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mercoledì 24 luglio 2019

Il Santuario, l'Albero e la Fonte - parte IV

In conclusione è corretto affermare che la triade ‘santuario - albero - fonte’ sia propria del mondo scandinavo precristiano come anche di quello germanico continentale.
Gli stessi elementi si ritrovano anche nella tradizione slava, fortemente influenzata dall’interazione con il mondo scandinavo non ancora cristianizzato; da questa ne nascerà il Rus’ di Kiev come pure quello di Novgorod. Le tradizioni inerenti al dio slavo Perun, regnante dei cieli e creatore del fulmine che sedeva sul ramo più alto dell’axis mundi, subiranno così delle leggere mutazioni che porteranno ad associarne il culto con quello dell’Ase Þórr.


Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Filologia Germanica 1A (2018 - 2019) tenuto dalla professoressa Carla del Zotto, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

Il Santuario, l'Albero e la Fonte - parte III

L'ALBERO e la FONTE

Nello scholion 138 vi è la descrizione dei dintorni del tempio di Ubsola; affianco a questo vi era l’albero sempreverde e la fonte dove venivano effettuati sacrifici umani. Anche in questo caso le somiglianze con l’universo mitologico sono fortissime; basti pensare al frassino Yggdrasill, axis mundi, ed alle varie fonti che zampillano vicino alle sue radici.
Il ritratto che Snorri Sturluson ne fa nel Gylfaginning è d’importanza primaria. Stando a Snorri, il frassino Yggdrasill è il più grande ed il migliore fra tutti gli alberi ( “Askrinn er allra tréa mestr ok beztr” ) dacché le sue fronde si elevano verso il cielo e si estendono yfir heim allan ( i.e. “sull’intera terra” con heim accusativo del sostantivo heimr ); tre delle sue radici affondano profonde per supportarlo e sotto ciascuna di queste vi è una fonte, quella che ha nome Hvergelmir, quella di Mímir ( i.e. “Mímis brunnr” è questa la fonte dove Óðinn sacrificò il suo occhio per poter bere alla conoscenza contenuta in quella fonte ) legata alla radice che si protende verso i giganti di ghiaccio ed infine la fonte di Urðr ( i.e. “Urðar brunnr” ) che è la più importante ed è sita sotto quella terza radice che si protende verso il cielo degli Asi.
Anche se nel suo racconto Snorri distinse queste tre fonti, esse sono dagli studiosi contemporanei assimilate ad una sola fonte che è quella cosmica; è importante notare come la tradizione antecedente a Snorri della Vǫluspá ( i.e. “profezia della veggente” Edda poetica ) nomini solo una di queste tre fonti, quella di Urðr, che stando all’Hávamál ( i.e. “il carme di Hár” Edda poetica, Hár ossia “l’Altissimo” è uno dei numerosi epiteti di Óðinn ) si troverebbe affianco alla Valhǫll.

La presenza di alberi e di fonti è comune a tutti i siti sacri germanici tanto che il binomio latino arbor et fons ( i.e. “albero e fonte” ) divenne il leitmotiv dei resoconti polemici dell’ecclesia contro i luoghi di culto politeisti; in un documento dal concilio di Tours del 567 sono riportate le punizioni da infliggere a color che pur essendosi convertiti di recente avessero indugiato ancora in ritualità precristiane volte alla ‘superstiziosa venerazione di montagne, di alberi e di fonti’ ( “[...] ut, quoscumque in hac fatuitate persistere viderint vel ad nescio quas petras aut arbores aut ad fontes” Concilium Turonense ). In una lettera del 597 che Gregorio I inviò alla regina merovingica Brunhilde questi tronfiamente narra di come il culto pagano degli alberi fosse stato estirpato ( “ut [...] cultores arborum non existant” Registrum Epistolarum ) senza tener conto del fatto che nel 727 sotto il regno del re longobardo Liutprando, a ben più di un secolo di distanza, fu emanata una legge restrittiva con penali contro coloro che avessero indugiato ancora nel venerare alberi e fonti, segno che la natura precristiana delle genti germanico - longobarde fosse tutt’altro che sopita ( “Simili modo et qui ad arbore, quam rustici sanctum vocant, atque ad fontanas adoraverit” ).
Dal Concilium germanicarum del 743 tenuto dal monaco anglosassone Wynfrith su concessione della corte carolingia ed incentrato sulle campagne di evangelizzazione che sarebbero partite da lì a poco alla volta dei territori di Frisia e Turingia ne nacque l’opera Indiculus superstitionum et paganiarum ( i.e. “Indice delle superstizioni e delle pratiche pagane” ) nella quale nuovamente si ritrova il venerare selve e fonti da parte pagana ( “De sacris silvarum, quæ nimidas vocant” cap. VI e “De fontibus sacrificiorum” cap. XI ). Stessa canzone si levò dalla Capitulatio de partibus Saxoniæ del 769 con la quale venne proibito il culto delle fonti e degli alberi.

Bisogna tener presente il fatto che non sempre la rappresentazione dell’axis mundi fosse un vero e proprio albero; spesso era un tronco di un albero. Nel santuario precristiano di Eresburg, secondo la descrizione di Rudolf di Fulda, vi era un largo tronco ligneo esposto al cielo chiamato dai locali Irminsul, termine che in latino - stando alla traduzione operata dallo stesso Rudolf di Fulda - verrebbe a significare proprio axis mundi od universali columna. Secondo il monaco Widukind di Corvey, autore delle Rerum gestarum Saxonicarum ( i.e. “Gesta sassoni” secolo X), l’etimologia del termine Irminsul è legata al fatto che i locali vedessero nel tronco una rappresentazione del dio Irmin.
Inutile dire che la traduzione fornita da Rudolf di Fulda sia quella che più si avvicina alla realtà delle cose dacchè il composto *jǫrmun- súla dal quale deriva con buone probabilità il termine Irminsul vuol dir proprio “grande pilastro”; tralasciando gli studi etimologici e tornando in ambito storico l’Irminsul venne distrutto nel 772, anno di inizio della prima campagna di Karolus Magnus contro i Sassoni.

Oltre alle testimonianze letterarie si hanno anche testimonianze archeologiche, basti pensare ai resti rivenuti sotto l’altare della chiesa di Frösön ( i.e. “isola dell’Ase Freyr” ) di vittime sacrificali assieme con un frammento di legno di betulla entrambi datati al secolo X o a quella fonte della tarda età del ferro a sudovest di Tuna ( Vendel ) che va sotto il nome di Odensbrunn. Per quanto concerne la fonte di Ubsola di cui parla Adam Bremensis non vi sono sinora attestazioni archeologiche valide nel sito di Gamla Uppsala che rispecchino la descrizione nelle Gesta Hammaburgensis.


Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Filologia Germanica 1A (2018 - 2019) tenuto dalla professoressa Carla del Zotto, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

Il Santuario, l'Albero e la Fonte - parte II

Il SANTUARIO

Nel quarto libro della sua opera cronachistica, Adam Bremensis descrive il tempio di Ubsola come
interamente decorato in oro ed avente al suo interno le statue di Þórr assiso sul trono, di Óðinn e di Freyr; nello scholion 138 vi è poi l’accenno alla catena dorata che cingeva l’intero tempio partendo dal colmi del tetto.
La suddetta descrizione è affine a quella che Snorri Sturluson fa nel Gylfaginning ( i.e. “Inganno di Gylfi” Edda di Snorri, prima metà del secolo XIII ) di un hof interamente adornato d’oro sito in Glaðsheimr, ossia di quel santuario costruito dagli stessi Asi contenente al suo interno i loro troni ( “[...] at gera hof þat er sæti þeira standa” ). Questo santuario sembra coincidere con la Valhǫll d’oro luccicante ( “[...] en gullbiarta, Valhǫll við of þrumir” ) dalle cinquecento e quaranta porte di cui si parla nell’ottava e nella ventitreesima strofe del Grímnismál ( i.e. “Discorso di Grímnir”, carme dell’Edda poetica ); il numero esorbitante delle porte ne definisce l’enormità strutturale che la rende visibile da molto lontano.
Alla stregua del tempio di Ubsola questo santuario presenta dei troni dove gli Asi seggono in concilio; quello di Óðinn è il più in alto dacché divinità d’importanza primaria nel pantheon degli Asi nordici. Lì gli einherjar banchettano con carne del cinghiale Sæhrímnir e sorseggiano la birra portata loro dalle valkyrjur; in breve compiono libagioni.
Ecco che le somiglianze fra la Valhǫll ed il tempio di Ubsola emergono lampanti. In entrambi i luoghi gli Asi seggono in trono in un edifico adornato d’oro; vi è però un’altra somiglianza più sottile. Adam Bremensis nel descrivere Ubsola utilizza il termine templum che secondo Olof Sundqvist è utilizzabile per descrivere un edificio polifunzionale nel quale e possibile tenere banchetti come nella Valhǫll. In più nel descrivere la sala dove vi erano gli Asi intagliati nel legno Adam Bremensis fa ricorso al sostantivo triclinium, termine che nel latino classico come anche in quello medievale rimanda ad una sala dove si svolgono banchetti cerimoniali.
Secondo il seguente passo del paragrafo ventisettesimo del quarto libro delle Gesta Hammaburgensis, delle libagioni rituali venivano tenute dinanzi alle tre statue:

Si pestis et fames imminet, Thor ydolo lybatur, si bellum, Wodani si nuptiæ celebrandæ sunti, Fricconi.

Ecco che il venerare gli Asi nel triclinium di Ubsola era strettamente legato a rituali con libagioni e banchetti cerimoniali; è questo un forte legame che sussiste fra il santuario di Ubsola e la Valhǫll.
Le caratteristiche sinora elencate quali le decorazioni in oro, la posizione e le dimensioni che rendono l’edificio ben visibile come vedremo fra poco sono riscontrabili in tutti i templi di area scandinava di cui gli archeologi sono a conoscenza.
Per quanto concerne le testimonianze archeologiche in Gamla Uppsala - locus dove secondo gli studiosi dei primi del secolo XX sorgeva il santuario di Ubsola - è necessario fare affidamento a quanto riportato dal Nordahl. Durante degli scavi nel 1980, effettuati a nord della stavkirke di Gamla Uppsala, furono rinvenuti i resti di una sala del periodo merovingico; questa era sita su di un altipiano che, seppur di modeste dimensioni, torreggiava sul territorio circostante rendendo la sala visibile a grandi distanze. Nuovi scavi in situ rivelarono che la sala fosse lunga cinquanta metri e che questa bruciò sino alle sue fondazioni intorno alla prima metà del secolo IX; le teorie che l’associavano a quella Ubsola descritta da Adam Bremensis furono dunque smentite. Questa sala con buone probabilità era decorata al suo interno con spirali in ferro che dopo il rogo di questa vennero depositate lungo il perimetro della stessa e nei buchi dei pali portanti; queste decorazioni ed il rinvenimento di calce bianca sui muri interni sono testimonianza dell’elevato grado d’importanza di questa sala che con buone probabilità venne utilizzata per riunioni e per banchetti cerimoniali.
Sulla scia dei rinvenimenti archeologici di sale cerimoniali, gli studi portati avanti da Frand Herschend sul finire del secolo XX mostrano come le sale risalenti all’età del ferro scandinava fossero luoghi destinati al culto delle divinità; spesso si trovano in luoghi aventi nomi carichi di significato metafisico, quali ad esempio Helgö ( i.e. “isola sacra” Uppland, Svezia) oppure Gudme ( i.e. “dimora/regione degli Dèi” Fyn, Danimarca). Scavi archeologici mostrano come queste fossero spesso decorate in oro. Basti pensare alla sala di Gudme nei cui buchi dei pali portanti furono rinvenute delle colate di oro; probabilmente un tempo questo decorava le pareti sinché non venne fuso dalle fiamme di un incendio che lo fecero riversare nei fori suddetti. 
La sala di Gudme era lunga cinquanta metri e dunque visibile a grande distanza, mentre la sala di Helgö aveva una lunghezza di soli venti metri ma essendo anch’essa dislocata su un altipiano come la sala “merovingica” di Gamla Uppsala era ben visibile da lontano.


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Il Santuario, l'Albero e la Fonte - parte I

La seguente tesina tratterà della struttura dei templi della Scandinavia precristiana e delle loro caratteristiche che li rendono volontaria rappresentazione degli elementi cosmici propri della religione germanica precristiana.

Il tempio di UBSOLA

Scarse sono le fonti affidabili riguardanti i santuari nella Scandinavia precristiana; fra queste risalta un’opera di Adam Bremensis in quattro volumi, le Gesta Hammaburgensis Ecclesiæ Pontificum redatta intorno al 1075.
Appartenente al genere cronachistico delle gesta episcoporum, l’opera narra la campagna d’evangelizzazione portata avanti dall’arcivescovato di Hamburg-Bremen ai danni delle popolazioni slave e scandinave non ancora convertitesi al culto del hvíti-Kristur ( i.e. islandese per “Cristo bianco” ). Essa è riportata in numerosi manoscritti d’epoca medievale che Schmeidler in Monumenta Germaniæ Historica divise in tre classi ( i.e. classe A, classe B, classe C ) ed il più antico fra questi è il A2; risalente al secolo XII, è altrimenti noto come ‘manoscritto di Leiden’ ed è in esso e soltanto in esso che si può ritrovare la descrizione completa del tempio di Ubsola ( i.e. originale latino per ‘Uppsala’ ) con i vari scholia.

Nella Descriptio insularum aquilonis - nome del quarto libro del manoscritto A2 - Adam Bremensis parla di come il tempio di Uppsala fosse l’ultimo ostacolo alla totale cristianizzazione della terra degli Svear e ne rende una dettagliata fotografia. Sito nei pressi della città di Sictona, il tempio presentava vaste decorazioni in oro ed al suo interno vi erano poste le statue lignee ( il fatto che fossero lo si può dedurre dal verbo usato nel seguente passo “Wodanem vero sculpunt armatum” ) di tre Asi; Þórr ( nel manoscritto è riportato come ‘Thor’ ) era assiso su di un trono al centro della sala ed ai suoi lati vi erano Óðinn ( nel manoscritto è riportato come ‘Wodan’ ) e Freyr ( nel manoscritto è riportato come ‘Fricco’ ).
Lo scholion 138 restituisce più informazioni riguardanti l’area attorno all’edificio; vi sarebbero un albero sempreverde ( “semper viridis in hieme et æstate” ) con rami molto estesi di specie sconosciuta - secondo alcuni studiosi potrebbe essere un Taxus baccata dacché stando alla Hervarar saga ok Heiðreks ( i.e. “Saga di Hervör e Heidrek” secolo XIII, Islanda ) sotto quell’albero si era soliti svolgere sacrifici di sangue ed avere visioni mistiche forse dovute al polline del Taxus che è notoriamente allucinogeno - ed una fonte dove si immergevano degli individui come forma di sacrificio ( “ubi etiam est fons, ubi sacrifica paganorum solent exerceri et homo vivus inmergi” ).
Lo scholion 139 descrive invece nel dettaglio la struttura e la posizione del tempio che viene definito da Adam Bremensis con il sostantivo latino delubrum ( i.e. “santuario” ); il tempio è cinto da una catena dorata che getta i suoi riflessi su chiunque vi si avvicini ( “Catena aurea [...] lateque rutilans advenientibus” ) ed è posto fra delle montagne che lo cingono come gli spalti di un teatro - secondo Olof Sundqvist queste coincidono con i tumuli funerari reali di Gamla Uppsala.
Nel paragrafo 27 del quarto libro Adam Bremensis descrive il modus operandi dei sacrifici che si tenevano, solamente in Estate, nel boschetto nei pressi del tempio; nove “teste” di sesso maschile venivano offerte per placare le potenze celesti ( “[...] quod masculinum est, novem capita offeruntur” il numero nove è carico di misticismo nel mondo germanico, ad esempio nove sono i mondi che si sviluppano lungo l’axis mundi che coincide con Yggdrasill ) i cui corpi venivano appesi agli alberi del boschetto, di cui ogni albero era considerato sacro per il sangue versato ( “Is enim lucus tam sacer est gentilibus, ut singulae arbores eius ex morte vel tabo immolatorum divinae credantur” ). Il paragrafo si conclude riportando la testimonianza di un cristiano che lì vide ben settantadue corpi, di uomini come di animali. Questo breve passo è indice delle fonti alle quali attinse Adam Bremensis, il quale mai si recò di persona sul luogo ma si avvalse di testimonianze oculari come quella del re danese Svein Ástriðarson; nella sua giovinezza, durante il regno del re svedese Anund Jacob della prima metà del secolo XI, Svein visse in esilio nella terra degli Svear e lì rimase per ben dodici anni divenendo esperto delle usanze del luogo. Stando a quanto afferma Olof Sundqvist, altro testimone chiave sarebbe stato il vescovo della diocesi di Sictona, Adalvard il Giovane.

Studi recenti sembrano però rinnegare la validità storiografica di questa descrizione dacché presenterebbe troppi tópoi ascrivibili alla dimensione mitico epica del mondo germanico ed identificabili nella triade ‘santuario - albero - fonte’ che va a coincidere con quella ‘Valhǫll - Yggdrasill - fonte di Urðr’. Una simile valutazione è però fuorviante, dacché è proprio la presenza nel resoconto di Adam Bremensis di simili rimandi mitologici a validare quest’ultimo; secondo Olof Sundqvist il santuario, l’albero e la fonte vennero posizionati in loco proprio per rispecchiare quegli elementi cosmici della religione degli Svear sulla base di un principio imitativo del quale lo stesso Mircea Eliade è teorizzatore.
Essendo Ubsola sede del potere politico ed economico degli Svear, i regnanti che lì vi risiedevano forse realizzarono un simile complesso sacro per ricevere il plauso della popolazione come anche il favore delle potenze celesti di cui erano discendenti per tradizione ( e.g. si diceva che gli Ynglingar fossero diretti discendenti del dio Freyr ).
La presenza in loco della suddetta triade non è ristretta alla sola Ubsola ma anche ad altri siti in Scandinavia e nella Mitteleuropa germanica; segue ora un’analisi dei suddetti siti in base agli elementi ‘santuario - albero - fonte’.


Note:
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lunedì 22 luglio 2019

Crisi e sopravvivenza, una riflessione

Questo articolo nasce come riflessione personale durante una discussione, e come tale va presa, abbiamo deciso di pubblicarla sul blog in quanto potrebbe motivare, o almeno far riflettere.

Sulla questione sopravvivenza in periodi di crisi ho seguito una conferenza molto interessante cinque o sei anni fa, era riferita in particolare all’area lombarda ma con le dovute differenze sulla conformazione del territorio può essere applicata a buona parte dell’Eurasia.
Durante le guerre gotiche che straziarono queste zone vi fu un generale spopolamento di tutta la zona cisalpina, pestilenze, carestie e azioni belliche furono una piega che durò decenni ma che colpì in misura nettamente maggiore le popolazioni urbane, pur essendo queste assai meno esposte ad azioni di razzia rispetto alla loro controparte urbana. Perché? Innanzitutto perché la città è per sua stessa natura “parassitaria” per quanto riguarda L’approvvigionamento alimentare, ed al primo sentore di crisi i mercanti hanno la brutta tendenza allo scomparire lungo le strade, vuoi perché evitano viaggi considerati troppo rischiosi, vuoi perché finiscono spesso e volentieri privati del loro carico, quando non della loro stessa vita, lungo la strada. Strozzato il commercio nel giro di qualche settimana, anche senza nessun assedio effettivo, il cibo nella cerchia urbana inizia a scarseggiare e diventa appannaggio delle classi più abbienti, che sono disposte a pagare molto di più rispetto a quelle popolari. Ciò porta rapidamente a disordini, quando non a veri e propri assalti a forni, magazzini militari e palazzi, una persona affamata diventa capace di tutto.
Molti decidono poi di abbandonare la città, contando sulla relativa abbondanza di cibo delle campagne, ma qui entrano in gioco un‘altra serie di fattori importantissimi: la conoscenza del territorio e le capacità di adattamento e approvvigionamento del singolo individuo o del suo gruppo.
Al tempo, come oggi, capitava ben difficilmente che i cittadini si recassero fuori dalla città lontano dalle strade più battute, ne consegue che quasi nessuno sapesse nulla del territorio limitrofo. Le strade, in periodo di crisi, diventano pericolosissime, battute da bande di razziatori, ladri e semplici disperati in cerca di una facile preda, sono quindi da evitare, ma per chi non conosce il territorio muoversi è difficilissimo, quella che sembra una “innocua” macchia od un boschetto potrebbe velocemente diventare una trappola, tra animali selvatici e malintenzionati.
Gli abitanti delle campagne al contrario, alla prima avvisaglia di presenza nemica, scappano nei boschi con la propria famiglia e magari un poco di bestiame, e questo scoraggiava non poco gli aggressori, puoi essere il soldato più preparato del mondo ma seguire dei locali nel fitto di un bosco, tra spiriti a te ostili e possibile trappole, è sempre pericoloso.

Un contadino che difende la sua casa, protetto da un bosco, può avere la meglio sul soldato meglio addestrato (Teutoburgo insegna), oltretutto la maggior parte del possibile bottino rimaneva comunque nel villaggio disabitato. Semplicemente non ne valeva la pena.
La maggior parte dei massacri nei villaggi avveniva dopo attacchi a sorpresa, all’alba o da parte di truppe a cavallo.
Le genti rurali, grazie alle loro abilità, superarono i periodi di crisi, nascondendosi nei boschi e sopravvivendo con ciò che la natura poteva offrire loro.
Io non ho le competenze di un professionista in termini di sopravvivenza, pur avendo frequentato un corso base anni fa, ma conosco molto bene il mio territorio, lo giro spesso, a piedi, sia di notte che di giorno.

Non c’è albero, canale o macchia che non conosca, so dove si possono trovare cinghiali (pericolosi quando hanno con loro i piccoli), dove con la pioggia il terreno diventa melmoso, dove nella giusta stagione trovare fichi, noci, ghiande, funghi o giuggiole. Saprei, in definitiva, cavarmela per qualche giorno anche senza cibo e acqua.

Ciò che un uomo dovrebbe domandarsi è: “se per una qualunque ragione il nostro mondo dovesse andare in pezzi, e fidati che di ragioni ve ne possono essere a palate, sarei in grado di provvedere alle persone a me care? Sarei in grado di far sopravvivere chi mi è vicino, la mia compagna, i miei figli? Ed i miei amici, coloro che mi sono scelto come compagni d’esistenza, saprebbero fare altrettanto o lottare con altrettanto accanimento?”
Il resto, a parer mio, sono tutte chiacchiere.

domenica 21 luglio 2019

Contro il culto della debolezza



Il disprezzo per la conquista e il disconoscimento della gloria per i conquistatori sono morbi della nostra epoca ma non nascono in essa, anche se sono indubbiamente vezzeggiati e pasciuti dal moderno culto della debolezza.
Già Dickens, in più di un racconto, parla con malcelato disprezzo delle abitudini guerresche della vecchia nobiltà, e lo fa con una stizza tutta borghese, di chi è abituato a comprare e non a conquistare.
Prima di lui altri ancora fecero simili considerazioni, da Voltaire che da buon borghese qual era non sopportava la guerra è le altre opere tipicamente aristocratiche, fino ad arrivare a Montesquieu, membro di quella istituzione indegna che va sotto il nome di nobiltà di toga. Per costoro infatti il progresso “costringe alla pace” in quanto è solo in questa che possono prosperare i mercanti che sono, per costoro, i principali artefici della scambio internazionale ed interculturale da loro visto come avanzamento.
“L'effetto naturale del commercio e' di portare la pace", afferma Montesquieu nel 1748 nel suo “De l'Esprit des loix”.
Il secolo dei lumi ha quindi grandissime responsabilità in questa controesaltazione delle qualità eroiche ma sarebbe sbagliato, e fortemente scorretto, attribuirgli a ogni colpa.

Fin dalle sue origini infatti il cristianesimo ha instillato, goccia dopo goccia, il proprio veleno nella cultura europea, tentando in ogni modo di limitare, quando non propriamente controllare, la sana e naturale bellicosità delle nostre genti.
Queste limitazioni, insieme con l’esaltazione di figure imbelli e passive come quelle di molti santi, ha contribuito molto a formare quella mentalità cenciosa tesa a vedere nella pace, anche nella più disonorevole, sempre e comunque qualcosa di migliore che non nella guerra, una mentalità questa che raggiungere la propria maturazione propria dall’incontro fra cristianesimo e “lumi”, fra pacifismo spirituale e pacifismo politico.

Questo miscuglio letale è poi deflagrato nel secolo scorso dove, a seguito dei due conflitti e della forzata tregua nucleare ad essi seguita l’uomo d’Eurasia, salvo rarissime eccezioni, è stato privato di questa componente terribile e necessario nella propria esistenza.
Agli orrori della guerra ne sono subentrati altri, più sottili e subdoli ma appunto per questo assai più venefici.
La demonizzazione della conquista e la negazione delle enormi capacità necessarie al suo ottenimento si inserisce perfettamente fra queste.

Ovvio che ai cultori della debolezza questo vada più che bene, essi vedono nella dolciosa accettazione di ogni cosa una sorta di virtù, in rispetto al biblico “porgere l’altra guancia”, ma nonostante questo loro desiderio rimane il fatto che l’Europa nasce come terra d’Eroi, non di santi, ed i suoi principi fondatori sono quelli dell’Iliade, non quelli dell’amore fraterno e universale, oltretutto immotivato.
La nostra rinascita non può essere quindi all’insegna della incondizionata pietà cristiana ma deve avvenire sotto l’egida di una dura selezione dalla quale possano risultare le dinastie eroiche del futuro.

Arriverà nuovamente il nostro tempo, un giorno.

martedì 16 luglio 2019

lunedì 15 luglio 2019

Lo spirito della selva



Lo spirito che risiede nella cosiddetta selva, oggi è sconosciuto a molti e di certo, molte delle persone che si considerano “spiriti selvaggi” non sono tali. Vivere lo scenario naturale come un luogo per prendere appunti sul proprio diario oppure per appagare il proprio sentimento/bisogno egocentrico, svolgendo attività come Il trekking, il campeggio, attività fotografiche o similari, non avvicina di certo a comprendere e vivere lo spirito della selva. Rifiutare la parte violenta ed estrema, che caratterizza la natura, sostituendolo con un ideale di natura amorevole, è quanto di più deturpante possa esistere. Pensare che in natura esista solo violenza, è deturpante allo stesso modo.

La forza dell’homo Salvadego è la “comunione con la natura”. Sopravvivere per vivere, richiede molteplici competenze e abilità fisiche, mentali e spirituali. In natura, avere tanti muscoli, ma non saper gestire lo spirito della fame, equivale a morire. Non avere muscoli e saper gestire lo spirito della fame, conduce al medesimo risultato. Non saper ascoltare, leggere o comprendere i suggerimenti degli spiriti della natura, equivale a morte certa. Le persone che vivono la natura lontane dalla tv o da un libro, sono coloro che più si avvicinano a conoscere “il selvatico” e gli spiriti che abitano la selva. L’orto o le bestie in fattoria, non sono natura selvaggia, ma natura addomesticata che avvicinano a compenetrare la natura, ma di certo non ci rendono selvatici.
Non crederete che un bufalo selvatico, sia l’equivalente di un bufalo addomesticato, vero? Non crederete che gli spiriti che abitano la selva parlino la vostra lingua, vero?
Non crederete di incontrare gli spiriti della selva dal divano di casa o in una passeggiata tra i boschi o che essi siano disposti a farsi sentire da persone che non fanno parte del loro mondo, vero?
Non crederete che gli spiriti delle piante in natura, siano addomesticabili come le piante dell’orto di casa, vero?
Non crederete di poter usare la forza bruta e sopravvivere in natura, vero?

Se così fosse, siete lontanissimi dal vivere la selva in tutto il suo splendore, violento e amorevole.

L’Homo Salvadego è archetipo di molte culture europee, a tratti semidivino, abitante del bosco e espressione archetipale degli istinti che risiedono nella parte più profonda dell’uomo.
È homo Salvadego colui che si spoglia degli inutili bisogni che la società gli ha imposto, ricercando quelle conoscenze basilari adatte a vivere la parte selvaggia, libero da costrutti e che diventa parte del tutto compenetrando la natura.
L’homo Salvadego vive in quegli attimi in cui tutti i nostri pensieri e la razionalità si annullano, trasformando la riflessione in puro istinto.
È quel momento che non può essere descritto da nessun saggio, da nessun libro, da nessuna lezione e da nessun convegno naturalistico; è quel momento in cui le emozioni trasformano noi stessi: l’istinto di difesa che porta a cercar riparo in una grotta, oppure è la paura che a volte diviene terrore e poi istinto di sopravvivenza, per poi divenire azione e infine divenire forza e volontà per poter vivere.

In questi istanti, L’homo metropolitanus, si allontana dalla debolezza e dalle costrizioni che la società gli ha imposto e si avvicina sempre più a divenire Homo Salvadego.
È una trasformazione a “fermate” verso una sola direzione, che non prevede patti di alcun genere e, non lascia vive debolezze o romanticismi riferiti alla natura.

Provate ad essere romantici, rimanendo sotto una tormenta come questo verdone o, a fare i filosofi o gli scienziati, cercando spiegazioni per comprendere cosa sta vivendo questo verdone sotto la tormenta, senza vivere realmente ciò che sta vivendo!
Lo spirito dell’homo Salvadego si vive, non si racconta.

Culto dei Silvani.

Orlando di Raimo, in collaborazione con Le vie di Wodanaz

Prima foto: National Geographic di David Francescangile.
Seconda foto: Orlando di Raimo




sabato 13 luglio 2019

Eterna è la legge dei primordi

L’uomo moderno nella sua superbia si crede superiore a tutti coloro che lo hanno preceduto nel tentativo di legittimare il proprio modus vivendi senza però rendersi conto che alla base dell'intero pensiero occidentale vi sono proprio quegli antenati che egli disprezza con novello spirito petrarchesco; l'uomo savio, al contrario, darebbe ogni cosa per scorgere una scintilla del fuoco dei primordi.

Quanto sinora detto racchiude in maniera sintetica quella che la nostra linea ed il principio che alla base del progetto “Le vie di Wodanaz”.
La ricerca continua ed ad ogni livello di queste scintille e la diffusione, nella maniera il più possibile diretta, di ciò che abbiamo appreso e che continuiamo ad apprendere ogni giorno è il fulcro della nostra opera.
Siamo persone semplici, agricolturi, studenti, operai, che dedicano una parte del proprio tempo libero ad una causa, uniti nella consapevolezza che l’Europa tornerà agli Dèi del suo popolo oppure cadrà nell'ombra.

lunedì 8 luglio 2019

Sulla necessità di un nuovo corpo aristocratico

Poche cose sono indice dei cupi tempi nei quali viviamo quanto la completa devirilizzazione della classe aristocratica indoeuropea che per millenni ha costituito la spina dorsale del sistema sociale, e militare, del nostro continente.
Una classe un tempo forte, una istituzione militare e spirituale plurimillenaria, formata da uomini in grado di emergere veramente fra i propri pari per forza, arguzia e carisma, consumata da più di un millennio di malsana dottrina semitica.
Per secoli e secoli fu impedito a uomini e donne di valore di riprodursi in nome di un abominevole servizio ad un Dio straniero, il matrimonio divenne una questione politica, di “classe” e non un’unione tesa al concepimento e alla formazione di figli fisicamente e spiritualmente sani, in grado di superare nelle gesta e nel valore i propri antenati.
Inutile sottolineare come questo sia possibile solo ritornando alla vera fede, e ai veri Dèi del nostro popolo.
Non sarà certo una divinità a noi estranea, e che ha prosperato per millenni a scapito della nostra gente, a darci l’istruzione, la guida e la forza necessarie.
Solo nella fede negli Dèi immortali, nei fuochi notturni e nella forza di volontà risiedono le chiavi della rinascita del nostri popoli.

sabato 6 luglio 2019

Delfi e il suo oracolo


“E presso scorre il fonte dall’acque bellissime, dove
il Dio figlio di Giove dall’arco d’argento, trafisse
la Dragonessa grande, gigante selvaggio prodigio,
che tanti danni recava degli uomini all’agili greggi,
e tanti a loro stessi: ché era un cruento flagello.
A questa Era, la Diva dall’aureo trono, una volta,
Tifone, orrendo mostro crudele affidò, per nutrirlo.”

(Inno omerico ad Apollo)

Un tempo, quando il mondo era giovane, il Dio Apollo affrontò ed uccise il serpente pitone, il corpo di questi cadde in una fessura nel terreno, ciò accadde sul monte Parnaso, a Delfi, luogo destinato a divenire altamente sacro per tutte le genti dell’Ellade (e, di conseguenza, per tutti le genti di sangue indoeuropeo).
Venne edificato un tempio, ed un oracolo, conosciuto con il nome di Pizia, al quale uomini liberi e sovrani domandavano consiglio per ricevere la saggezza di Apollo.
Il ruolo di Pizia non era riservato ad una sola persona ma venne ricoperto contemporaneamente da varie sacerdotesse, scelte per la propria virtù.
Inizialmente questa carica era riservata alle sole vergini ma successivamente, a causa di Echecrate di Tessaglia, che rapì e violentò una veggente della quale si era invaghito, venne decretato che nessuna vergine avrebbe più dovuto ricoprire quel ruolo che venne quindi riservato a donne di età più matura che avrebbero però continuato ad indossare vesto da vergini, a ricordare l’antica usanza.

Esse sedevano, sempre e solo una alla volta, su di un tripode, posto sulla stessa fessura nella quale Pitone precipitò, ed ispirate dal Dio parlavano per sua bocca concedendo agli uomini saggezza, guida ed istruzione.
Il sacro tempio, rimasto attivo per più di duemila anni, venne chiuso per ordine dell’Imperatore Teodorico I, sotto la mefitica influenza del Dio semita, tramite i mai abbastanza maledetti decreti teodosiani.
Le sue rovine, ad ogni modo, rimangono ancora oggi un luogo altamente sacro, e tale rimarrà fino al giorno in cui l’antica fede tornerà alla gloria che le spetta ed un nuovo tempio sorgerà nuovamente sul monte Parnaso.