Come "regalo di Yule", e come ultimo articolo prima del 2021 e delle novità previste per il prossimo anno, vi presentiamo il poema runico anglosassone, uno dei tre poemi runici giunti fino a noi.
Hailaz Wodanaz!
https://drive.google.com/file/d/168WBwU25yW89-0MWh4t3Dt0ic9iTcBEL/view?usp=sharing
Cerca nel blog
martedì 29 dicembre 2020
Il poema runico anglosassone
lunedì 7 dicembre 2020
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte VI
Ultimi protagonisti di un simile panorama travagliato furono i Longobardi. Dieci anni dopo il patto stretto con gli Alamanni, sfumata la possibilità di una liberazione franca, i gruppi indipendentisti goti identificarono nei Longobardi «[...] la potenza che forse poteva aiutarli ad allontanare il dominio di Costantinopoli dall’Italia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 85)
I Longobardi non erano estranei a tentativi d’alleanza da parte degli Ostrogoti; già nel 538 emissari del re Vitige giunsero in Pannonia per parlamentare con i Longobardi. «Purtroppo gli ambasciatori “avendo trovato Vaci (il re longobardo Wacho) amico ed alleato dell'imperatore, tornaronsene senza nulla aver concluso” (Proc., Goth., II, 22)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Un ulteriore tentativo ebbe luogo nel 549 sotto il re Totila, «[...] allorché Ildige, erede legittimo al trono longobardo, giunse con un forte esercito nelle Venezie ben intenzionato ad unirsi ai Goti. Qui “si scontrò e venne alle mani con una schiera di Romani, comandata da Lazzaro, e, voltala in fuga, molti ne uccise” (Proc., Goth., III, 35)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) Inspiegabilmente non si giunse ad un accordo fra le due parti.
Personalità chiave per comprendere il dipanarsi dei legami diplomatici e di sangue fra Goti e Longobardi è il re Audoino sotto cui nel 546 i Longobardi, in qualità di foederati[14] romei, espansero verso sud est e sud ovest il loro territorio in Pannonia. La provincia di Pannonia, da poco sottratta agli Ostrogoti, venne occupata dalle guarnigioni longobarde le quali ricevettero beneficia non indifferenti e fu in questa occasione che «Audoino aveva ottenuto di sposare Rodelinda, pronipote del grande Teodorico, e figlia dell’ultimo re dei Turingi, Ermenfrido». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Il loro figlio, Alboino, «[...] quale discendente ed erede di Teodorico – come suggeriva il Bognetti - si poteva prestare perfettamente alle mire degli Ostrogoti transpadani che ancora vagheggiavano il ripristino del loro regno in Italia. Alboino, diventato re dei Longobardi tra i primi e la metà degli anni sessanta, non sarebbe rimasto indifferente alle suggestioni dei missionari ariani inviati in Pannonia proprio dai Goti» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) e forse è anche per quanto sinora detto che Alboino intraprese la spedizione in Italia, il regno perduto dei suoi più prossimi avi.
Note
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte V
In questo gran minestrone di problemi, anche i Goti ariani entrarono in subbuglio dacché, con la Sanctio Pragmatica pro petitione Vigilii emanata da Giustiniano, nel 554 i grandi latifondisti romani ottennero nuovamente i beni e le rendite che gli erano stati sottratti dai re ostrogoti, specialmente da Totila[12], allo scopo di ripristinare l’aristocrazia senatoria. Vi fu dunque un «[...] drastico cambiamento nel panorama dei possessores, con severa riduzione della percentuale dei Goti e con aumento vertiginoso degli orientali» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 84) e persino le chiese ariane ravennati vennero spogliate dei loro beni, beni che su ordine di Giustiniano vennero assegnati all’episcopato cattolico. «Le stesse basiliche ariane furono subito reconciliatæ [...]» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 84) all’episcopato cattolico tanto che i vescovi ariani dovettero trasferirsi altrove con i loro fedeli.
Partendo da simili presupposti, i Goti superstiti scelsero di ricorrere alla mimetizzazione religiosa convertendosi al cattolicesimo ma mal sopportando la politica imperiale, che era sostenitrice di Roma, decisero di legarsi agli scismatici. Non a caso «[...] le terre di più tenace adesione allo scisma coincidevano con le aree di massima concentrazione ostrogota. Non a caso nella Venetia alcuni facoltosi goti, Amara lectur e Guderit cum suis, compaiono fra gli oblatori del nuovo pavimento musivo nella cattedrale scismatica di Sant'Eufemia a Grado (consacrata nel 579)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, pp. 84-85)
Per questa ragione frange consistenti di Ostrogoti cercarono di stringere accordi diplomatici con varie popolazioni limitrofe, come avevano in precedenza fatto con gli alamanni Buccellino e Leutari del 554[13].
Note
[12] Il regno del sovrano ostrogoto Totila era considerato illegittimo dall’imperatore Giustiniano, tanto da definire nelle Novelle ‘tyrannus’ il sovrano ostrogoto.
[13] Nel 554, come alleati, gli Ostrogoti e gli Alamanni condussero un attacco all’Italia Suburbicaria, «differentemente dai Franchi cattolici, “quelli che erano di origine alamanna, siccome erano di altra fede religiosa, spogliavano e distruggevano gli edifici sacri”». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte IV
Intanto, fra il 560 ed il 561, il patricius Narsete, stabilitosi a Roma, fu posto al vertice del governo civile[10] in Italia mantenendo il comando dell’esercito.
Fra i suoi ruoli civili vi era quello di vigilare sui culti e di curare le relazioni con la Chiesa di Roma che ancora si scontrava con gli aquileiesi; eppure Narsete, sottostando alla volontà non dichiarata di Giustiniano, si mostrò tollerante con gli scismatici.
Dopo aver riportato i confini della Præfectura Italiciana sino al Norico, strappandone il controllo ai Franchi nel 564, il patricius Narsete assegnò le tre diocesi ecclesiastiche dell’alta valle della Drava, del Gail e del Rienza - ossia quelle di Teurnia, di Agunto e quella dei Breoni - «alla giurisdizione metropolitica della scismatica Aquileia» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 82) vanificando così l’intervento del re austrasiano Clotario I che sotto Pelagio I le aveva portate sotto la sua giurisdizione[11] riavvicinandole a Roma.
Così facendo, Narsete guadagnò per Giustiniano le simpatie degli scismatici tricapitolini; solo con la salita al soglio imperiale di Giustino II, il quale perseguiva la distensione fra Roma e Bisanzio, e la fine dell’insurrezione erula del 566 nella Venetia venne messa in campo una vera e propria reazione militare contro gli scismatici. Narsete, spinto dal pontefice e dal nuovo imperatore, fece così “estradare” il vescovo tricapitolino Vitale di Altino dalla città di Aguntum, dove si era rifugiato, esiliandolo in Sicilia.
Lo scopo di Giustino II era duplice ed in totale opposizione alla politica del suo predecessore Giustiniano: evitare di dare l’idea agli scismatici, tramite concessioni di libertà, d’essere indipendenti dalla giurisdizione romea ed evitare, tramite prese di posizione religiose precarie, di destabilizzare ulteriormente un territorio già a lungo provato da guerre e cambi di potere.
Giustino scelse dunque di «[...] indulgere ai contestatari sia in Oriente che in Occidente. Tale era la percezione che se ne ebbe in Occidente sul nuovo sovrano, tanto che Venanzio Fortunato, in un suo carme del 568-69, lo celebra per aver revocato molti vescovi dall’esilio, e per aver accettato tutto quanto stabilito nel controverso concilio di Calcedonia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 83)
Note
[10] Nell’opera degli storici romei Giovanni Malàlas e Teofane il Confessore, Narsete viene citato con l’appellativo di ‘exarchus’ e dunque per questo risulterebbe il primo esarca d’Italia.
[11] Le suddette diocesi gravitavano nella sfera d’influenza merovingia sin dai primi anni delle guerre greco-gotiche.
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte III
Dacché gli aquileiesi non avevano alcuna intenzione di scendere a più miti consigli con Roma, papa Pelagio I decise di rivolgersi al potere temporale esigendo che sia il metropolita Paolo che il presule Auxano, arcivescovo di Milano che aveva consacrato Paolo patriarcha, venissero arrestati[8]. Grazie alle svariate lettere che inviò alle alle varie autorità temporali, Pelagio I ricevette il pieno supporto del patricius Giovanni di Ravenna, magister militum ed ex-consul, esponente della famiglia imperiale romea e massima autorità amministrativa nella penisola italica per conto di Bisanzio.
Giovanni fallì nel suo intento dacché non riuscì a prendere Aquileia né tantomeno a riportare gli scismatici in linea con Roma; stando ad una lectio delle lettere di papa Pelagio I, Giovanni dopo essere stato scomunicato dagli aquileiesi decise di astenersi da ulteriori operazioni e di lasciare l’incarico prefettizio nelle mani del fratello Valeriano. Pelagio I decise allora di rivolgersi al patricius Valeriano, subentrato al fratello come governatore di Ravenna nel 559, ma questi come anche il suo successore, lo stratēgos autokratōr Narsete vincitore delle guerre greco-gotiche, decisero, forse su suggerimento dello stesso Giustiniano, di non occuparsi personalmente della faccenda lasciandola nelle mani di Giustiniano stesso.
Con la morte di Pelagio I avvenuta nel 560 e la nomina di Giovanni III a vescovo di Roma, la politica della chiesa romana verso la scismatica Aquileia non cambiò affatto; il nuovo pontefice ribadì pubblicamente la validità dei decreti del concilio di Calcedonia ed impose ai nuovi vescovi suoi suffraganei di giurare su questi dinanzi a dei testimoni e di fornire prova scritta di tale giuramento[9]. Non vennero però operate azioni dirette contro gli scismatici in quanto nel 560-61 un contingente romeo, inviato ad Aquileia forse per arrestare il patriarcha Paolo, dovette desistere da questo proposito dacché fu bloccato sull’Adige dai franchi del duca Amingo i quali non vedevano di buon grado le continue intromissioni di Giustiniano nella sfera politico-religiosa della penisola italica.
[8] «Reclamava soprattutto che i publici poteri usassero come atto dovuto la loro autorità, ‘exercete igitur debitam auctoritatem’, per stroncare lo scisma in quanto focolaio di sedizione, ‘tanquam seditiosum comprimi’, che minacciava cioè l’unità dello Stato». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, pp. 4-5)
[9] «Caeterum periculosissimis temporibus Joannes pontifex animum non depondit, sed et Romanae rei labenti opem ab imperatore petiit, et synodum V defendit. Etenim ii, qui in urbium antistites consecrabantur, in synodi quintae decreta jurabant, fidei datae chirographum ad apostolicam sedem transmittebant». (cifr. Anast., Joannes III, PL128)
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte II
In risposta al sinodo di Costantinopoli, i vescovi dell’Illyricum, sul finire del 548, convocarono un sinodo nel quale una vasta maggioranza di presuli si sollevò contro la condanna che papa Virgilio aveva espresso tramite il Judicatum. Con l’inasprirsi del conflitto religioso Virgilio fuggì a Calcedonia rifugiandosi nella chiesa di Santa Eufemia dalla quale nel 552, pentito delle sue azioni, emise la lettera ‘ad universam Ecclesiam’ nella quale anatematizzava tutti coloro che avessero accettato la condanna dei tria capitula e che avessero seguito i dettami dell’editto giustinianeo del 543. In seguito a ciò, la provincia dell’Illyricum esplose, abbandonandosi a tremendi disordini. Giustiniano ne fece una questione militare tanto da dirottare verso la città illirica di Ulpiana (i.e. Giustiniana Seconda) le armate romee inviate in soccorso dell’alleato longobardo allora attaccato dai Gepidi; inutile dire che i Longobardi vennero lasciati soli a fronteggiare il loro nemico e, sotto Alboino, tennero memoria di questo tradimento. Repressa la rivolta, Giustiniano indisse nel 553 il secondo concilio di Costantinopoli, il quinto concilio ecumenico, ordinando a Belisario di convincere con ogni mezzo papa Virgilio a partecipare. Il concilio si concluse nel 554 con la definitiva condanna per eresia dei tria capitula sotto la guida di Virgilio, che si decise ad emettere nello stesso anno il suo Constitutum nel quale ribadì con veemenza questa condanna.
Di lì a poco l’intera ecclesia occidentale esplose in tumulti, certa che dietro l’ennesimo ripensamento del pontefice vi fosse Giustiniano; i vescovi di Aquileia e Milano sconfessarono gli esiti del concilio del 554 testimoniando la loro cieca fedeltà ai dettami del concilio di Calcedonia in materia di monofisismo. In questo grande caos, alla morte di papa Virgilio avvenuta nel 555, Giustiniano approfittò del vuoto di potere per far eleggere papa quel Pelagio che in passato era stato strenuo difensore dei tria capitula. Salito al soglio pontificio, papa Pelagio I decise di rinnegare la sua pasata militanza nel fronte anti-monofisita arrivando ad appoggiare in toto l’imperatore Giustiniano che conseguì così una duplice vittoria: sul soglio pontificio sedeva un uomo a lui ciecamente fedele, un uomo strappato alla fazione anti-monofisita della quale era stato esponente di spicco.
Pelagio I operò subito di conseguenza inviando il vescovo Sapaudo di Arleate (i.e. Arles) come suo vicario alla corte merovingia del re Childeberto I nella speranza di convincere quest’ultimo ad operare con ogni mezzo contro ogni forma di dissidenza religiosa. Su questo fronte Sapaudo non ottenne molti successi; riuscì invece ad ottenere la fiducia del re austrasiano pro tempore Clotario I, spingendolo ad attirare sotto il suo controllo le diocesi dei Breoni, di Teurnia e di Agunto un tempo sotto la giurisdizione della provincia ecclesiastica di Aquileia nelle Venetiae.
La reazione di Aquileia non si fece attendere. Alla morte del metropolita aquileiese Macedonio avvenuta nel 558, il suo successore Paolo convocò nello stesso anno un «particularem synodum» (cifr. Pelagio I Pap., Epist., PL 69) durante il quale, con il favore incontrastato dei vescovi e del clero delle diocesi della provincia, assunse il titolo di patriarcha proponendosi come capo autonomo della chiesa metropolitana di Aquileia. Lo scisma era compiuto e l’autocefalia da Roma oramai dichiarata.
Lo scisma contribuì con il mai sopito malcontento dell’Italia Superiore verso i romei di Giustiniano e Narsete, rei di aver usurpato il regno ostrogoto, e le crescenti mire espansionistiche franche sul nord della penisola[6] a gettare le Venetiae nell’incertezza. Di questa situazione precaria ne approfittarono molti imperatori romei, fra cui lo stesso Giustiniano[7], sbandierando la questione aquileiese dinanzi agli occhi del pontefice di turno per ottenerne il consenso.
[6] Basti pensare a ciò che accadde sul finire dei dieci anni di interregno ducale seguiti all’omicidio del sovrano longobardo Clefi nel 574; omicidio del quale o i duchi o l’esarca di Ravenna, a quell’epoca ancora sotto il controllo di Bisanzio, furono i mandanti. I duchi, spinti dalla minaccia franco-romea che premeva sui confini, misero da parte le rivalità e, donandogli metà dei loro patrimoni, giurarono fedeltà ad Autari, figlio di Clefi, eleggendolo re nel 584.
[7] «Poiché Giustiniano ormai si proponeva come guida nelle dispute cristologiche, era sicuramente funzionale alle sue aspirazioni l’indebolimento del prestigio delle antiche Chiese patriarcali». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, nota 20 pag. 4)
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte I
Note
[1] Nominato anch’egli stratēgos autokratōr da Giustiniano nel 551, subentrò a Belisario come comandante supremo dell’esercito romeo.
[2] Dottrina cristiana che negava la duplice natura, divina ed umana, della figura del Cristo.
[3] Etèra di umilissime origini, divenne sposa di Giustiniano ed imperatrice nella Pasqua del 527, più precisamente il 4 Aprile. Fu esponente di spicco della corrente monofisita a Bisanzio.
[4] Da qui ne deriva il nome comune con cui è noto lo scisma aquileiese, ossia scisma dei tre capitoli.