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giovedì 13 giugno 2019

Culto eterno

I cristiani ci accusano di essere un culto di rottura, di rompere quindi la tradizione.
Loro, che hanno rinnegato tutto ciò che vi è di più sacro e vero per abbracciare una monolatria estranea alle nostri genti, loro che hanno distrutto templi, perseguitato culti antichi quanto il mondo e insozzato qualunque cosa finisse sotto le loro manacce.
Sostengono di incarnare la tradizione, millantando una non meglio specificata continuità con i culti romani.
Inutile dire quanto le loro roboanti parole suonino vacue alle nostre orecchie, vuote come sono di significati profondi e buone appena per appestare l’aria.
Se tutto ciò che è stato costruito dall’uomo dovesse venire meno, se ogni edificio dovesse scomparire, se ogni scrittura venir meno, se tutto, in definitiva, tornasse a come è sempre stato cosa rimarrebbe del culto del Dio cristiano? Nulla, nemmeno il ricordo.
Quando il mondo dei primordi tornerà ad essere, l’uomo celebrerà ancora il sole nascente e onorerà in lunghe notti gli astri roteanti e gli Dèi immortali, danzando intorno al fuoco al ritmo ossessivo di tamburi di pelle di renna.
I cristiani sostengono di avere una tradizione lunga duemila anni, noi ne abbiamo una di centinaia e centinaia di migliaia.
Qualunque cosa facciano hanno già perso.

Il confronto come pratica

Saper difendere una posizione, sapersi imporre quando necessario, non dubitare di se stessi quando si è nel giusto. Sembrano nozioni elementari ma in quanti, fra voi che ci leggete, possono davvero sostenere di riuscire a fare tutte queste azioni?
Forse la metà, probabilmente meno, anche se credo di sperare che sia comunque una percentuale più alta rispetto alla media.

L’insicurezza, il timore del confronto e della lotta, sono caratteristiche tipiche dei nostri tempi, la scomoda ma inevitabile conseguenza di una vita comoda e morbida, nella quale gli ostacoli si possono evitare o superare con uno sforzo predeterminato.
Il miglioramento di sé però non può essere ottenuto che con la fatica, spirituale ma anche fisica.

Spirito e carne, sapere e forza, tutto è necessario.
Per meglio servire gli Dèi, se stessi e la propria terra.

A nulla serve un fisico possente se non comandato da una mente acuta, lo stesso si può dire di una mente brillante che, qualora ne avesse l’opportunità, decidesse di non dedicarsi alla cura del proprio corpo.
Occorre fare propri questi principi ed espletarli al meglio delle proprie possibilità, alternando studio e allenamento, esaltazione spirituale e fisica.

La sopravvivenza del culto arcaico in epoca cristiana

Articolo primo di una serie

Con questo scritto inauguriamo oggi una serie di articoli che si occuperanno di analizzare le sopravvivenze, nella cultura contadina europea, dei culti arcaici.
Dalla pianura padana al mar baltico, passando per la Germania e fino alle isole britanniche e ovunque in terra d’Eurasia le ritualità antiche sono sopravvissute, coperte appena, talvolta, da una polverosa patina desertica. Nonostante la spietata repressione operata dagli schiavi di Yhwh e dalle loro schiere ed il loro tentativo di appropriazione molto di questi riti sono giunti fino a noi, ed è nostra responsabilità preservarli per chi verrà dopo di noi.
Disprezzare le credenze contadine, solitamente in nome di un accademismo fine a se stesso, è quanto di più sbagliato chi segue la via antica possa fare. Non solo alle dorate epoche del culto pubblico deve andare il nostro pensiero ma anche ai secoli della lotta sotterranea e della preservazione, ruolo che venne svolto, nella maggioranza dei casi, dalla classe contadina e dalla piccola nobiltà di campagna, ovvero coloro che, lontano dalle città e dai miasmi del culto desertico, hanno potuto tenere viva la fiamma dell’antica fede.
Sta ora a noi, a tutti noi, fare in modo che i nostri piccoli fuochi tornino ad ardere con la forza che meritano tornando ad infiammare l’eurasia con la fede negli antichi culti.

In questo primo capitolo ci occuperemo di un’usanza peculiare, anche diffusa nella Sassonia inferiore nel secolo scorso.
Al termine della raccolta dei cereali la tradizione voleva che il proprietario terriero lasciasse un ultimo covone, solitamente di frumento ma molto probabilmente anche di altri cereali quali segale o orzo, sul campo.

Esso è consacrato a Woda (Woden), lasciato come cibo per il fiero destriero del Dio.
La preservazione del rito fino ad un’epoca recentissima ci ha permesso di sapere anche una preghiera che, solitamente, veniva pronunciata durante il rito.
La riportiamo in lingua originale, seguita da una traduzione, effettuata da noi e che potrebbe risultare imperfetta ad un occhio critico ma che, speriamo, possiate apprezzare.

Woda, Woda
Hal dinem Rosse nun Voder
Nu Distel unde Dorn
Achter Jar beter Korn!

Wotan, Wotan,
Prendi ora del cibo per il tuo destriero,
[Prendi per] oggi Cardo e Spina,
L'anno venturo [troverai] un raccolto migliore!

Impossibile, per chi si interessi seriamente alla via antica e abbia avuto modo di leggere gli incantesimi di Merseburgo, non trovarvi somiglianze.
Questo stralcio di fede originaria, sopravvissuto fino all’epoca moderna, è una testimonianza preziosissima, integrazione salutare a ciò che già conosciamo sulla fede dei nostri antenati.
Ne seguiranno altre, speriamo.
Nel caso siate a conoscenza di formule dedicate agli Dèi arcaici vi invitiamo a contattarci in pagina, questo blog, ed il progetto ad esso collegato, si regge prima di tutto sulla collaborazione fra chi scrive e chi legge.

Che gli Dèi vi proteggano.

Hailaz Wodanaz!

Urla

Mi sveglio, cerco la mia lancia. La trovo.
Luci rossastre nella notte, fuoco, fuochi.

Il nemico è qui. Decine di uomini, armati di torce, clave e lance, appiccano il fuoco, portano via carne e ossa, donne e bambini. D’improvviso il suono di un corno, dalla boscaglia iniziano a piovere sassi e frecce, molti nemici questa notte conosceranno i propri antenati.
Il clan della renna, nostri alleati da sempre, il clan di mia madre. In un lampo alcuni giovani del villaggio, scampati alla carneficina, sono al mio fianco.
Cercano vendetta, vendetta per i propri cari, per io sangue versato.
La avranno.

Grido, non so più nemmeno cosa sono e chi sono, in un istante sono addosso ad uno dei saccheggiatori, sento la mia lancia penetrare il costato, ed il sangue caldo e appiccicoso bagnarmi le mani. Non mi fermo, ancora tre nemici cadono per mano mia.

Il nemico fugge, si contano i danni.
Sette uomini uccisi, due donne violentate e ferite, non passeranno la notte. I nemici hanno perso otto uomini, altre tre sono fra noi, catturati durante la fuga.
Vengono denudati e legati a lunghe pertiche, pagheranno il loro affronto, le loro grida scuoteranno i cieli affinché Tiwaz senta la nostra preghiera dandoci forza e Baduhenna si compiaccia della nostra opera donandoci la giusta ferocia.
Una delle moribonde riconosce in uno di loro il suo aggressore, egli viene quindi consegnato alle donne. Poco dopo i suoi genitali, ridotti a poco più di una poltiglia sanguinolenta, bruciano nel fuoco. È l’inizio di una lunga agonia.
I suoi compagni sono più fortunati, dopo una breve tortura finiscono appesi, sgozzati come maiali, sacrificati agli Dèi.
All’alba tutto è compiuto, gli Dèi e gli spiriti hanno ricevuto la loro giusta parte.

È il momento della vendetta, l’ora della guerra.

domenica 9 giugno 2019

La sacralità nel mondo Germanico precristiano, parte IV

E. Polomé – ÉTUDES INDOEUROPEENNES 1996 Traduzione a cura di Andrea Anselmo pubblicata sul terzo numero della rivista “Polemos” (http://polemos.info/)

In una comunità dove i valori etici primordiali del contratto sociale sono la lealtà e la fiducia, il rispetto della parola data era sacro il giuramento sanziona queste asserzioni e conferisce loro una garanzia divina.

A partire da Osthoff si è legato il termine esprimente la fedele lealtà (tedesco treue ) al nome della quercia (gr drus) per sottolinearne l’indefettibile fermezza (Benveniste 1973). La pratica del giuramento secondo una istituzione comune a Celti e Germani (antico irlandese òeth = gotico aiths) implica la necessità di portarsi solennemente presso uno spazio speciale riservato a questa intenzione (per esempio il luogo dove nel santuario viene preservato l’anello sul quale si prestava giuramento; poiché la migliore spiegazione del termine si ricollega ad oitos marciare, destinare. In effetti a colui che prestava giuramento era originariamente richiesto di marciare tra le parti di un animale sacrificale immolato per la circostanza (conserviamo anche il tedesco Eidgang e le espressioni russe antiche iti na rotu e il latino ire in sacramentum Benveniste 1973).

Gli ori e i tesori sono ugualmente impregnati di sacralità: dei draghi custodiscono gli oggetti di valore accumulati in diversi nascondigli e delle maledizioni proteggono i metalli preziosi acquisiti indebitamente.
Pensiamo all’anello del nano Andvari e la sua predizione che condanna chiunque lo indosserà, all’omicidio di Hreidmar per colpa dei suoi figli, alla sorte ulteriore di Fafnir e Regin e infine a quel che succede al tesoro di Sigurd, come Snorri lo descrive nel Skaldskapamuil.

Conviene anche menzionare il “fuoco” come fonte maggiore di sacralità nel mondo germanico.
Cesare lo nominava già sotto il nome di Vulcano tra gli dei delle tribù germaniche e se si è molto discusso sulla validità di questa affermazione ne risulta non meno che il fuoco è stato utilizzato, dalla primissima antichità, ritualmente per i sacrifici, nelle procedure di purificazione, per le pire funerarie.
Il focolare domestico simbolizza lo spirito degli antenati nella famiglia e lo si spegne per poi riaccenderlo solennemente quando un membro eminente del clan decede; si impiega a questo fine uno strumento che produce il fuoco per frizione, così come è rappresentato su una delle placche della tomba di Kivik nella Svezia del Sud verso il 1000 a.c. Si utilizzava un fuoco acceso in questo modo per proteggere il bestiame contro le epidemie (inglese niedfyr, antico sassone nôdfiur).
L’ Indiculus superstitionum et paganiarum (manual per la conversione forzata tra i Sassoni promulgato sotto Carlo Magno) lo condanna al capitolo: de fricato igno.
La lunga sopravvivenza di tale credenza è attestata per il decreto di Canuto il Grande contro le superstizioni pagane rivolte al Sole, la luna e il fuoco (come in Cesare) che figurano insieme a fonti, fiumi, rocce e alberi.

Vi è ancora il problema della ierogamia o sposalizio sacro che viene notoriamente evocato a proposito dei rapporti intimi tra Freyr e Gerdr secondo l’eddico Skirnismal, dopo nove notti di febbrili attese, nella boscaglia di Barri, simbolizzante la maturazione del grano (antico norreno barr, grano). Nella sua opera su Ingunar-Freyr F.R. Schrôder considera il germanico *kunjaz come l’equivalente del latino genius nel senso di progenitore e di fatto partner della dea madre. Questo ricorderebbe le speculazioni in merito a Nerthus volendo fare del suo sacerdote un paredro identico ad Attis nel culto di Cibele. Un ruolo simile è spesso assegnato al dio Ing menzionato nei poemi runici anglo sassoni.

sabato 8 giugno 2019

La sacralità nel mondo Germanico precristiano, parte III

E. Polomé – ÉTUDES INDOEUROPEENNES 1996 Traduzione a cura di Andrea Anselmo pubblicata sul terzo numero della rivista “Polemos” (http://polemos.info/)

La sacralità del matrimonio è illustrata da diverse azioni rituali: i matrimoni sono celebrati di preferenza il martedì (giorno di *Tiwaz) e il giovedì (giorno di Donar) ; in Scandinavia il martello di Thor è deposto nel grembo della giovane sposa, e talvolta un sacrificio viene offerto a Freyr. E’ ugualmente un costume possibile quello di celebrare gli sposalizi sia presso tombe ancestrali sia presso l’altare della famiglia.

Il matrimonio è stabilito dalla religione e dalla legge: antico alto germanico Ewa (tedesco Eheh) “significa diritto, legge, ordine” (antico inglese aew “legge, costume, fede”).
La sacralità del vincolo matrimoniale è ugualmente sottolineata dalle dure sanzioni che vengono inflitte in caso di adulterio: un sposo che sorprende la propria sposa in flagrante delitto ha il diritto di uccidere il suo rivale impunemente sul campo; la donna è privata di ogni diritto e perde tutta la protezione da parte del suo clan.

Lo sposo può ucciderla o mutilarla (le fonti scandinave e anglosassoni menzionano che il naso e le orecchie vengono tranciate). Diverse fonti ci precisano le umiliazioni alle quali le mogli adultere venivano esposte: secondo la Lex Burgundiorum Gundebaudi “si qua muller maritum suum, cui legitime esr iuncta, dimiseril, necetur in luto”

L’affogamento nella palude era già stato descritto da Tacito come la punizione riservata ai traditori e agli infami e sono state infatti così scoperti nelle torbiere del nord Europa i cadaveri di femmine così annegate.

Prima di questa suprema punizione veniva loro rasato il cranio e infatti numerose capigliature femminili sono state ritrovate in prossimità di tali cadaveri.
In effetti nel capitolo 19 del De Germania Tacito fornisce una descrizione esplicita della sorte riservata alle spose adultere: accisis crinibus nudatam coram propinquis expellit domo maritus ac per omnem vicum verbe re agit.

La sacralità del matrimonio è ugualmente confermata dalle restrizioni che circondano gli sposi: spettacoli impudici, scambio di lettere amorose, convivialità moralmente dubbia sono altrettanti usi banditi dalla società germanica dove la verginità della sposa al momento delle nozze era richiesta.
Il matrimonio non è questione di scelte personali ma il risultato di negoziazioni tra le diverse famiglie; già Cesare insiste sulla castità e le reticenze sessuali dei Germani e la loro pudicizia è lodata nei secoli.

Non che fossero degli angeli, e le numerose concubine menzionate nella letteratura lo confermano, ma almeno inizialmente le pressioni sociali imponevano un profondo rispetto della donna.
Come sottolinea Tacito, inesse quin etiam sanctum aliquid et providum putant, e questa sacralità il loro dono della profezia abbondantemente attestato (gli stessi imperatori romani si circondavano di divinatrici germaniche; conosciamo inoltre il ruolo svolto dalla veggente Veleda nella rivolta dei Batavi.
Per questo i Romani, consci dell’importanza che i Germani attribuivano alle loro giovini, preferivano queste giovani vergini come ostaggi.

venerdì 7 giugno 2019

La sacralità nel mondo Germanico precristiano, parte II

E. Polomé – ÉTUDES INDOEUROPEENNES 1996 Traduzione a cura di Andrea Anselmo pubblicata sul terzo numero della rivista “Polemos” (http://polemos.info/)

In effetti, molteplici oggetti della natura erano imbevuti di sacralità. E i decreti della Chiesa così come gli editti reali impedivano tutte le pratiche cultuali legati ad essi: la admonitio generalis di Carlo Magno mette in guardia contro gli alberi, le pietre o le fonti, circondate di pratiche “stupide” [ubi aliqui stulta luminaria vel alias observationes faciunt].

Il culto degli alberi in particolare era piuttosto antico e le innumerevoli interdizioni dell’epoca cristiana ne indicano una lunga sopravvivenza.
E’ costume del villico germanico piantare presso la sua fattoria un albero protettore del suo clan, di norma un frassino o un tiglio, spesso attribuendo a questo albero delle proprietà magiche o curative.
Occorre forse ricordare l’albero cosmico Yggdrasill? O il tasso presso il tempio di Uppsala secondo la descrizione di Adamo da Brema? L’albero è percepito simbolicamente come il seggio di una divinità come il robur Jovis, quercia sacra che San Bonifacio fece abbattere nelle vicinanze di Geismar. Dall’alta antichità ci derivano i boschetti sacri; citiamo semplicemente il bosco sacro dei Senoni, il castum nemus di Nerthus, la silva Herculi sacra presso il fiume Weser.

La nozione di tempo sacro è più delicata da inquadrare: esiste certamente intorno agli equinozi e ai solstizi dei periodi particolarmente propizi per certe attività rituali come quelle che sopravvivono sotto forma di fuochi di San Giovanni o, fortemente cristianizzate, le dodici notti dal Natale all’Epifania.
Risulta difficile stabilire se il ruolo della luna abbia un senso profondamente religioso nella fissazione della data di importanti azioni quali uno sposalizio o la costruzione di una dimora.

Non c’è propriamente la possibilità di parlare di un culto lunare presso i Germani.
L’astro è una misura del tempo e le sue fasi determinano automaticamente i giorni fasti e nefasti: le matres familiae presiedono alle pratiche divinatorie presso gli Svevi di Ariovisto, consderando la luna nuova come una condizione preliminare ad ogni combattimento vittorioso.
Le notti senza luna sono quelle in cui l’exercitus feralis effettua le sue battute di “caccia” aggirandosi per la campagna, e l’assemblea popolare non si riunisce che que certis diebus, cum aut inchoatur luna aut impletur (Tacito, Germania). Il suo nome germanico *tengaz significa in effetti “momento determinato”.

Nonostante non vi fossero dei “sacramenti” propriamente detti vi erano evidentemente delle importanti cerimonie cultuali, come la celebrazione regolare di un sacrificio umano nel bosco sacro dei Senoni.
Tacito, descrivendone il rito nel capitolo trentanovesimo del suo De Germania, insiste sulla paura rispettosa che circonda il luogo ove la tribù commemora le sue origini mediante un ritorno simbolico ai tempi primordiali in presenza di una ierofania del misterioso regnator omnium deus.
Si è voluto vedere in questa immolazione uno scenario di ripetizione dell’atto creatore per il quale Odino e i suoi fratelli fecero a pezzi il gigante Ymir per costituire l’universo con le parti del suo corpo, ma nulla autorizza questa ipotesi (sic. Nota del traduttore): dopo lunghi dibattiti sull’identità del regnator omnium deus, sembra che A. Lund abbia ragione nel riconoscervi soltanto una divinità tribale dei Senoni.

Il termine sacrificare significa letteralmente rendere sacro e designa dunque originariamente l’operazione rituale per la quale il sacerdote trasferisce una entità del mondo profano all’interno del dominio del sacro; nel caso dell’animale consacrato [ricorderemo come il termine latino victima “animale offerto agli dei” è imparentato con il germanico *widhan “consacrare”; su questo vedi Benveniste], questo consiste in un dare la morte.
A questo riguardo è interessante ricordare che nei dialetti germanici per indicare sia il sacrificio [gotico sauts] sia per l’animale sacrificale [norreno saudrr] viene utilizzato lo stesso termine; l’idea di base essendo la sorte riservata alla carne della vittima che viene fatta bollire in vista di un pasto comune.

La pace segnata dalla cinta sacra è protetta per un potente divieto ed è un grave sacrilegio, punibile severamente, romperlo in qualche modo.

giovedì 6 giugno 2019

La sacralità nel mondo Germanico precristiano, parte I

E. Polomé – ÉTUDES INDOEUROPEENNES 1996 Traduzione a cura di Andrea Anselmo pubblicata sul terzo numero della rivista “Polemos” (http://polemos.info/)

L’opera magistrale di Rudolf Otto sul sacro (1917) è servita da base ad una dicotomia proposta da W Baetke nel suo lavoro classico sull’espressione verbale della sacralità nelle lingue germaniche (1942).
Egli vi oppone i termini germanici *wîhaz e *hailagaz, considerando il primo come esprimente specificatamente il concetto di sottrarre dal profano e integrare nel divino [ad esempio “consacrare” = weihen] mentre il secondo come designazione della pienezza del dominio favorevole del soprannaturale.

Il termine *hailagaz derivato dal sostantivo rappresentato per l’antico norreno heill “saluto, benedizione, felicità”; si applica anche agli oggetti provvisti di un potere magico, come l’idromele mischiato con le incisioni lignee runiche, helgi mjodr. Designa anche la sacralità propria alla costruzione di un tempio, [hofshelgi nel caso della saga di Eric]. Può anche riferirsi al periodo durante il quale si riunisce l’assemblea popolare come nel norreno thinghelgi. Il germanico *wîhaz non si è conservato in antico inglese se non nel termine idolo [wfg, weoh]; in antico sassone, wih designa un santuario, un tempio, e in vecchio alto germanico il termine ricopre quasi tutti gli aspetti del sacro, tanto che in antico norreno vé si applica indifferentemente anche [come nel toponimo OdinsVé]. Il fatto che il suo senso primo sia “consacrare” emerge anche dalla formula eddica brudi at vigja applicata al martello di Thor che santifica i matrimoni.
Queste nozioni furono in seguito integrate nel quadro della comparatistica indoeuropea descritto da Emile Benveniste (1973) e Harriet Lutzky (1993). In effetti la nozione di sacralità sopravanza ampiamente questo quadro come mostrano i sostanziali articoli di Carsten Colpe sul “sacro e profano”, di Joel Brereton sullo spazio sacro e di Barbara Sproul sul tempo sacro nella Enciclopedia delle Religioni di Mircea Eliade.

Particolarmente importante è la sacralizzazione dello spazio: dato che le popolazioni germaniche veneravano le loro divinità all’aperto, il tempio, come lo spazio consacrato agli auguri nell’Italia antica, doveva essere delimitato e ritualmente separato dal resto della natura.
Similarmente, durante le assemblee popolari, i sacerdoti di Tyr tracciavano i contorni e circondando d’una separazione simbolica il terreno ove il thing doveva riunirsi, salvaguardandolo da tutte le interferenze esteriori. I sacerdoti che garantivano tale pace erano denominati ewarto “protettori della legge” in alto germanico.

Come suggerisce Eliade (1978) una delle funzioni essenziali del sacerdote officiante era di misurare il terreno e di stabilire dei punti precisi per lo spazio da consacrare al culto. Che si conservano anche nella toponimia di molte vestigia dei luoghi sacrificali e di venerazione,come Godesberg presso Bon, un tempo Wodensberg.

I luoghi della sepoltura, di preferenza collinari, entrano anche in considerazione, poiché i luoghi elevati sono frequentemente associati a degli importanti atti rituali: è lì che il tulr recita le sue declamazioni sacre; le seidkona si isolano sulle alture seidhjhjallr per formulare le loro incantazioni magiche e anche gli dei vi si installano sui loro rokstölar.
Certe pietre assumono anche una importanza particolare: vi si presta giuramento, e l’Edda menziona il giuramento prestato at inom hvfta helga steini ovvero presso la “sacra pietra bianca”; dobbiamo ricordare l’importanza delle pietre nelle cerimonie nuziali?
La giovane sposa rompeva le relazioni con la sua comunità paterna e il suo clan familiare camminando sulla tomba ancestrale dei suoi e cercava un buon riparo presso la famiglia del marito calpestando la pietra tombale dei suoi antenati.

martedì 4 giugno 2019

La fame e la lotta

Nota: l’articolo che segue è abbastanza crudo, se pensate di poterne rimanere offesi, urtati o altre menate pensateci bene prima di proseguire (e, già che ci siete, valutate se davvero questo blog fa per voi).

Cos’è la competizione?
Per noi figli del primo mondo, cresciuti e pasciuti dalla società dei consumi, questa parola rimanda principalmente all’ambito sportivo, a due o più atleti che secondo regole prestabilite gareggiano per l’ottenimento di un titolo.
Chiunque mastichi un minimo di nozioni sulla vita animale, o abbia anche una vaga infarinatura storica, sa però questo termine indica anche qualcosa di diverso, e innato, in ogni specie vivente.
Fa parte di noi, ogni nostra fibra muscolare è il risultato delle lotte di chi ci ha preceduto. Siamo alti e robusti? Dobbiamo ringraziare i nostri antenati che sono riusciti, grazie ad una maggiore forza e determinazione, ad ottenere una alimentazione migliore e di conseguenza una struttura muscolare migliore.
La nostra stessa esistenza è dovuta alle loro vittorie, all’aver garantito, a sé stessi e alla propria prole, risorse sufficienti alla sopravvivenza. Pensate che in tempi di minore densità abitativa non vi fosse competizione serrata? Vi sbagliate.
Guardate ad Ötzi, il celeberrimo uomo del Similaun, trovato qualche anno fa sul confine fra Italia ed Austria, egli ci somiglia fisicamente, ed era umano come lo siamo noi ma la sua linea, e più generalmente quella della sua tribù di appartenenza, è estinta.
Chi l’ha fatta scomparire? Noi, o meglio, i nostri antenati, sangue del nostro sangue, uscito vincitori, in quel frangente, da quella lotta eterna che è l’esistenza.
La sua stessa morte prova che già alla sua epoca vi era una lotta serrata per i territori di caccia, una lotta violenta, fatta di sangue e uccisioni.
Eccezion fatta per i boscimani ed un’altra manciata di tribù tutte le altri genti di questo mondo hanno ottenuto la propria terra tramite il sangue, la sopraffazione e lo sterminio di altri popoli.
Brutto da dire? Forse.
Ma veritiero.
Il mondo è sangue, merda, sudore e, in definitiva, competizione.

Negli ultimi decenni questo termine ha ottenuto una cattiva fama, sia per le conseguenze negative dovute alla sempre più esasperata competizione economica, sia a causa di vari movimenti che si sono battuti in nome dell’uguaglianza e per l’abbattimento delle gerarchie.
In un’epoca starnazzante come la nostra, dove tutti pretendono istericamente di poter essere, o il più delle volte di potersi considerare, ciò che desiderano, essere ciò che si è e tendere a qualcosa di più alto della nostra umana natura è l’unica rivolta possibile

lunedì 3 giugno 2019

Meritocrazia familiare, radicamento rurale e società clanica

Per una visione tradizionale e comunitaria del merito

Cos’è il mondo moderno? Questo grande “moloch” che sembra inarrestabile sulla cui avanzata e sul cui deserto morale e culturale sono state scritte milioni di pagine? Per taluni è una semplice evoluzione del mercantilismo secentesco, e vi è verita in questo, per altri l’espressione più o meno dura di oscuri gruppi di interesse e per altri ancora è “il migliore dei mondi possibili”, a seconda di quale che sia la propria posizione in merito.
Ma cos’è, in definitiva, questa modernità di cui tanto si ciancia? L’io, molto semplicemente.
Ego ego ego, questa è la parola d’ordine di un sistema che ci vorrebbe sempre più atomizzati, legati al solo presente, senza passato e senza futuro, non semplici consumatori acritici - un traguardo che è stato già raggiunto almeno quarant’anni fa e rinforzato un tempo dall'essenza della CE e dall'UE oggi - ma veri e propri sradicati, facilmente spostabili e rimpiazzabili, merci, in definitiva.
Non c’è spazio per il passato, con il suo scomodo bagaglio di eroismo, violenze ed esaltazione, così come non ve n’è per il futuro, per i figli, che sono l’unico investimento realmente valido per il futuro di un popolo.
Ed è così che le ambizioni personali e i piaceri effimeri divengono le cose più desiderabili per l’uomo senza qualità, che sacrifica i suoi anni migliori ed il proprio sangue sull’altare del dio denaro. Egli è di casa ovunque ma il contempo non mette radici in alcun luogo, Londra, Tokio o Stoccolma sono per lui poco più che tappe, non luoghi sfondo di una vita vuota, priva di qualunque slancio spirituale. Il viaggio diviene per molti il miglior investimento possibile, fonte secondo questi di illuminazioni mistiche sulla natura umana e le sorti del mondo. L'essenza delle varie nazioni viene così mercificata e snaturata divenendo semplice diletto per quei pellegrini che vanno a visitarla.
Gli individui diventano così meri contenitori da riempire con lo sfavillante marciume del consumismo e con identità posticce, spesso del tutto campate per aria; ci si definisce così “non-binary”, “nerd”, “cittadini del mondo” o con altre etichette simili, tutte egualmente farlocche.
Ecco che il divenire ciò che si è nati per essere assume i colori di un atto rivoluzionario e arcaico ad un tempo, a ragion veduta. Al tempo della società liquida prendere una posizione e difenderla contro tutti e tutto è un autentico atto di sovversione.
Noi non vogliamo avere molto, non ci interessa, così come non siamo interessati nel perseguire un percorso che sia mera proiezione tangibile del nostro ego, noi vogliamo porci in continuità con coloro che ci hanno preceduto e vogliamo tramandare quel che riusciremo a costruire a coloro che verranno dopo di noi.
Vogliamo lottare per i nostri Dèi, per la nostra gente, perché ciò che un tempo era continui ad essere scevra di ideologie innaturali e semplicistiche figlie della scuola roussoiana che frenino questo percorso appellandosi alla pietà nella e per la storia. È con questi ideali che abbiamo deciso di mettere in piedi questo progetto, nella convinzione che per la rinascita del culto degli Dèi e di una società più sana non vi sia altra via che il superamento dei facili egoismi e la volontà di costruire qualcosa che duri più della nostra vita.
La nostra concezione del mondo è quindi familiare e ciò che vorremmo costruire, per il futuro, è una reta di comunità claniche, legate fra loro dalla condivisione di un’unica fede ed un unico destino, pur mantenendo come la più preziosa delle caratteristiche la nostra diversità.
L’uomo senza una stirpe, senza una patria, è come una foglia in autunno, destinato a morire ed in balia dei venti, allo stesso modo una società aperta è una società morta, che non ha più alcunché da difendere, che non è più in grado di tramandare se stessa, di preservarsi per coloro che verranno.
La famiglia, intesa come cellula basilare di ogni società, ed il suo naturale complemento che è il clan sono ciò da cui occorre ripartire per costruire un mondo nuovo e antico che si ponga come ponte tra ciò che era - i nostri antenati - e ciò che sarà - i nostri discendenti.
Sarà questo un mondo realmente eterno in quanto invincibile.