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martedì 29 dicembre 2020

Il poema runico anglosassone

 Come "regalo di Yule", e come ultimo articolo prima del 2021 e delle novità previste per il prossimo anno, vi presentiamo il poema runico anglosassone, uno dei tre poemi runici giunti fino a noi.

Hailaz Wodanaz! 

https://drive.google.com/file/d/168WBwU25yW89-0MWh4t3Dt0ic9iTcBEL/view?usp=sharing

lunedì 7 dicembre 2020

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte VI

Ultimi protagonisti di un simile panorama travagliato furono i Longobardi. Dieci anni dopo il patto stretto con gli Alamanni, sfumata la possibilità di una liberazione franca, i gruppi indipendentisti goti identificarono nei Longobardi «[...] la potenza che forse poteva aiutarli ad allontanare il dominio di Costantinopoli dall’Italia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 85)
I Longobardi non erano estranei a tentativi d’alleanza da parte degli Ostrogoti; già nel 538 emissari del re Vitige giunsero in Pannonia per parlamentare con i Longobardi. «Purtroppo gli ambasciatori “avendo trovato Vaci (il re longobardo Wacho) amico ed alleato dell'imperatore, tornaronsene senza nulla aver concluso” (Proc., Goth., II, 22)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Un ulteriore tentativo ebbe luogo nel 549 sotto il re Totila, «[...] allorché Ildige, erede legittimo al trono longobardo, giunse con un forte esercito nelle Venezie ben intenzionato ad unirsi ai Goti. Qui “si scontrò e venne alle mani con una schiera di Romani, comandata da Lazzaro, e, voltala in fuga, molti ne uccise” (Proc., Goth., III, 35)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) Inspiegabilmente non si giunse ad un accordo fra le due parti.
Personalità chiave per comprendere il dipanarsi dei legami diplomatici e di sangue fra Goti e Longobardi è il re Audoino sotto cui nel 546 i Longobardi, in qualità di foederati[14] romei, espansero verso sud est e sud ovest il loro territorio in Pannonia. La provincia di Pannonia, da poco sottratta agli Ostrogoti, venne occupata dalle guarnigioni longobarde le quali ricevettero beneficia non indifferenti e fu in questa occasione che «Audoino aveva ottenuto di sposare Rodelinda, pronipote del grande Teodorico, e figlia dell’ultimo re dei Turingi, Ermenfrido». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Il loro figlio, Alboino, «[...] quale discendente ed erede di Teodorico – come suggeriva il Bognetti - si poteva prestare perfettamente alle mire degli Ostrogoti transpadani che ancora vagheggiavano il ripristino del loro regno in Italia. Alboino, diventato re dei Longobardi tra i primi e la metà degli anni sessanta, non sarebbe rimasto indifferente alle suggestioni dei missionari ariani inviati in Pannonia proprio dai Goti» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) e forse è anche per quanto sinora detto che Alboino intraprese la spedizione in Italia, il regno perduto dei suoi più prossimi avi.

 

Note

[14] «In base all'impegno preso nel patto di federazione, Audoino aveva fornito a Narsete un contingente di 5.500 combattenti, risultati determinanti nel 552 contro Totila nella battaglia di Tagina, ai Busta Gallorum. In precedenza, nel 550, lo stesso re longobardo aveva promesso mille guerrieri armati di tutto punto per la massiccia spedizione che Germano, nipote di Giustiniano e secondo marito di Matasunta (figlia di Amalasunta e nipote di Teodorico), stava preparando contro gli Ostrogoti. E' importante evidenziare che questa spedizione, andata poi vuoto per la morte improvvisa di Germano, avrebbe potuto provocare forti crisi di coscienza presso i Goti, come riporta Procopio perché “ne furono atterriti e messi pure in perplessità dal dover essi andare in guerra contro la progenie di Teodorico”». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, pp. 85-86)

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte V

In questo gran minestrone di problemi, anche i Goti ariani entrarono in subbuglio dacché, con la Sanctio Pragmatica pro petitione Vigilii emanata da Giustiniano, nel 554 i grandi latifondisti romani ottennero nuovamente i beni e le rendite che gli erano stati sottratti dai re ostrogoti, specialmente da Totila[12], allo scopo di ripristinare l’aristocrazia senatoria. Vi fu dunque un «[...] drastico cambiamento nel panorama dei possessores, con severa riduzione della percentuale dei Goti e con aumento vertiginoso degli orientali» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 84) e persino le chiese ariane ravennati vennero spogliate dei loro beni, beni che su ordine di Giustiniano vennero assegnati all’episcopato cattolico. «Le stesse basiliche ariane furono subito reconciliatæ [...]» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 84) all’episcopato cattolico tanto che i vescovi ariani dovettero trasferirsi altrove con i loro fedeli.
Partendo da simili presupposti, i Goti superstiti scelsero di ricorrere alla mimetizzazione religiosa convertendosi al cattolicesimo ma mal sopportando la politica imperiale, che era sostenitrice di Roma, decisero di legarsi agli scismatici. Non a caso «[...] le terre di più tenace adesione allo scisma coincidevano con le aree di massima concentrazione ostrogota. Non a caso nella Venetia alcuni facoltosi goti, Amara lectur e Guderit cum suis, compaiono fra gli oblatori del nuovo pavimento musivo nella cattedrale scismatica di Sant'Eufemia a Grado (consacrata nel 579)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, pp. 84-85)
Per questa ragione frange consistenti di Ostrogoti cercarono di stringere accordi diplomatici con varie popolazioni limitrofe, come avevano in precedenza fatto con gli alamanni Buccellino e Leutari del 554[13].


Note

[12] Il regno del sovrano ostrogoto Totila era considerato illegittimo dall’imperatore Giustiniano, tanto da definire nelle Novelle ‘tyrannus’ il sovrano ostrogoto.

[13] Nel 554, come alleati, gli Ostrogoti e gli Alamanni condussero un attacco all’Italia Suburbicaria, «differentemente dai Franchi cattolici, “quelli che erano di origine alamanna, siccome erano di altra fede religiosa, spogliavano e distruggevano gli edifici sacri”». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) 

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte IV

Intanto, fra il 560 ed il 561, il patricius Narsete, stabilitosi a Roma, fu posto al vertice del governo civile[10] in Italia mantenendo il comando dell’esercito.
Fra i suoi ruoli civili vi era quello di vigilare sui culti e di curare le relazioni con la Chiesa di Roma che ancora si scontrava con gli aquileiesi; eppure Narsete, sottostando alla volontà non dichiarata di Giustiniano, si mostrò tollerante con gli scismatici.
Dopo aver riportato i confini della Præfectura Italiciana sino al Norico, strappandone il controllo ai Franchi nel 564, il patricius Narsete assegnò le tre diocesi ecclesiastiche dell’alta valle della Drava, del Gail e del Rienza - ossia quelle di Teurnia, di Agunto e quella dei Breoni - «alla giurisdizione metropolitica della scismatica Aquileia» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 82) vanificando così l’intervento del re austrasiano Clotario I che sotto Pelagio I le aveva portate sotto la sua giurisdizione[11] riavvicinandole a Roma.
Così facendo, Narsete guadagnò per Giustiniano le simpatie degli scismatici tricapitolini; solo con la salita al soglio imperiale di Giustino II, il quale perseguiva la distensione fra Roma e Bisanzio, e la fine dell’insurrezione erula del 566 nella Venetia venne messa in campo una vera e propria reazione militare contro gli scismatici. Narsete, spinto dal pontefice e dal nuovo imperatore, fece così “estradare” il vescovo tricapitolino Vitale di Altino dalla città di Aguntum, dove si era rifugiato, esiliandolo in Sicilia.
Lo scopo di Giustino II era duplice ed in totale opposizione alla politica del suo predecessore Giustiniano: evitare di dare l’idea agli scismatici, tramite concessioni di libertà, d’essere indipendenti dalla giurisdizione romea ed evitare, tramite prese di posizione religiose precarie, di destabilizzare ulteriormente un territorio già a lungo provato da guerre e cambi di potere.
Giustino scelse dunque di «[...] indulgere ai contestatari sia in Oriente che in Occidente. Tale era la percezione che se ne ebbe in Occidente sul nuovo sovrano, tanto che Venanzio Fortunato, in un suo carme del 568-69, lo celebra per aver revocato molti vescovi dall’esilio, e per aver accettato tutto quanto stabilito nel controverso concilio di Calcedonia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 83)


Note

[10] Nell’opera degli storici romei Giovanni Malàlas e Teofane il Confessore, Narsete viene citato con l’appellativo di ‘exarchus’ e dunque per questo risulterebbe il primo esarca d’Italia.

[11] Le suddette diocesi gravitavano nella sfera d’influenza merovingia sin dai primi anni delle guerre greco-gotiche. 

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte III

Dacché gli aquileiesi non avevano alcuna intenzione di scendere a più miti consigli con Roma, papa Pelagio I decise di rivolgersi al potere temporale esigendo che sia il metropolita Paolo che il presule Auxano, arcivescovo di Milano che aveva consacrato Paolo patriarcha, venissero arrestati[8]. Grazie alle svariate lettere che inviò alle alle varie autorità temporali, Pelagio I ricevette il pieno supporto del patricius Giovanni di Ravenna, magister militum ed ex-consul, esponente della famiglia imperiale romea e massima autorità amministrativa nella penisola italica per conto di Bisanzio.
Giovanni fallì nel suo intento dacché non riuscì a prendere Aquileia né tantomeno a riportare gli scismatici in linea con Roma; stando ad una lectio delle lettere di papa Pelagio I, Giovanni dopo essere stato scomunicato dagli aquileiesi decise di astenersi da ulteriori operazioni e di lasciare l’incarico prefettizio nelle mani del fratello Valeriano. Pelagio I decise allora di rivolgersi al patricius Valeriano, subentrato al fratello come governatore di Ravenna nel 559, ma questi come anche il suo successore, lo stratēgos autokratōr Narsete vincitore delle guerre greco-gotiche, decisero, forse su suggerimento dello stesso Giustiniano, di non occuparsi personalmente della faccenda lasciandola nelle mani di Giustiniano stesso.
Con la morte di Pelagio I avvenuta nel 560 e la nomina di Giovanni III a vescovo di Roma, la politica della chiesa romana verso la scismatica Aquileia non cambiò affatto; il nuovo pontefice ribadì pubblicamente la validità dei decreti del concilio di Calcedonia ed impose ai nuovi vescovi suoi suffraganei di giurare su questi dinanzi a dei testimoni e di fornire prova scritta di tale giuramento[9]. Non vennero però operate azioni dirette contro gli scismatici in quanto nel 560-61 un contingente romeo, inviato ad Aquileia forse per arrestare il patriarcha Paolo, dovette desistere da questo proposito dacché fu bloccato sull’Adige dai franchi del duca Amingo i quali non vedevano di buon grado le continue intromissioni di Giustiniano nella sfera politico-religiosa della penisola italica.

 
Note

[8] «Reclamava soprattutto che i publici poteri usassero come atto dovuto la loro autorità, ‘exercete igitur debitam auctoritatem’, per stroncare lo scisma in quanto focolaio di sedizione, ‘tanquam seditiosum comprimi’, che minacciava cioè l’unità dello Stato». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, pp. 4-5)

[9] «Caeterum periculosissimis temporibus Joannes pontifex animum non depondit, sed et Romanae rei labenti opem ab imperatore petiit, et synodum V defendit. Etenim ii, qui in urbium antistites consecrabantur, in synodi quintae decreta jurabant, fidei datae chirographum ad apostolicam sedem transmittebant». (cifr. Anast., Joannes III, PL128)

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte II

In risposta al sinodo di Costantinopoli, i vescovi dell’Illyricum, sul finire del 548, convocarono un sinodo nel quale una vasta maggioranza di presuli si sollevò contro la condanna che papa Virgilio aveva espresso tramite il Judicatum. Con l’inasprirsi del conflitto religioso Virgilio fuggì a Calcedonia rifugiandosi nella chiesa di Santa Eufemia dalla quale nel 552, pentito delle sue azioni, emise la lettera ‘ad universam Ecclesiam’ nella quale anatematizzava tutti coloro che avessero accettato la condanna dei tria capitula e che avessero seguito i dettami dell’editto giustinianeo del 543. In seguito a ciò, la provincia dell’Illyricum esplose, abbandonandosi a tremendi disordini. Giustiniano ne fece una questione militare tanto da dirottare verso la città illirica di Ulpiana (i.e. Giustiniana Seconda) le armate romee inviate in soccorso dell’alleato longobardo allora attaccato dai Gepidi; inutile dire che i Longobardi vennero lasciati soli a fronteggiare il loro nemico e, sotto Alboino, tennero memoria di questo tradimento. Repressa la rivolta, Giustiniano indisse nel 553 il secondo concilio di Costantinopoli, il quinto concilio ecumenico, ordinando a Belisario di convincere con ogni mezzo papa Virgilio a partecipare. Il concilio si concluse nel 554 con la definitiva condanna per eresia dei tria capitula sotto la guida di Virgilio, che si decise ad emettere nello stesso anno il suo Constitutum nel quale ribadì con veemenza questa condanna.
Di lì a poco l’intera ecclesia occidentale esplose in tumulti, certa che dietro l’ennesimo ripensamento del pontefice vi fosse Giustiniano; i vescovi di Aquileia e Milano sconfessarono gli esiti del concilio del 554 testimoniando la loro cieca fedeltà ai dettami del concilio di Calcedonia in materia di monofisismo. In questo grande caos, alla morte di papa Virgilio avvenuta nel 555, Giustiniano approfittò del vuoto di potere per far eleggere papa quel Pelagio che in passato era stato strenuo difensore dei tria capitula. Salito al soglio pontificio, papa Pelagio I decise di rinnegare la sua pasata militanza nel fronte anti-monofisita arrivando ad appoggiare in toto l’imperatore Giustiniano che conseguì così una duplice vittoria: sul soglio pontificio sedeva un uomo a lui ciecamente fedele, un uomo strappato alla fazione anti-monofisita della quale era stato esponente di spicco.
Pelagio I operò subito di conseguenza inviando il vescovo Sapaudo di Arleate (i.e. Arles) come suo vicario alla corte merovingia del re Childeberto I nella speranza di convincere quest’ultimo ad operare con ogni mezzo contro ogni forma di dissidenza religiosa. Su questo fronte Sapaudo non ottenne molti successi; riuscì invece ad ottenere la fiducia del re austrasiano pro tempore Clotario I, spingendolo ad attirare sotto il suo controllo le diocesi dei Breoni, di Teurnia e di Agunto un tempo sotto la giurisdizione della provincia ecclesiastica di Aquileia nelle Venetiae.
La reazione di Aquileia non si fece attendere. Alla morte del metropolita aquileiese Macedonio avvenuta nel 558, il suo successore Paolo convocò nello stesso anno un «particularem synodum» (cifr. Pelagio I Pap., Epist., PL 69) durante il quale, con il favore incontrastato dei vescovi e del clero delle diocesi della provincia, assunse il titolo di patriarcha proponendosi come capo autonomo della chiesa metropolitana di Aquileia. Lo scisma era compiuto e l’autocefalia da Roma oramai dichiarata.
Lo scisma contribuì con il mai sopito malcontento dell’Italia Superiore verso i romei di Giustiniano e Narsete, rei di aver usurpato il regno ostrogoto, e le crescenti mire espansionistiche franche sul nord della penisola[6] a gettare le Venetiae nell’incertezza. Di questa situazione precaria ne approfittarono molti imperatori romei, fra cui lo stesso Giustiniano[7], sbandierando la questione aquileiese dinanzi agli occhi del pontefice di turno per ottenerne il consenso. 

 
Note

[6] Basti pensare a ciò che accadde sul finire dei dieci anni di interregno ducale seguiti all’omicidio del sovrano longobardo Clefi nel 574; omicidio del quale o i duchi o l’esarca di Ravenna, a quell’epoca ancora sotto il controllo di Bisanzio, furono i mandanti. I duchi, spinti dalla minaccia franco-romea che premeva sui confini, misero da parte le rivalità e, donandogli metà dei loro patrimoni, giurarono fedeltà ad Autari, figlio di Clefi, eleggendolo re nel 584.

[7] «Poiché Giustiniano ormai si proponeva come guida nelle dispute cristologiche, era sicuramente funzionale alle sue aspirazioni l’indebolimento del prestigio delle antiche Chiese patriarcali». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, nota 20 pag. 4)

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte I

 
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Nel pieno delle guerre greco-gotiche che imperversarono nella penisola italica fra il 535, anno dello sbarco in Sicilia dello stratēgos autokratōr Flavio Belisario alla testa di 7200 cavalieri e di 3000 fanti (cifr. Procopio, De Bello Gothico, Liber I, 5), ed il 553, anno della vittoria decisiva sui Goti del romeo Narsete[1], si apriva un altro scontro, uno scontro di matrice religiosa riguardante l’accettazione del monofisismo[2], uno scontro che influenzò e fu influenzato dallo svolgersi delle operazioni militari lungo la penisola.
Nel 543 Giustiniano, spinto dalla moglie Teodora[3], aveva stilato un editto volto a condannare gli scritti di tre vescovi delle diocesi orientali, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cyro ed Iba di Edessa. Le loro opere, raccolte in tria capitula[4], ritenute fortemente antimonofisite vennero messe al bando. 
La reazione delle Chiese d’Occidente, stanche delle continue intromissioni nelle dispute cristologiche portate avanti da Giustiniano per supportare la corrente monofisita tanto cara a Teodora, non si fece attendere. I presuli (i.e. alti prelati) occidentali rimasero fermi nella loro fedeltà alle sole dottrine riconosciute dal concilio di Calcedonia del 451, concilio in cui venne rigettata in toto il monofisismo, e riconobbero totale legittimità agli scritti raccolti nei tria capitula in quanto in perfetto accordo con la dottrina calcedoniana.
Nel frattempo a Roma era papa quel Virgilio che fu nominato pontefice da Flavio Belisario il 22 Novembre 537, nel pieno del primo dei due assedi a cui fu soggetta Roma nella guerra greco-gotica, su incarico diretto dell’imperatrice Teodora in seguito alle forzate dimissioni ed all’esilio nel 18 Novembre 537 di papa Silverio[1], accusato di essere filo-goto.
Virgilio si mostrò tentennante dacché, non avendo alcuna intenzione di attirarsi le ire dei presuli occidentali, non si espresse a favore dell’editto giustinianeo del 543. Per questa sua condotta incerta, nel 544, fu invitato a presentarsi all’imperatore romeo ed in risposta al suo tacito rifiuto nel 545 fu portato forzosamente sotto scorta a Bisanzio, via Sicilia. Lì nel 548 partecipò assieme ad una settantina di vescovi ad un sinodo indetto da Giustiniano con lo scopo di dirimere la questione dei tria capitula e confermare così l’editto del 543. La frangia dei vescovi anti-monofisiti non si mostrò per nulla incline al compromesso e ne nacquero accese discussioni che diedero l’occasione a papa Virgilio di interrompere gli atti del sinodo, riservandosi di decidere sui tria capitula. Pressato da Giustiniano, scrisse il suo Judicatum rivolgendolo a Menna, patriarca di Costantinopoli; in questo dichiarava di accettare la condanna dei tria capitola esprimendo parimenti la sua indiscussa fedeltà ai dettami del concilio di Calcedonia, una formula di compromesso che scatenò le ire dei presuli occidentali i quali respinsero la decisione papale. 
 
 

Note

[1] Nominato anch’egli stratēgos autokratōr da Giustiniano nel 551, subentrò a Belisario come comandante supremo dell’esercito romeo.

[2] Dottrina cristiana che negava la duplice natura, divina ed umana, della figura del Cristo.

[3] Etèra di umilissime origini, divenne sposa di Giustiniano ed imperatrice nella Pasqua del 527, più precisamente il 4 Aprile. Fu esponente di spicco della corrente monofisita a Bisanzio.

[4] Da qui ne deriva il nome comune con cui è noto lo scisma aquileiese, ossia scisma dei tre capitoli.

[5] Poco dopo lo sbarco di Belisario del 535, il 22 Aprile 536 papa Agapito I morì a Costantinopoli. Ne nacque uno scontro per la conquista del soglio pontificio fra i romei che, nella persona di Teodora, supportavano il diacono romano Virgilio in quanto molto accondiscendente verso i monofisiti ed il potere regale ostrogoto che invece appoggiava il suddiacono Silverio, fervente antimonofisita. Vincitore dello scontro fu il suddiacono Silverio che, stando a quanto riportato nel Liber Pontificalis, acquistò la carica pontificia dal re ostrogoto Teodato, allora a capo di parte della penisola italica (Teodorico, re ostrogoto, divenne re d’Italia sotto il romeo Zenone dal 493 al 526 e passò il controllo della penisola ai suoi successori). Ne nacque uno scandalo dacché Silverio era il primo suddiacono, carica di second’ordine, a divenire pontefice.
Durante il primo assedio di Roma nella guerra greco-gotica, iniziato nel Marzo del 537 con l’assalto di Vitige alla città occupata da Belisario e conclusosi nel Marzo del 538, papa Silverio fu vittima di un intrigo ordito ai suoi danni dall’imperatrice Teodora e portato avanti dallo stesso Virgilio, presente a Roma come diacono. Fu recapitata a Belisario una lettera nella quale si assicurava al re ostrogoto Vitige che la porta Asinaria sarebbe stata lasciata aperta per favorire l’ingresso delle sue truppe nella città e liberarla così dalla presenza romea. Seppure la lettera fosse un falso, lo stesso Liber Pontificalis non accenna ad alcun procedimento operato da Silverio per favorire gli Ostrogoti, il pontefice non riuscì a difendersi dalle accuse che gli vennero volte da Belisario, memore del fatto che in passato Silverio avesse stretto saldi rapporti con il sovrano ostrogoto Teodato. Fu deposto e sostituito dal diacono Virgilio.
Nel bel mezzo del conflitto Teodora si assicura così la fedeltà della diocesi romana con lo scopo di avere una più salda presa sulle chiese occidentali.