbandonato, il Procolo andò al Bosco Vecchio, per cercare il Bernardi. Appena egli fu giunto al confine dell’antica selva, il Bernardi sbucò fuori d’incanto.
«Cerchi di me, colonnello?» domandò il genio.
«Benvenuto sta per morire» disse il colonnello. «Mi è venuto in mente: voi genî non potreste fare qualcosa? Non avreste forse qualche rimedio?»
«Secondo» rispose il Bernardi. «Gli uomini alle volte muoiono perché “devono” morire; ci sono delle leggi che non si possono spezzare. Ma se è come dici... capisco... è un bambino... Sì, noi genî al proposito sappiamo qualcosa, un resto della nostra antica potenza. Sì, noi potremmo provare...»
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