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lunedì 23 dicembre 2019

Un osservatorio solare del neolitico

Il 'Kreisgrabenanlage' ( i.e. "costruzione a fossa circolare" ) di Goseck, altrimenti noto come 'Sonnenobservatorium' ( i.e. "osservatorio solare" ) di Goseck, è un fossato circolare [1] risalente al Neolitico a nordovest della cittadina di Goseck del Land tedesco Sachsen-Anhalt [2].
Degli avvallamenti a forma di anello nel terreno vennero fortuitamente scoperti nel 1991 durante un volo di ricognizione dall'archeologo Otto Braasch e vennero da questo segnalati come 'Bodendenkmal' ( i.e. "monumento interrato" ); la costruzione, eretta circa 6900 anni fa nel medio neolitico, è da ascriversi alla 'Stichbandkeramiche Kultur' [3] ( i.e. "Cultura della ceramica decorata a punzone" ).

Dopo la scoperta, vennero nuovamente scattate fotografie aeree dell'area e vennero compiuti rilevamenti geomagnetici per poter ottenere una mappatura completa del luogo; i vari rilevamenti e il successivo scavo del sito si svolsero entrambi nell'ambito del progetto interdisciplinare "Kreisgrabenanlage Goseck - Archäologie multimedial".
Sotto la direzione di François Bertems ( i.e. professore del dipartimento di archeologia preistorica dell'università "Martin-Luther" di Halle-Wittenberg ) nei primi del 2002 venne riportata alla luce la porta sudest del complesso circolare così come anche una porzione dell'anello esterno che consisteva in un fosso, un terrapieno e due palizzate. Durante il primo scavo su un'area di 10 metri per 50 vennero riportati alla luce le tracce della struttura ad anello che era ancora interrata così come dei frammenti di 'Stichbandkeramik' [3] ( i.e. "ceramica decorata a punzone" ), i resti di una longhouse con le pareti a torchis [4] intonacate d'argilla ed una tomba di un bambino con all'interno due vasi ascrivibili ai primordi dell'epoca della 'Linearbandkeramik' [3] ( i.e. "ceramica a banda lineare" ).
Nel 2003 venne nuovamente esaminato il primo sito di scavo come anche una nuova area a sud di questo di 30 metri per 40 e venne riportata alla luce l'intera porta sudest; fu così scoperto che le porte della palizzata più interna erano più strette di quelle esterne, segno che forse indica una differente fruibilità delle due aree sulla base del ruolo socio-sacrale che i vari membri delle genti del luogo ricoprivano.
Durante scavi successivi vennero trovate numerose ossa di bovino, specialmente crani, come pure delle ossa umane inumate in tre fosse nel terreno interno alla costruzione. Le ossa umane erano state meticolosamente trattate dacché la carne ad esse legata fu raschiata via da queste tramite ausili meccanici, trattamento che forse rimanda a sacrifici umani o a specifici riti funebri.

Dal Giugno all'Ottobre del 2005 l'equipe di ricerca lavorò alla ricostruzione in situ dell'intero complesso. L'inaugurazione di questo ebbe luogo il 25 Dicembre dello stesso anno, ossia nel solstizio d'Inverno del 2005. Seguono una serie di fotografie del sito archeologico ricostruito:

Veduta frontale della porta nord del complesso; si noti l'anello esterno
costituito dal fossato che contiene al suo interno la doppia palizzata.

Veduta aerea del complesso.
@Pierre Lesage
https://www.flickr.com/photos/74519001@N00/25709521551

Per quanto concerne la funzione svolta dalla suddetta costruzione circolare, si può far riferimento alle ricerche dell'archeologo Wolfhardt Schlosser dell'istituto di Astronomia dell'università di Bochum ( nota con l'acronimo di RUB, Ruhr-Universität Bochum ) che aveva in precedenza analizzato il disco astronomico di Nebra anch'esso rinvenuto nel Sachsen-Anhalt ma risalente all'età del Bronzo ( i.e. evo storico compreso fra il 3200 a.e.c. ed il 600 a.e.c. ) e dunque successivo all'epoca in cui il Kreisgrabenanlage di Goseck venne costruito.
Analizzando la disposizione dei tre raggi passanti per le tre porte, Schlosser scoprì come quello afferente alla porta nord identificasse sul suolo del complesso la direzione del meridiano astronomico di lì passante; i restanti raggi, quello afferente alla porta sudest e quello afferente alla porta sudovest, identificavano rispettivamente la direzione della luce solare nascente (alba) e di quella calante (tramonto) nel solstizio d'Inverno. Segue una rappresentazione grafica di quanto sinora detto:

Legenda
La linea in rosso rappresenta il meridiano che passa per il centro
del complesso architettonico, la linea gialla a destra la luce solare
che filtra dalla porta sudest all'alba del solstizio d'Inverno all'interno
del complesso e la linea gialla a sinistra rappresenta la luce solare che
filtra dalla porta sudovest al tramonto del solstizio d'Inverno. 

Note:

- [1] I cosiddetti fossati circolari - in tedesco 'Kreisgrabenanlagen' o 'Ringgrabenanlagen' - sono delle costruzioni neolitiche della Mitteleuropa di cui sinora sono stati ritrovati circa 120 esemplari tramite la tecnica dei rilevamenti aerei. I progenitori di questi fossati circolari erano complessi architettonici di forma circolare od ellittica che combinavano al loro interno fossi e terrapieni creando una serie di anelli concentrici ed erano afferenti alla 'Linearbandkeramik Kultur' [3] ( i.e. "cultura della ceramica a bande lineare", alto neolitico, 5500 - 4900 a.e.c. ).
Il concetto di 'Kreisgraben' nacque in seno alla 'Lengyelkultur' [3] ( i.e. "cultura di Lengyel", medio neolitico, 5000 - 4000 a.e.c. ) nel 4900 a.e.c. ed ebbe il suo periodo di massima fioritura nel medio neolitico ( i.e. 4900 - 4500 a.e.c. ) diffondendosi dall'odierna Ungheria e dall'odierna Slovacchia verso l'ovest raggiungendo così la Mitteleuropa germanica. Questo complesso architettonico era composto da uno sino a tre anelli scavati nel terreno aventi forma circolare o ellittica ( in questo caso, a differenza dei complessi afferenti alla 'Linearbandkeramik Kultur', gli anelli spesso non erano concentrici, avevano stessa ampiezza ed il diametro dell'intero complesso di anelli oscillava fra i 40 ed i 300 metri ) e da una o più palizzate poste dentro l'anello più interno a protezione dell'area più ima dove spesso si rinvengono resti di edifici lignei; il complesso architettonico sorgeva poi sempre in zone isolate, spesso su delle collinette lontane dagli insediamenti e dai centri abitati.
È molto probabile, se non quasi scontato, che molti di questi Kreisgrabenanlagen venissero realizzati sulle spoglie di strutture precedenti afferenti alla 'Linearbandkeramik Kultur' come testimonia il caso di Goseck dove fu ritrovata una sepoltura con frammenti di vasellame, esempi dei primordi della 'Linearbandkeramik'.
La funzione di queste strutture è dibattuta e le varie ipotesi sono riassumibili nella seguente triade:
-- luogo di raduno legato alla sfera del sacro o a quella politica, piazza del mercato
-- sistema difensivo di "seconda linea"
-- recinto per bestiame
Ricerche recenti mostrano come i 120 complessi architettonici sinora scoperti avessero funzioni differenti, tutte contenute però nell'elenco di cui sopra.

- [2] Nella seguente carta geografica si può osservare la disposizione di Goseck e del Sachsen-Anhalt all'interno dell'odierna Germania:























- [3]  Segue una breve periodizzazione della Linearbandkeramik Kultur e della Lengyelkultur.
L'origine dell'espressione 'Linearbandkeramik' ( i.e. "ceramica a banda lineare" ) che definisce la Linearbandkeramik Kultur è legata alla tecnica decorativa utilizzata nella ceramica corrispondente alla fase più antica della cultura danubiana così definita da V. Gordon Childe; il termine Bandkeramik ( i.e. "ceramica a banda" ) fu utilizzato per la prima volta dall'archeologo tedesco Friedrich Klopfleisch.
Nel complesso si può affermare che la cultura della ceramica lineare vada dal tardo 6000 a.e.c. agli inizi del 5000 a.e.c. del neolitico europeo continentale, con variazioni locali ( e.g. i dati provenienti dal Belgio indicano una tardiva sopravvivenza della ceramica lineare fino al 4100 a.e.c. ). Essa separabile in tre fasi; la fase più antica fu quella nella quale la Linearbandkeramik Kultur si sviluppò nella zona mediana del Danubio per poi diffondersi lungo l'Elba, il Reno, l'Oder e la Vistola. Dal 5500 a.e.c. al 5000 a.e.c. si sviluppò la seconda fase legata alla 'Notenkopfkeramik' ( i.e. "ceramica a note musicali" ). Nel 5000 a.e.c. alla fase precedente si sovrappose la terza ed ultima fase legata alla 'Stichbandkeramik' ( i.e. "ceramica decorata a punzone" ) che si concluse con strascichi fra il 4600 a.e.c. ed il 4400 a.e.c.
Infine al concludersi della terza fase di cui sopra, la Linearbandkeramik Kultur lasciò definitivamente il posto alla Lengyelkultur ( i.e. "cultura di Lengyen" ) il cui inizio è ascrivibile al 5000 a.e.c.

- [4] Viene qui per chiarezza riportato un esempio di sistema costruttivo a torchis:






















Fonti:

Zusammenfassung des Workshops: Funktion und Interpretation der mittelneolithischen Kreisgrabenanlagen aus Zentraleuropa. des Instituts für Prähistorische Archäologie der Universität Halle
http://www.himmelswege.de/index.php?id=6

martedì 17 dicembre 2019

Sulla morte

Cos’è la morte? 

Questa grande mostro dei tempi moderni, temuta, nascosta, censurata eppure egualmente ineluttabile, fine ultimo di ogni esistenza terrena, sulla quale sono stati scritti alcuni dei versi più significativi dell’umanità? 

Essa è, semplicemente, parte di noi. 

Viviamo e moriamo ad un tempo, poiché vivere è morire, ed ogni nostro gesto non fa altro che avvicinarci a lei, terribile amica. 

Eppure la temiamo, come se fosse qualcosa di estraneo e malevolo, come se essa non fosse già in noi. A cosa si deve questa paura? Questo terrore profano, staccato da ogni forma di sacralità, deriva certamente, in buona parte, dal cristianesimo e dalla monolatria, che ha tolto a questa importantissima parte della nostra vita terrena la naturalezza insita in ogni cosa eterna. 

Tanti, prima di noi, hanno camminato con lei al crepuscolo del proprio percorso, tanti ancora lo faranno. Tutti i nostri antenati sono passati fra le sue braccia, tutti noi, io che vi scrivo e voi che mi leggete, ci passeremo. Perché farne un dramma? La morte è vita secondo la legge eterna. 

Riappacificatevi con lei, vezzeggiatela come una vecchia amica, accettatela come parte di voi e preparatevi fin da ora per quando verrà a prendervi. 


domenica 15 dicembre 2019

Autosussistenza, autosufficienza e autoconsistenza

Tre qualità in crescendo, tre doni in aiuto dell'uomo odinista.

Stasera voglio immaginare di essere seduto davanti a te, e una birra. E di rispondere alla domanda: «Ma tu, ti senti mai solo e scoraggiato?»
Voglio provare a farlo con la massima semplicità e verità di cui sono capace. Si. Spesso. Stanco, quasi  sempre.
Alla fine però, sempre, sono ancora qua.
Sono un uomo spesso molto amareggiato e arrabbiato, ma non sono infelice. Alla fine, c'é invariabilmente, ogni volta, un quasi, grazie a cui non sono neanche davvero scoraggiato. Me ne rendo conto guardando la vera infelicità e il vero scoramento che traboccano riempiendo le strade, anche stasera dietro i vetri della birreria.
E sai cosa c'è? Rialzare anche solo per un secondo la testa da questa melma mi rende fiero e mi ridà speranza. Perché non è facile resistere, quindi è meraviglioso avere anche solo un appiglio per insistere e vedere che lo si sta usando, ora proprio adesso.
Tutta la società dominante e i "valori" proclamati dal comune buonsenso sono una ricetta per la depressione. Non è semplice rimanere saldi.
Ti dirò: una sana solitudine è un vero farmaco. Come ogni medicina, troppa può uccidere, ma una amara dose mantiene in salute.
Ti dirò che cosa mi ha aiutato nell'oscurità.

La prima cosa è imparare che ogni male ha il suo confine con il morire del giorno e che ogni giorno porta almeno una opportunità. Fallisci, migliora, impara, prendila.
Autosussistenza: anche un secondo di pace è un tesoro, sfruttalo e cerca di espandere il suo dominio. Poco a poco se puoi, o con salti che a volte non pensavi di poter fare.

La seconda cosa è imparare che ogni grandezza ha il suo limite, temporaneo. Accettalo. Non puoi salvarti da ogni ferita, non puoi vincere sempre. Sappi che la vittoria che non ha dietro di sé almeno trenta sconfitte è una vittoria per bambini. Non per gli uomini. La dea alata della runa Sig vola sulle teste insanguinate, non sui volti inebetiiti dalla beatitudine. Alla fine, dice un proverbio scozzese che amo: "Re e pedone finiscono nella stessa scatola". Perdiamo tutti. Ma è importante come. Questo conta. Questo è fondamentale: aver fede nella propria nobiltà e nel premio del suo sacrificio. È il passo in mezzo al guado, il più duro: saper dire e proclamare "Va bene così: deve essere così, così devono andare le cose!" Fatto questo, l'autosufficienza comincia quando hai visto da solo quanto puoi fare nonostante la melma, nonostante il vuoto, nonostante le finzioni di troppi egoisti e deboli che marciano per prosciugare le tue forze. Ricorda: per quanta canaglia potrà gettartisi addosso, c'è sempre un momento in cui gli déi si compiaceranno di te, e sempre un modesto ma solido bottino di conseguimenti. Impara a vederlo, a stimarlo, a riconoscerlo. Impara anche a riconoscere la parola e il gesto nobile di pochissimi. Non tutti sono deboli e vigliacchi. E diversi valorosi sono più vicini di quanto pensi o immagini. Nel fragore della battaglia ci sono altri guerrieri che soffrono quello che soffri tu e che resistono come stai resistendo tu, ognuno magari col suo tempo, con il suo ritmo, ma li riconoscerai d'istinto. Ascolta la tua anima bestiale: ti guiderà da loro, seguendo il wyrd.

La terza e ultima: coltiva una sana risata. Non essere tetro, o almeno non esserlo del tutto. Chi sa sorridere e ridere almeno un secondo al giorno è sollevato al cielo e porta con sé un bagliore di Asgard. Il sorriso è la porta della consistenza. Chi combatte e riesce a ridere anche un po' di sé stesso è sulla strada per mantenersi nobile e forte, saldo nonostante ogni tempesta.

Vassail.

Furio Detti, in collaborazione con le vie di Wodanaz

venerdì 13 dicembre 2019

Le divinità cornute

“Come uno spirito che scruta il passaggio e protegge il varco, il totem cornuto trafigge la carne e con la potenza che emana, invita al silenzio ed al rispetto.”

Le corna sono da sempre simbolo di potenza e divennero simbolo di potenza fecondatrice dal momento in cui vennero usate per arare la terra. Esse penetrano la terra preparandola a ricevere il seme. Essendo simbolo di potenza fecondatrice per le società agricole e armi per le società di cacciatori, il loro simbolismo è molto ambiguo e trascina con sé significati complementari ma opposti: a volte simbolo di potenza e distruzione, a volte simbolo di potenza fecondatrice e vita. Le divinità cornute sono sfuggenti al pensiero razionale e la necessità di definirle, appartiene solo agli uomini. Per irruzione del sacro e nel sacro, esse non vanno razionalizzate ma accettate irrazionalmente per comprendere ciò che sono.

La selva dà, la selva prende.


Re dei luoghi liminali, le divinità cornute presiedono i luoghi che fin dalla notte dei tempi, hanno sfamato l’uomo e allo stesso tempo, lo hanno ucciso tra atroci sofferenze. Esse appartengono a quei luoghi che divennero rifugio e salvezza per i briganti ma al tempo stesso morte e disperazione per gli abitanti dei villaggi e per i deboli. Appartengono a quei luoghi liminali in cui fabbri, cacciatori, dannati e disperati, si sono avventurati per cercare nell’oscurità delle fronde, le materie prime o i tesori inimmaginabili accumulati dal piccolo popolo e narrati dai bardi.

La paura: il luogo d'incontro degli spiriti forti

Lui è lì, ad aspettarci tra le oscure fronde e nelle ombre delle nostre torce. Lui è la paura. È ben visibile con la coda dell’occhio mentre ci osserva ma mai abbastanza visibile da poterlo definire. Lo percepiamo in un suono o nell’odore forte della selva. È la bestia che risiede nel nostro profondo, quella aggressiva, quella feroce e violenta: è la bestia che nella selva vuole sopravvivere e proteggere i propri cari. Lui è la violenza e la potenza che si accende nel nostro profondo e che incendia i nostri spiriti ed i nostri corpi. ​ Lui è Cernunnos ed è i nostri istinti più profondi ed i nostri mostri selvaggi.

La via del Sole

La notte buia e spesso fredda della selva ed i ripari di fortuna, ci fanno bramare il sole e la luce, quel sole che guiderà nuovamente i nostri occhi e le nostre azioni, quel sole che il mattino incendia le corna dei cervi. Il cervo fiammeggiante stupisce. Il sole riscalda la nostra pelle e il palco fiammeggiante, diviene la nostra salvezza, portando lontani i pensieri dell’oscurità.


Orlando Di Raimo, in collaborazione con le vie di Wodanaz

lunedì 9 dicembre 2019

Preparazione a Yule

Yule si sta avvicinando, e con esso il momento in cui l’inverno raggiungerà il suo culmine e le giornate saranno più corte e oscure. 

È un periodo di riflessione e lotta, nel quale fare il punto della propria esistenza, prendere decisioni, mettersi alla prova e prepararsi alla propria rinascita simbolica e spirituale. 

Stare con i propri cari, onorare gli Dèi e i propri antenati, fare tesoro di quanto il destino e la nostra volontà ci hanno permesso di apprendere, sono cose di grande importanza per coloro che ancora credono e vivono in questa età oscura. 

Sotto il sottile velo della cristianizzazione ancora vivono e pulsano ritualità antichissime, che danno a questo periodo quell’aria di festa che tanta serenità dona e che nessun culto monolatrico potrà mai oscurare. 

Il nostro invito è quello di sfruttare queste feste per diffondere fra coloro che amate la conoscenza di cosa davvero rappresenta questo periodo, per dura che sia. 

Diffondere conoscenza, e consapevolezza, è un dovere per tutti coloro che davvero vivono e seguono la via eterna. 

Noi, nel nostro piccolo, faremo la nostra parte, e vi invitiamo a fare lo stesso, come potete. 

giovedì 28 novembre 2019

L'Antagonista

Una riflessione semplicemente seria sul problema della democrazia rappresentativa


Chiedo ai miei lettori di considerare quanto segue: posto un sistema democratico in cui ogni voto concorre a scegliere i rappresentanti del popolo con funzione legislativa e/o di governo (e indirettamente nella funzione giudiziaria), che cosa succede qualora i rappresentanti tradiscano sistematicamente la volontà del popolo?


La teoria che ci hanno sempre propalato era che un governo o legislazione sgradita al popolo sarebbe stata rimossa dal voto successivo, occasione in cui il popolo avrebbe scelto altri rappresentanti con la speranza di invertire la rotta del precedente malgoverno. Sempre secondo questa teoria la "punizione" di essere esclusi dalle competizioni elettorali tramite la non scelta e il "premio" di essere scelti qualora si sostenessero i desideri del popolo dovevano garantire nel tempo un ciclo virtuoso in cui rappresentanti sempre più capaci di rendere felice la massa avrebbero mantenuto le posizioni di potere e comando, mentre quelli più impopolari sarebbero stai ignorati dalle urne a ogni nuova candidatura.


Invece non sta andando affatto così. Poiché da decenni assistiamo a sfilze di governi e leggi impopolari senza che il voto successivo abbia alcun effetto. Come mai? Cosa succede in sintesi? In sintesi succede che un governo impopolare viene sostituito da un nuovo governo che si rivela altrettanto impopolare e che viene sostituito con una serie di successivi "voti di protesta" a altrettanti ricambi senza frutto, in cui nuove facce si comportano allo stesso modo dei predecessori. In teoria, per procedere nel nostro ragionamento, depuriamo pure questo sistema da ogni ipotesi di riciclaggio dei politici sgraditi. Ossia per comodità e semplicità immaginiamo che esista un sostanziale ricambio della classe dirigente. Eppure accade ancora che nulla cambi? Come mai? Come mai chi arriva al potere si comporta invariabilmente come chi lo ha preceduto, se non peggio, nonostante sia sicuro di essere eliminato dalle competizioni elettorali al prossimo giro? 


Ragione n.1

La riffa del potere conviene a tutti i candidati (ma non al popolo), come nel gioco d'azzardo


Ciò accade perché semplicemente in un sistema in cui la popolazione è sempre più numerosa dei possibili ceti dirigenti ci saranno sempre invariabilmente nuovi candidati al potere. I pessimi governanti non si esauriscono mai; e almeno al primo e unico giro in cui dovessero aver successo incassano già il premio di 3-5 anni di potere e rendite. Se ci pensate è il motivo per cui nessuno si stanca delle lotterie o riffe: ogni settimana ci sono nuovi premi - garantiti dal fallimento del 99,9999999% dei giocatori - e ogni settimana una persona nuova può sperare di essere milionario; e se non riesce ora, ci riprova ancora e ancora e ancora... Eliminare gli sgraditi dalla possibilità di essere scelti quindi è una "punizione" inefficace. Mentre almeno una volta, in caso di elezione, essi vincono sempre. Alla peggio non si viene eletti ma niente vieta di candidarsi al prossimo giro. Questa condizione non è mai cambiata e era costante anche nei regimi non democratici, o di antico regime, o primitivi... Gli aspiranti al potere sono sempre più dei potenti in carica, numericamente.


Ragione n.2

Non esiste alcuna seria punizione per il malgoverno


Attenzione, non stiamo parlando di reati o illeciti commessi dalla classe dirigente. Parliamo di semplici "scelte sbagliate" che procurano un danno al popolo. Chi sceglie male attualmente non rischia nulla se non un semplice malcontento. In tal caso egli scende dalla poltrona al nuovo giro elettorale con in tasca un bel gruzzolo, che comunque basta a una vita serena e sicura, e semplicemente esce di scena. Ci sono solo premi ma non punizioni vere, concrete. Un tempo non era così: la perdita del potere politico comportava sempre serie conseguenze come la prigionia o la morte, l'eliminazione fisica o almeno, nel migliore dei casi, la povertà più abietta se non la riduzione in schiavitù da parte del vincitore. Il punto e il difetto più grande del sistema democratico moderno è esattamente questo: chi governa male e perde il potere non rischia assolutamente niente.  Sa di potersi allegramente permettere il fallimento, il suo licenziamento è assolutamente privo di conseguenze, dato che la remunerazione dei politici è fuori scala in ogni paese democratico rispetto alle rendite del popolo. Questa condizione si è verificata solo con il nazionalsocialismo ed il fascismo al potere; ma non con il comunismo recentemente imploso. Da allora non è mai accaduto che un politico pagasse con la vita le sue scelte contrarie al popolo o contrarie al suo nemico personale (salvo recentemente Saddam Hussein, Gheddafi e Osama Bin Laden). In pratica manca l'antagonista reale al potere: la prospettiva di annientamento a seguito della perdita del potere stesso


Ragione n. 3

C'è un premio che noi tendiamo a ignorare. E rinforza le condotte pessime, non quelle virtuose


Non solo, poiché esistono delle lobby e delle minoranze così ricche da disporre di ingentissimi capitali, esse possono - e hanno di fatto - suggerito ai politici la strada maestra per continuare con il sistema democratico senza danno e senza oneri, ma solo vantaggi. I politici invariabilmente seguono i desideri di queste minoranze che se ne avvantaggiano pienamente ai danni del resto del popolo. Se governano male - per il popolo -  riceveranno da questi plutocrati delle briciole prima, durante, e dopo il loro mandato. Essendo la disponibilità di ricchezze spropositata, questa plutocrazia può tranquillamente permettersi di regalare la bella vita a ogni politico anche dopo uno o più mandati fallimentari in cambio della sua obbedienza totale. Il costo è irrisorio, il vantaggio è enorme: governare male senza essere neanche direttamente responsabili del malgoverno. Questo premio non solo fa sì che ogni politico possa infischiarsene bellamente di quanto il popolo vuole o desidera, tanto non è realmente premiato dal popolo per questo, oltretutto non sarà mai punito per le ragioni 1 e 2; ma consente alla plutocrazia di disporre di un'infinita riserva di politicanti disposti a prestarsi serenamente al tradimento che conviene loro perché allo stipendio previsto dalla legge si aggiunge questo premio extra che non figura in alcuna costituzione o legge! Il voto è un rituale inutile e un'arma inefficace, stante la mancanza di un contrappeso reale legato alla possibilità di essere annientati e stante la presenza di attori terzi che manovrano da dietro le quinte i politici come marionette.


Una riflessione sulla migliore politica non può che partire da queste essenziali e stringenti critiche alla democrazia rappresentativa tramite elezioni e voto. 

martedì 26 novembre 2019

Mito, rito e devozione

Viviamo in una società borghese e mercantilizzata, per molti sarà inutile ricordarlo ma farlo una volta in più non guasta di sicuro, una società che ha perso ogni slancio teso a qualcosa di più alto, che ha sostituito questa ricerca con la spasmotica caccia al profitto o ad una carriera vacua e foriera, nei migliori dei casi, di un semplice arricchimento economico.

L’uomo moderno, al contempo consumatore e prodotto di consumo, si dibatte quindi il proprio lavoro e la ricerca di ogni vacuo piacere facilmente raggiungibile, spesso per distaccarsi dalla propria esistenza, che in cuor suo percepisce come priva di veri legami e incapace di elevarsi al di sopra delle umane miserie. Non vi è esaltazione o ricerca del sacro, solo volontà di evasione, di identificarsi in un “altro” diverso da sé, per poche ore, che sia tramite la filmografia o la letteratura di consumo poco importa.


Ma è davvero questo il massimo a cui può tendere un uomo? 

No, non lo è, se lo fosse si spiegherebbe la disperazione nella quale versa l’abitante di questi tempi sventurati, ma questo nichilismo è frutto di falsità. 

L’uomo è nato per essere qualcosa di più che una semplice bestia da denaro e cibo spazzatura, e vi sono, per chi sa cercarli, esempi luminosi e saldi che è possibile ricercare e fare propri, vere armi spirituali contro la decadenza morale dei nostri tempi. 

Occorre ripartire dal mito, farne il punto focale della propria esistenza, donandogli centralità esso ci trasmetterà volontà di potenza e sapienza, i primi passi necessari al superamento della condizione in cui ci vorrebbe la società. Far proprio il mito, allenarsi fisicamente e spiritualmente innanzi ad esempi luminosi, è il primo passo, il più necessario perché il nostro destino possa realmente espletarsi.

Il passo successivo, quello del rito, ci deve portare ad approcciarci al sacro e agli Dèi, a ciò che è oltre questa nostra terra di mezzo, per suo tramite facciamo nostra la conoscenza delle basi e della disciplina necessarie all’uomo libero e saldo per poi arrivare a ciò che più conta nella nostra esistenza terrena: la devozione.


Devozione agli Dèi, al nostro sangue, alla nostra terra, alla nostra famiglia, ad una causa. Solo in essa, e nel suo assoluto mantenimento, il nostro percorso potrà dirsi realmente degno.

 

Hailaz Wodanaz! Hailaz agli Dèi immortali!

venerdì 15 novembre 2019

Lotta eterna


Cosa siamo? Cosa vogliamo?

In molti ci avete chiesto queste cose, ed i molti di più ci avete criticato aprioristicamente per questo. 

Noi siamo araldi del culto eterno, nulla di più e nulla di meno. Noi celebriamo gli Dèi e il sangue, l’esaltazione e la lotta per qualcosa di più grande. Non siamo diplomatici, non siamo democratici, siamo ciò che siamo perché i nostri antenati erano ciò che erano. 

Siamo soldati spirituali, disposti a tutti perché il culto eterno torni a risplendere e perché ogni cosa sia come deve essere. 

Contro ogni ateismo, contro ogni materialismo o capitalismo. Noi andiamo oltre, non cerchiamo ciò che è mera utilità personale ma lottiamo ed amiamo per ciò che è eterno.

Dèi, sangue, suolo, forza. 

Solo questo importa, non ci interessiamo di menate per poveri di spirito, non vogliamo piacere a chiunque ma selezionare solo coloro che davvero possono rappresentare la futura élite, capi in grado di guidare le nostre genti in una nuova ed eterna età dell’oro. 


Uomini liberi, innanzi agli Dèi. 


Hailaz Wodanaz! 

giovedì 14 novembre 2019

Sceafa, parte IV

A parer mio, partendo dall’interpretazione etimologica che il filologo tedesco Karl Müllenhoff restituisce di Beow figlio di Scyld Scefing, è possibile fondere in un unicum compatto le due posizioni precedentemente esposte; entrambi i punti di vista si ricollegano ad un Leitmotiv tipicamente germanico, l’affiancare simboli che manifestano volontà di comando e protezione ( e.g. Scyld, nome che deriva dal sostantivo anglosassone ‘sċield’ ossia “scudo” ) a simboli che incarnano la prosperità agricola ( e.g. Scēf, nome che deriva dal sostantivo anglosassone ‘sċēaf’ ossia “covone” & Beow, nome che deriva dal sostantivo anglosassone ‘beow’ ossia “orzo” ). Ecco che il terzetto Scyld, Scēf, Béow si configura come triade primigenia di divinità legate alla protezione, all’unità ed alla fertilità che presenta immediata somiglianza alla triade Þórr - Óðinn - Freyr del tempio di Ubsola di cui ci parla Adam Bremensis nelle ‘Gesta Hammaburgensis ecclesiæ Pontificum’. 
La natura di questa triade spiegherebbe la presenza in un documento così antico come il poema Widsið del longobardo Sceafa; questi non sarebbe altro che la riproposizione in chiave longobarda dello Scēf che è mitico iniziatore e custode dell’ordine della stirpe in quanto covone che racchiude e trattiene in sé numerose spighe che altrimenti andrebbero sparse qua e là.

Ecco che si è aggiunto l’ultimo tassello che descrive la natura di Sceafa il longobardo; da figura mitica va a cristallizzarsi in una dimensione storica.
Ad ulteriore supporto di questa tesi seguirà l’analisi di alcuni passi delle genealogie dei re
anglosassoni. Iniziamo dunque con il ‘Chronicon Æthelweardi’ ( i.e. “Cronaca di Æthelward”, redatto fra il 975 ed il 983 ) dove nella sezione del libro terzo dedicata ad Æthelwulf ( i.e. sovrano del Wessex, padre del futuro re Alfred e figlio di re Egbert ) è contenuto il seguente passo dove viene presentata l’origine di Scef, padre di Scyld ed avo di Geat:

Anno 857

Denique post annum Athulf rex obiit, cuius corpus requiescat in urbe Vuintona. Igitur præfatus rex fuit filius Ecgbyrthi regis, cuius auus Ealhmund, proauus Eafa, atauus Eoppa, abauus Ingild, Ines frater, Occidentalium Anglorum regis, qui Romæ finierat uitam, traxeruntque supra dicta reges a Cenred rege originem. Cenred fuit filius Ceoluuald. Auus [1] quippe eius Cuthuuine [2], proauus Ceaulin, atauus Cynric, abauus Cedric, qui et primus possessor Britanniæ partis occidentalis superatos exercitus Brittannorum, cuius pater fuit Elesa, auus Elsa, proauus Geuuis, atauus Vuig, abauus Freauuine, sextus pater eius Frithogar, septimus Brand, octauus Balder, nonus Vuothen, decimus Frithouuald, undecimus Frealaf, duodecimus Frithouulf, tertius decimus Fin, quartés decimus Godulfe, quintus decimus Geat, sextus decimus Tetuua, septimus decimus Beo, octauus decimus Scyld, nonus decimus Scef. Ipse Scef cum uno dromone aduectus est in insula oceani que dicitur Scani, armis circundatus, eratque ualde recens puer, et ab incolis illius terræ ignotus. Attamen ab eis suscipitur, et ut familiare diligenti animo eum custodierunt, et post in regime eligunt; de cuius prosapia ordinem trahit Aðulf rex. Transmeatusque est tunc numerus annorum quinquagessimus quintus, ex quo Ecgbyrth cepit regnare. 

- Chronicon Æthelweardi, libro III, anno 857

che tradotto suonerebbe più o meno così:

Infine, dopo un anno re Æthelwulf morì, il suo corpo riposa nella città di Winchester. 
Ora, il suddetto re fu figlio del re Egbert, suo avo [fu] Elmund, suo bisavolo [fu] Eafa, suo trisavolo [fu] Eoppa, suo bisarcavolo [fu] Ingild, fratello di Ina, re degli Angli Occidentali, che a Roma finì la [sua] vita; e i suddetti re ebbero origine da re Cenred. Cenred fu figlio di Ceolwald. In più suo avo [fu] Cuthwin, suo bisavolo [fu] Ceawlin, suo trisavolo [fu] Cynric, suo bisarcavolo [fu] Cedric, il quale - sconfitta l’armata dei Britanni - fu il primo signore delle parti occidentali della Britannia; suo padre fu Elesa, suo avo [fu] Elsa, suo bisavolo [fu] Gewis, suo trisavolo [fu] Wig, suo bisarcavolo [fu] Freawin, figlio di Frithogar, figlio di Brond, figlio di Beldeg, figlio di Woden, figlio di Frithowald, figlio di Frealaf, figlio di Frithuwulf, figlio di Finn, figlio di Godwulf, figlio di Geat, figlio di Tætwa, figlio di Beaw, figlio di Scyld, figlio di Scef. 
Questo Scef fu portato su una lunga nave in un’isola dell’Oceano che è detta Scani, cinto di armi, ed era poi un giovane fanciullo, ed ignoto agli abitanti di quella terra. Ciononostante fu da questi accolto, e come loro familiare - con animo diligente - lo custodirono, e più in là lo elessero loro sovrano; da questa stipe il re Æthelwulf trasse la discendenza. A quel tempo si concluse il cinquantacinquesimo degli anni dal quale Egbert prese a regnare.

Ecco che Scef viene presentato come sovrano di coloro che abitavano l’isola di Scani, il cui nome non viene riportato da Æthelward.

È possibile però rifarsi al passo del libro IV delle ‘Gesta Regum anglorum’ ( i.e. “Gesta dei re Angli”, completato nel 1125 ) di quel William di Malmesbury che si riteneva erede di Beda il Venerabile ( i.e. monaco anglosassone che a buon diritto viene considerato padre della storiografia inglese, nacque intorno al 672/3 e morì il 26 Maggio 735 ) e che desiderava riempire quei buchi che erano rimasti nella storiografia anglosassone dalla morte di Beda sino ai suoi giorni. 
Nel redigere la sua opera egli attinse al patrimonio storiografico precedente; si ispirò alla ‘Vita Ælfredi regis Angul Saxonum’ ( i.e. “Vita di Alfred re degli Anglosassoni”, risalente al 893 c.ca ) del monaco Asser ( i.e. termine ebraico, usato ad esempio nel secondo libro di Ester, che sta per “beatitudine” ) come anche all’opera di Æthelward. Da quest’ultima riprese la narratio dell’arrivo di Sceaf e la inserì, come in precedenza aveva fatto lo stesso Æthelward, nella genealogia di re Æthelwulf seppur mutandone alcune parti.

[…] Sceldius Sceaf. Iste, ut ferunt, in quandum insulam Germanniæ Scandzam, de qua Jordanes historiographus Gothorum loquitur, appulsus naui sine remise puerulus, posito ad caput frumenti manipulo dormiens, ideoque Sceaf nuncupatus, ab hominibus regionis illius pro miraculo exceptus et sedulo nutritus, adulta ætate regnauit in oppido quod tunc Slaswic, nunc uero Haithebi appellatur. Est autem regio illa Anglia Vetus dicta, unde Angli uenerunt in Britannia, inter Saxones et Gothos constituta. Sceaf fuit filius Heremodii; Heremodius Stermonii; Stermonius Hadræ; Hadra Gwalæ; Gwala Bedwegii; Bedwegius Strefii ( hic, ut dicitur, fuit filius Noe in archa natus ).

- Gesta Regum anglorum. libro IV

La traduzione di questo passo segue ora:

[…] Sceld di Sceaf. Questo Sceaf, come raccontano, approdato appena fanciullo su quell’isola della Germania [detta] Scandza, di cui parla lo storico dei Goti Jordanes, con una barca senza rematori, dormiente con un fascio di frumento posto vicino al capo - per questo venne chiamato Sceaf - dopo essere stato accolto dagli uomini di quella regione come un prodigio degli dei e diligentemente nutrito, in età adulta regnava su quella città che ora è chiamata Hedeby ma che allora [era nota come] Slaswic. Proprio quella regione è detta Old Anglia, dalla quale gli Angli giunsero in Britannia, stretta fra Sassoni e Goti. Sceaf fu figlio di Heremod,; Heremod di Stermon; Stermon di Hathra; Hathra di Gwala; Gwala di Bedwig; Bedwig di Streph ( questi, si dice, fu figlio di Noè nato sull’arca ).

Tralasciando l’indiretta citazione dell’opera di Asser ( i.e. ‘hic, ut dicitur, fuit filius Noe in archa natus’, “questi, si dice, fu figlio di Noè nato sull’arca” ) e l’accenno al fascio di frumento che contraddice la versione di Æthelward che vede il piccolo Scef attorniato da armi, è importante notare come qui William di Malmesbury sostituisca il sostantivo ‘Scani’ di Æthelward con ‘Scandza’. 
Non è un caso che all’inizio del primo libro della ‘Origo Gentis Langobardorum’ ( i.e. “Origine della stirpe dei Longobardi” ) sia citata come sede di origine del popolo longobardo un’isola il cui nome, Scadanan, è affine a Scandza:

Est insula qui dicitur scadanan, quod interpretatur excidia, in partibus aquilonis, ubi multae gentes habitant […]

- Origo Gentis Langobardorum, libro I

ossia:

Nelle zone molto settentrionali vi è un’isola che è detta Scadanan, traducibile con ‘tramonti’, dove vivono molte stirpi […]

Ecco che si riaffaccia ancora un possibile legame fra Sceaf e la stirpe longobarda, la quale, secondo quanto sinora riportato, lo accolse “come un prodigio degli dei”. Sceaf sembrerebbe dunque avere forti legami con il divino; ecco che le asserzioni fatte in precedenza sulla natura mitico divina di Sceaf e sul suo legame al mondo agreste ricevono ulteriore conferma.

L’ultima attestazione in ambito medievale anglosassone di Sceaf e di suo figlio Scyld coincide con un diploma genealogico del secolo XV stilato per il re Enrico VI nel quale il riferimento alle figure di Sceaf e di Scyld è duplice. 
Nel diploma vi è uno stemma araldico che mostra Steph ( i.e. Sceph, ossia Sceaf ) come padre di Steldius ( i.e. Sceldius, ossia Sceld/Scyld ), il quale a sua volta era padre di Boerinus, che a sua volta era padre di “Cinrinicius, Gothus, Jutus, Wandalus, Gethius, Fresus, Suethedus, Dacus et Geate”, ossia dei progenitori di tutte le stirpi germaniche che allora risiedevano nella Scandinavia e nella Mitteleuropa.
Oltre allo stemma vi è poi una glossa il cui testo in latino ripropone quanto in precedenza detto:

Iste Steldius primus inhabitator Germaniæ fuit. Que Germania sic dicta erat, quia instar ramorum germinancium ab arbore, sic nomen regnaque germania nuncupantur. In nouem filiis diuisa a radice Boerini geminauerunt. Ab istis nouem filiis Boerini descenderunt nouem gentes septentrionalem partem inhabitantes, qui quondam regnum Britannie inuaserunt et optinuerunt, videlicet Saxones, Angli, Iuthi, Daci, Norwagences, Gothi, Wandali, Geathi et Fresi.

che tradotto suonerebbe più o meno così:

Questo Steldius fu il primo abitante della Germania. In più la Germania fu così chiamata, a guisa dei rami che si sporgono da un albero; in tal maniera il nome ed i regni sono chiamati germania. Riguardo a quei nove figli originatisi dalla radice di Boerin, essi si moltiplicarono. Da questi nove figli di Boerin discesero le nove stirpi che vivono nella regione settentrionale, le quali un tempo invasero e tennero il regno di Britannia, ossia i sassoni, gli Angli, gli Juti, i Dani, i Norvegesi, i Goti, i Vandali, i Geati ed i Frisoni.

In conclusione, da quanto sinora detto, Scyld e Sceaf sono figure appartenenti ad un mito fondativo legato all’antico passato germanico che rimane avvolto nelle nebbie della Storia.


Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

- Testi in traduzione inglese online:
- Testi in latino online:

lunedì 11 novembre 2019

Sceafa, parte III

Uno Scēf è poi indirettamente menzionato al verso 4 del prologo del Beowulf, prologo che ha funzione didascalico introduttiva dacché nei suoi 52 versi narra le gesta dei ‘gar-Dena’ ( i.e. “Dani delle lance” ); fra questi risalta un certo Scyld Scefing che nei versi 18 e 19 sembra essere presentato come padre di Beowulf.
Prima di presentare quei versi del prologo che introducono la figura di Scyld Scefing è necessario chiarire come in realtà il Beowulf figlio di Scyld non coincida affatto con il protagonista eponimo del poema; questi è quel Béowulf Scyldinga che nelle cronache genealogiche anglosassoni viene presentato come Beow(a) o Béaw - nel manoscritto Parker della Cronaca anglosassone del secolo IX il figlio di Scyld ha nome Beaw. John M. Kemble vide questa diacronia come un errore di un copista il quale, conoscendo superficialmente il poema epico ed il suo protagonista, decise di rettificare Beow in Beowulf anticipandone l’ingresso in scena; Kevin S. Kiernan in tempi recenti è arrivato a sostenere che le diverse lectiones restituite dal prologo del Beowulf e dal manoscritto Parker in merito all’identità del figlio di Scyld siano da ascriversi a due differenti tradizioni epiche di cui una a più vasta diffusione era incentrata sulla figura di Beowulf.
Ciò che realmente è importante ai fini della nostra narrazione è l’interpretazione etimologica che il filologo tedesco Karl Müllenhoff restituisce del nome Beaw ( o Beow ); egli lega il suddetto alla radice protogermanica *bhú che in anglosassone ha dato origine al verbo būan ( i.e. “coltivare” ) inerente alla sfera agreste. Ancora, il sostantivo anglosassone dal quale deriva il nome Beow è ‘beow’ ( i.e. “orzo”, dal protogermanico *bewwu ) ed è anch’esso legato al mondo agricolo e per questa ragione viene identificato da Müllenhoff con il dio Ing e dunque con Fréa ( i.e. anglosassone per Freyr ).
Presentiamo ora i versi che ci interessano:

Oft Scyld Scefing sceaþena þreatum,
monegum mægþum meodosetla ofteah,
egsode eorl[as], syððan ærest wear.
feasceaft funden; he þæs frofre gebad,
weox under wolcnum weorðmyndum þah,
oð þæt him æghwyle ymbsittendra
ofer hronrade hyran scolde;
gomban gyldan; þæt wæs god cyning!

- Beowulf, Prologo, versi 4-11

che tradotto suonerebbe più o meno così:

Spesso Scyld Scefing a schiere ( i.e. þreatum, dativo plurale di þrēat ) di nemici ( i.e. sceaþena, genitivo plurale di sceaþa ),
a molte ( i.e. monegum/manegum, dativo plurale dell’aggettivo maniġ ) nationes ( i.e. mægþum, dativo plurale di mægþ ) sottraè ( i.e. ofteah, terza persona singolare del præterito di ofteon verbo che regge come oggetto il genitivo plurale di meosetl, ossia meodosetla ) le panche dell’idromele,
terrorizzò guerrieri, dopo che fu trovato
derelitto, di questo ebbe conforto,
fu grande sotto il cielo, prospero d’onori
finché a lui le genti tutt’intorno
oltre la via della balena dovettero obbedienza,
pagarono tributo; fu un grande re.

- NB. i primi due versi sono tradotti ed analizzati dall’autore dell’articolo, i restanti vengono dalla seguente traduzione:
http://www.maldura.unipd.it/dllags/brunetti/OE/TESTI/Beowulf/DATI/testotra.html

Ecco che al verso 4 affianco al nome proprio Scyld compare il termine Scefing, composto da Scēf e dal suffisso -ing. Sulla natura di questo composto si sono interrogati molti studiosi dacché il suddetto suffisso, derivante dal protogermanico *-ingaz, in ambito anglosassone è solito dare origine a forme derivate di nomi maschili aventi funzione di patronimico o più raramente, in tempi arcaici, di epiteto. Due sono le correnti di accademici che tutt’ora si fronteggiano sulla funzione che il suffisso -ing assegna al nome Scēf.
Secondo alcuni il suffisso -ing darebbe origine ad un nome avente funzione di patronimico e dunque il termine Scēf andrebbe a coincidere con il nome del padre di Scyld e quindi ‘Scyld Scefing’ andrebbe tradotto come “Scyld, figlio di Scēf”; se questo Scēf abbia o meno qualche legame con lo Sceafa a cui accenna il Widsið è tutto da dimostrare. Stando alle poche informazioni dirette che le fonti ci restituiscono, entrambi questi personaggi avrebbero guidato/regnato su popoli votati alla guerra ed entrambi avrebbero portato ordine fra la loro gente ma null’altro si può dire oltre questo senza un’analisi più approfondita delle fonti, analisi che compiremo a breve.
Secondo un gruppo ristretto di studiosi il suffisso -ing andrebbe invece a creare un epiteto di Scyld dall’oramai noto sostantivo maschile ‘sċēaf’ ( i.e. “covone” ); ecco che in questa prospettiva ‘Scyld Scefing’ andrebbe tradotto come “Scyld del covone”. Quanto appena detto è in aperta opposizione con le teorie di Raymond W. Chambers secondo le quali Scyld e Scēf sarebbero due distinte figure, arcaici fondatori di dinastie famose.



Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
https://archive.org/details/beowulfintroduct00chamrich
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
https://archive.org/details/atranslationang00kembgoog
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

Sceafa, parte II

Partendo da questi presupposti analizziamo ora il passaggio del primo þula nel quale viene menzionato il sovrano longobardo di nome Sceafa

Sigehere lengest Sædenum weold,
Hnæf Hocingum, Helm Wulfingum,
Wald Woingum, Wod Þyringum,
Sæferð Sycgum, Sweom Ongendþeow,
Sceafthere Ymbrum, Sceafa Longbeardum,
Hún Hætwerum & Holen Wrosnum [...]

- Widsið, þula I, versi 28-33


che tradotto suonerebbe più o meno così

Sigehere più a lungo regnò sui Dani del mare,
Hnæf sugli Hocing, Helm sui Wulfingas ( i.e. Ylfingar ),
Wald sui Woingas, Wod sui Þyringi,
Sæferð sugli Sycgans, Ongendþeow sugli Sweonas ( i.e. Sueoni o Svear),
Sceafthere sugli Ymbran, Sceafa sui Longobardi,
Hun sugli Hætwere e Holen sui Wrosnan [...]


Seppure Sceafa qui sia appena citato è possibile fare ipotesi sul suo ruolo in seno ai Longobardi; questi ultimi, all’epoca in cui si presume regnasse Sceafa, risiedevano in quella regione posta fra il fiume Weser ed il basso Elba. I Longobardi vivevano dunque a sud degli Angli ed ad est dei Sassoni ed erano, per un certo grado, separati dai germani del Nord che abitavano l’odierne Danimarca, Svezia e Norvegia; la presenza in ambito onomastico longobardo del nome anglosassone ‘Sceaf’ è espressione di quel substrato culturale comune a Longobardi e Sassoni di cui si parla nell’Historia Langobardorum. È necessario però notare come in ambito anglosassone il suddetto nome sia etimologicamente legato all’ambito agricolo; il sostantivo ‘sċēaf’ rimanda alle messi.
I Longobardi sui quali Sceafa regnava vennero descritti da Velleio Patercolo ( i.e. storico romano del secolo I ) come “gens etiam Germana ferocitate ferocior” ossia come una ‘stirpe ancor più ferina della ferinità germanica’; sempre nel secolo I lo storico Tacito li descrisse così “Contra Langobardos paucitas nobilitat: plurimis ac valentissimis nationibus cincti non per obsequium sed proeliis et periclitando tuti sunt” che tradotto ‘Al contrario [dei Suebi], lo scarso numero nobilita i Longobardi: circondati da molti e valenti popoli trovano la loro sicurezza non nell’obbedienza bensì nei conflitti e nell’esporsi al pericolo’. Entrambe le fonti concordano sulla natura guerriera di questo popolo sul quale Sceafa ‘weold’ ( i.e. terza persona singolare del præterito del verbo ‘wealdan’ il cui significato è indubbio, “regnare” o “guidare”, ed è legato al comando militare tipico dei ‘bretwaldan’ ossia dei signori di uomini del secolo V ); non abbiamo altre informazioni oltre il nome ed il fatto che fosse a capo dei Longobardi eppure queste sono sufficienti per delineare l’essenza di questa sfuggente figura.
Riallacciandoci alle cronache anglosassoni di cui parleremo poi, si può ipotizzare che Sceafa fosse un signore di uomini di stirpe semidivina, con buone probabilità persino antecedente ai due figli di Gambara ( i.e. Ibor ed Aion ) riconosciuti dalle fonti peninsulari come i primi mitici re longobardi.
Ecco che l’etimologia del nome Sceafa, dipendente dal sostantivo agricolo ‘sċēaf’ ( i.e. “covone” ) come anche dal sostantivo ‘sceafa’ ( i.e. “[strumento] che rasa”, spesso interpretato come falce ), assume una valenza particolare; Sceafa equivarrebbe a quella figura atemporale e metastorica avente valenza unificante ed ordinatrice - il covone riunisce in sé numerose spighe che altrimenti andrebbero sparse qua e là - che portò fra i Longobardi l’aratura divenendone così il primo signore di uomini essendo già signore del suolo.


Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
https://archive.org/details/beowulfintroduct00chamrich
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
https://archive.org/details/atranslationang00kembgoog
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

Sceafa, parte I


In ambito peninsulare vi sono due fonti nelle quali sono riportate le varie figure che regnarono sul popolo longobardo; la più antica fu redatta nel secolo VII da un anonimo ed è nota con il nome di ‘Origo Gentis Langobardorum’ ( i.e. “Origine della stirpe dei Longobardi” che dalle origini arriva a trattare il secondo regno del sovrano Perctarit, nel testo latino Pertarito, del 671-688 ) mentre la più recente risale all’ultima metà del secolo VIII e fu redatta dal longobardo Paul Warnefried, la ‘Historia Langobardorum’ ( i.e. “Storia dei Longobardi” che dalle origini arriva sino al 744, anno della morte del re Liutprand ).
Da entrambi questi “cataloghi” di regnanti longobardi è assente però Sceafa, figura delle origini, che viene invece citata in ambito epico anglosassone - nel poema ‘Widsið’ ( i.e. “lungo viaggio”, è il nome del protagonista dell’opera ) e forse anche nel ‘Beowulf’ - e sembra trovare più di un riscontro nelle genealogie dei re anglosassoni quali il ‘Chronicon Æthelweardi’ ( i.e. “Cronaca di Æthelward”, redatto fra il 975 ed il 983 ) e le ‘Gesta Regum anglorum’ ( i.e. “Gesta dei re Angli”, completato da William di Malmesbury nel 1125 ).
Al fine di comprendere al meglio la figura di Sceafa è necessario compiere un’analisi separata delle fonti sopra elencate in base al genere letterario delle suddette.

Iniziamo dunque con l’analisi dei due poemi epici anglosassoni.
Entrambi i due poemi attingono ad un sostrato di memoria storica proprio dell’immaginario germanico ossia quel periodo di due secoli che va dalle incursioni delle orde unno-alaniche e la conseguente morte del sovrano grutungo Ermanaric - noto come *Aírmanareiks in lingua gota - che nel 375 aveva cercato di opporvisi sino all’inizio della conquista longobarda della penisola italiana operata da Alboin nel 658-659 alla quale avrebbero dovuto partecipare gli stessi Sassoni.

NB. Non è un caso che le fonti anglosassoni facciano menzione di una figura legata all’universo longobardo dacché, come lo stesso Paul Warnefried afferma nella sua opera, il popolo sassone e quello longobardo avevano molto in comune. Basti pensare allo stesso nome longobardo Alboin, composto derivante dai due termini del protogermanico *albiz ( i.e. “elfo” ) e *winiz ( i.e. “amico” ); esso presenta una variante anglosassone, Ælfwine, presente al verso 70 del Widsið.

Nel Widsið viene menzionato un sovrano longobardo noto come Sceafa, nome che sembra avere forti legami etimologici con lo Scēf di cui accenna il prologo del Beowulf. Nonostante questo legame - entrambi i nomi sono legati al sostantivo anglosassone ‘sċēaf’ ( i.e. “covone” ) - alcuni studiosi, fra i quali vi è Alexander M. Bruce, sono inclini a ritenere che Sceafa e Scēf siano due figure distinte; seppur di non secondaria importanza la questione verrà approfondita in seguito dacché ai fini della spiegazione è necessario prima di ogni altra cosa analizzare la datazione e la natura dei due poemi epici.
Il Widsið, databile fra la fine del secolo VI e gli inizi del secolo VI, contiene al suo interno tre ‘þulas’ ( i.e. “cataloghi” ) incentrati sulle figure di re ed eroi fra le quali spicca la figura di Alboin a cui il protagonista accenna nel descrivere la discesa longobarda in Italia della seconda metà del secolo VII. Da qui è naturale affermare che questi þulas vennero progressivamente ampliati nel periodo di poco precedente alla canonizzazione del poema, canonizzazione che sembra coincidere con la messa per iscritto del poema che in seguito a questa si cristallizza. Buona parte dei 143 versi che compongono il poema è senza alcun dubbio antica, difficile è stabilire quanto queste sezioni siano antiche e se queste siano antecedenti o meno al Beowulf; secondo Raymond W. Chambers il primo þula del Widsið - quello che accenna a Sceafa per intenderci - è con buone probabilità il più antico frammento di poesia anglosassone, antecedente di alcune generazioni al Beowulf che egli data intorno al 700. Alla stregua di Chambers, Kemp Malone ritiene che la terminologia arcaica e la struttura sintattica leghino indissolubilmente la canonizzazione del poema alla fine del secolo VII, sul principiare dell’epoca di Bede il Venerabile. Altri studiosi come John Niles ritengono che l’opera sia posteriore al regno di re Ælfrēd il Grande e dunque al secolo IX e che fosse stata redatta come strumento di propaganda al fine di giustificare, mostrando un’origine comune delle genti anglosassoni, l’unificazione dei regni dell’eptarchia anglosassone nel regno di Inghilterra avvenuta nei primi del secolo X. Inutile dire che l’autore di questo articolo rigetta in toto quest’ultima ipotesi e sposa la precedente dacché nessun dotto anglosassone della fine del secolo IX avrebbe potuto falsificare fin nelle minuzie uno stile scrittorio ormai da tempo desueto; anche se così fosse di certo non avrebbe usato uno stile desueto allo scopo di redigere un’opera di propaganda che proprio per questo sarebbe risultata di non facile fruizione per la gran parte della nobiltà anglosassone alla quale, secondo il Niles, tale opera era destinata.
Parte del materiale al quale attinge il Widsið sembra essere più antico di quello del Beowulf; nonostante gli studiosi continuino a dibattere su quale fra questi due scritti sia stato il primo a canonizzarsi in forma scritta, la precedente affermazione ha un elevato grado di veridicità come sostiene lo stesso Chambers nella prima sezione dell’opera ‘Beowulf, an introduction to the study of the poem’.


Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
https://archive.org/details/beowulfintroduct00chamrich
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
https://archive.org/details/atranslationang00kembgoog
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

domenica 10 novembre 2019

Le vie di Wodanaz speciale Weltanschauung

Il consueto benvenuto a voi che seguite il nostro progetto, eccovi il nostro nuovo pdf, dedicato a quella che è la nostra visione del mondo.
Che gli Dèi vi guidino.

-La redazione de Le vie di Wodanaz

https://drive.google.com/file/d/1u1TJfxK8cMpbKLuP-tGppkzmM9giOVlQ/view?usp=sharing

sabato 2 novembre 2019

Tauromachia antica e moderna

O sull’anemia dell’onore occidentale


La taurocatapsia antica, diffusa dal mediterraneo all’india, che prevedeva il salto di un toro o di un uro da parte di un giovane aveva un significato rituale molto potente ed era legata a pratiche religiose connesse agli antichi culti indoeuropei, si trattava di una prova di forza e coraggio, di un scontro fra pari tra l’uomo e l’animale in cui l’atleta accettava un forte rischio personale.

Era anche, allo stesso modo, un’offerta, l’accettazione della possibilità di un tributo di sangue.

Era una prova riservata solo ai migliori, ai giovani, a coloro che più erano cari agli Dèi.

La tauromachia, evoluzione o differenziazione della taurocatapsia, prevedeva in origine lo scontro fra un giovane, a cavallo o a piedi, ed un toro, senza intermediazioni, ed era anch’essa espressione di ideali di coraggio e onore.

Con l’avanzare della “civiltà” e l’indebolimento dei valori di cui sopra altri elementi si aggiunsero alla pratica, i partecipanti diventarono più numerosi mentre il toro iniziò ad essere indebolito o reso meno pericoloso con stratagemmi di ogni genere fino ad arrivare alla sua rappresentazione attuale, volgarmente detta corrida.

La toreada, divisa in tre parti, le prime due (tercio de varas, tercio de banderillas) hanno il compito di indebolire il toro, ferendolo e stancandolo mentre la terza (tercio de muleta) è la fase finale, nella quale il toro, ormai spossato, viene finito (o, talvolta, risparmiato).

Si tratta, in definitiva, di una versione edulcorata del rito originale, una parodia vigliacca di quello che, un tempo, era uno scontro rituale e leale fra l’uomo ed un fiero animale e va per questo condannata, senza alcuna esitazione, da quanti propugnano una società sana.