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martedì 31 luglio 2018

L'onore delle armi

In combattimento è necessario essere onesti e seguire una condotta onorevole, non vi è gloria nel vincere un nemico solo quando si è in gruppo o nel sopraffare un nemico disarmato contando sulle proprie armi.
Se il vostro nemico ha una mazza e voi una spada utilizzatela per fabbricarvi un randello, se ha un arco prendete le vostre frecce mentre se egli non ha nulla riponete le armi e affrontatelo corpo a corpo, in condizioni di parità. 
Questa è la nostra linea di condotta, qui scritta perché possa essere appresa e tramandata.

lunedì 30 luglio 2018

L'iniziazione nel mondo slavo pre-cristiano

Ancora oggi fra gli Slavi si sente dire "non ha i sette anni a casa" per indicare una persona ineducata e fastidiosa, giacché l'educazione elementare impartita dai genitori andava dalla nascita fino ai 7-8 anni d'età, quando i bambini venivano iniziati all'addestramento rudimentale, alla caccia, alla pesca e, più tardi, alla pastorizia e all'agricoltura. Dai dodici ai quindici anni soprattutto i giovani venivano condotti a battute di caccia e scorribande al fine di impartire loro i rudimenti della guerra e abituarli alla vista del sangue. Giunti ai sedici anni, si entrava nel mondo degli adulti tramite un rito d'iniziazione tipico delle popolazioni seminomadi rimaste ancorate alle tradizioni di tipo tribale. Dalla Polonia alla Serbia, fino alle steppe della Russia, passando per l'Ungheria, la Bulgaria, i Balcani e anche la Romania (sebbene di sangue questi non siano prettamente slavi), il rituale segue uno schema comune che il dott. Propp e il prof. Obolenskij riferiscono ad un ceppo denominato "paleoslavo" tipico, a loro dire, di una sorta di proto-civilizzazione asiatica che poi emigrò fra il I secolo A.C. e il VII secolo d.C., stanziandosi sempre più a Occidente fino all'Europa. Il rito d'iniziazione della gioventù era ovviamente diviso per genere, e le donne seguivano un rituale molto semplice, domestico, ove venivano bruciati i giocattoli e la donna veniva vestita con l'abito delle donne adulte, dopodiché veniva condotta al fiume al crepuscolo, ove accendeva un lume alla presenza della comunità e abbandonava la candela al suo fato fra le acque. Al contrario, il maschio trovava il suo rito di iniziazione nella comunità guerriera, e il luogo prescelto era la foresta, luogo iniziatico per eccellenza delle antiche tribù, nonché di notte, emblema del passaggio dall'oscurità dell'infanzia nel giorno della virilità. Alla presenza degli Anziani e dei capi clan di una regione, i giovani compivano una serie di atti di coraggio che culminavano nella "uccisione" di un totem a forma di serpente, nella trasformazione da animale a uomo (svestendosi di una pelliccia di un animale ucciso con le proprie mani) e di un sacrificio animale in onore degli Dèi (i serbi mantennero nel cristianesimo un rituale simile, ne parleremo poi). Dopodiché, i giovani riverivano gli antenati con un rituale apposito (tanto i maschi che le femmine). Al termine di questa complessa cerimonia, il giovane (e la giovane) potevano scegliere un nuovo nome "pubblico", anche diverso da quello dato dai genitori il giorno della loro nascita.
In particolare, l'uso della pelliccia come "bestializzazione" del giovane ineducato alla guerra (ancora) è entrato nell'uso, a dire del prof. Toporov, per indicare i lupi mannari o gli "orsi-mannari" diffusi soprattutto nella Russia del nord. Questi ultimi sarebbero non altro che giovani rifiutati dalla collettività (dunque non potevano svestirsi della loro pelliccia) che si davano poi al cannibalismo e alla distruzione del proprio io, a causa della mancata accettazione comune. Da qui al mito, il passo sarebbe breve.

In collaborazione con la pagina FB Slavic Polytheism and Folklore notes

domenica 29 luglio 2018

Su un certo tipo di “paganesimo”

Da parecchio tempo a questa, almeno a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso, si è venuto a formare in Occidente un “nuovo”, si fa per dire, tipo di religiosità.
Questi novello culto, figlio bastardo del pacifismo hippies e di una visione puramente cristiana della morale, si è diffuso a macchia d’olio distorcendo e rovinando tutto quanto aveva la sfortuna di capitare sotto le sue luride e schifose manacce.
Sincretico, di un sincretismo beota e non ragionato, spesso addirittura tendente alla monolatria, questo malnato culto fa della debolezza la sua ragione d’esistere.
Per esso il buddismo diviene religione di pace, così come lo sciamanesimo, che tanto invece è da legarsi alla concezioni ben più sacre e alte di predestinazione, riflessione del sé ed etica guerriera. 
Questo processo, assai malvisto dai popoli che ancora praticano le antiche vie, ha guadagnato loro il soprannome di “sciamani di plastica” e, a parere del sottoscritto, contribuito a indebolire ulteriormente una società già asfittica, soffocata dal cristianesimo. 
È necessario capire, specialmente tra coloro che praticano seriamente, che non esiste collaborazione possibile con queste genti. 
Gli Dèi non sono pacifici, men che meno pacifisti, la vita è guerra, guerra di religione.

venerdì 27 luglio 2018

Il cacciatore felice

Cammino lentamente, i miei passi risuonano sordi nella neve candida, Ullr, alto Dio, guidami.

Ti affido il mio arco, rendilo rapido nelle mie mani, e preciso nel portare a termine il suo crudele compito.

Prendere la vita per preservare la vita, questa è la sua missione.


Un fruscio, seguito da un sordo zampettare.

Gli Dèi mi benedicono, Ullr ha ascoltato la mia preghiera e mi dona un capriolo.


Incocco

Tendo

Miro


Il mio fiato caldo si gela intorno alla freccia, la temperatura sta scendendo nuovamente, non avrò di nuovo occasione di cacciare per settimane.


Rilascio la corda, la freccia sibila nella fioca luce dell’imbrunire.

Trattengo il fiato, è mio dovere di cacciatore contribuire alle scorte della tribù, la carne è alimento prezioso.


Uno schizzo purpureo, l’animale è stato ferito e subito fugge, ignaro della sua sorte, ormai segnata.


Corro veloce fra gli alberi, seguo le tracce, il sangue fresco ancora caldo e vischioso è per me guida sicura. La fortuna continua ad arridermi, inconsapevolmente il capriolo è fuggito in direzione del villaggio, questo mi permetterà di guadagnare la soglia prima che faccia buio.


In una piccola radura, in una pozza rossa sulla neve bianca, trovo la mia preda, ormai morente. Osservo un istante, ne ammiro la bellezza mentre ringrazio ancora gli Dèi, per la mia buona sorte, per la meraviglia di questa nostra terra di mezzo che ci è stata donata. 

Compare allora un lupo, solo come me, nella neve bianca.

È vecchio, ma ancora affamato, ha fiutato il sangue e si appresta a soddisfare il proprio appetito, cosa che, a giudicare dal suo aspetto, non fa da tempo.


Incocco 

Tendo

Miro

Rilascio


La freccia di nocciolo dal candido impennaggio penetra nel costato del predatore.


Non un guaito, non un ringhio, in un istante la belva mi carica.


Faccio per incoccare ma l’istinto mi suggerisce che non c’è tempo, impugno con entrambe le mani il mio nobile strumento decaduto a bastone nel terribile momento della lotto. 

Avanzo di un passo, scarto a sinistra e colpisco con tutte le mie forze.

Legno scheggiato, un tonfo. Estraggo il seax, mettendo fine allo scontro.


Il destino è ineluttabile, lo stomaco di mio figlio sarà pieno nelle lunghe notti d’inverno mentre mia figlia potrà finalmente ricavare le rune che desidera dalle costole dei due animali.

Dal destino non si può sfuggire, dal freddo si, e una pelliccia di lupo, anche se vecchio, farà il suo dovere nel scaldarmi le spalle.


Mani, alta nel cielo, mi illumina la via del ritorno, canzoni e birra aspettano e la carne di lupo, dicono gli anziani, si può intenerire bollendola.


Questa è la storia di Sigifrit, cacciatore felice, timorato degli Dèi, raccontata perché possa essere appresa e raccontata di nuovo innanzi a fuochi, corni e boccali.

giovedì 26 luglio 2018

Europa rurale

Felice colui che vive fra boschi e campi, legna nel suo camino e selvaggina nel suo piatto allieteranno i suoi inverni, così come la benedizione degli Dèi e degli spiriti di ogni luogo. 


Questa è la gioia dell’uomo rurale, dell’uomo realmente europeo in corpo e spirito. 


Nobili e contadini sono alleati in questa lotta, la vecchia aristocrazia si ergerà a difesa di quanto vi è di più sacro e vero, contro tutto ciò che è borghesia, ciò che è indistinto e putrido.


Sguardo al cielo contro i senz’anima. 

mercoledì 25 luglio 2018

I Cimbri ed i Sette Comuni

Stando a quanto raccontano fonti antiche quali ad esempio gli ‘Getica’ di Iordanes, l’altopiano dei Sette Comuni fu abitato sino al 101 a.C. da quella popolazione germanica proveniente dalla penisola dello Jutland (i.e. Danimarca) nota come Cimbri.
Questi ultimi, dopo essere stati sconfitti da Gaio Mario assieme con Quinto Lutazio Catulo nella battaglia dei Campi Raudii del 30 Luglio 101 a.C. nella quale caddero i loro re Boiorix e Lugius, scomparvero quasi totalmente dall’Italia del Nord per tornare nella loro penisola d’origine.
Alcuni gruppi sparuti di Cimbri si ritirarono sulle prealpi Venete nei pressi dell’odierna Vicenza mantenendo intatta la loro lingua.

In passato molti studiosi riconobbero erroneamente gli abitanti dei Sette Comuni come discendenti diretti delle sacche superstiti sopra descritte; fra questi vi era Anton Friedrich Busching che descrive così nella sua opera monumentale ‘Neue Erdbeschreibung’ (i.e. “Nuova Geografia”) la visita del re di Danimarca nel suddetto altopiano:

“Conservasi anche oggidì in questo Distretto l'antico Cimbrico linguaggio; o per meglio dire l'idioma Sassone moderno; ma con tanta perfezione che abboccatosi con alcuno di questi abitanti Federico IV Re di Danimarca, il quale trovandosi in Italia nel 1709 incredulo sì della loro origine, come del linguaggio, volle personalmente riconoscere la verità col visitare il Distretto, e protestò che nella sua Corte non si parlasse così forbitamente.”

In realtà gli abitanti dei Sette Comuni, anch’essi noti come Cimbri, discendono da gruppi di bavaresi ed austriaci che tra il 983 ed il 1122 si spostarono in quelle zone spinti da incentivi offertigli da vescovi di origine tedesca della diocesi di Vicenza, i quali diedero ai coloni l'autorizzazione a stanziarsi nel territorio dei Sette Comuni ed a renderlo coltivabile.
Fu il dialettologo tedesco Johann Andreas Schmeller a postulare in uno scritto del 1834 questa teoria; egli comprese che la parlata dei Cimbri fosse assimilabile al Medio Alto Tedesco.

Resta però nella toponomastica di quei luoghi un forte richiamo alla mitologia delle genti dello Jutland; basti pensare alla cima XII, la vetta più alta dell’altopiano, nota con il nome di ‘Ferrozzo’ od alla ‘Freyent-aal’ (i.e. “Val Frenzela”) località dedicate a Freyja od al ‘Ferac’ monte il cui nome origina da ‘Frea-ac’ (i.e. “dimora di Frea”).
Vi sono poi siti dedicati alla dea Mara come la ‘Mart-aal’ (i.e. “valle di Mara”) la valle che separa Rotzo da Roana e la sorgente ‘Mar-ghetele’ (i.e. “orticello di Mara”).
Altre località richiamano il dio Thor come il ‘Thor-helle’ (i.e. “monte di Thor”) sito nei pressi dell’Ortigara ed ora noto come cima della Caldiera.
La dea sassone Ostera è ricordata nello scoglio che sovrasta Pedescala, detto ‘Oster-steela’ (i.e. “rupe di Ostera”), ed in Foza nella contrada chiamata appunto Ostera.
Il ricordo di altre divinità menzionate nell'Edda islandese è rimasto in svariate forme; il nome di Baldr (i.e. il figlio di Odino che fu ucciso involontariamente da suo fratello Höðr con un ramoscello di vischio portatogli da Loki) è ricordato dal folletto od orco Baldrich del folklore locale. Lo stesso Höðr diede il nome alla collinetta ai cui piedi si trova l'ex stazione ferroviaria di Asiago e che una volta era detta ‘Hode-gart’ (i.e. “orto di Höðr”).
L'Edda, fra le altre divinità, nomina anche una certa Skada, figlia del gigante Thiasse: questa dea è ricordata dal nome del paese di Treschè Conca di Roana, che un tempo in cimbro era chiamato appunto Skada.

Fonti:
- Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, Antonio Domenico Sartori.

martedì 24 luglio 2018

Lo sputo ed il mito di Kvasir

L’uomo arcaico riteneva che lo sputo avesse proprietà magiche dettate dalle intenzioni di colui che compiva l'atto pratico dello sputare. Lo sputare e quella pletora di riti incentrati sul sangue presentano molti punti in comune essendone protagonisti in entrambi i casi dei fluidi necessari alla vita. Ancora oggi si associano questi due fluidi agli stati d'animo; l’ira fa ribollire il sangue, si sputa per disprezzo, si sputano parole di odio, la salivazione aumenta davanti alle leccornie mentre si riduce nel momento in cui si ha paura.

Nella mitologia antica, alla stregua del respiro o della parola divina, lo sputo è un vascello usato per generare nuova vita; è esemplare il caso della divinità egiziana Atem che genererò i suoi due figli Shu e Tefnet - il primo è personificazione divina dell'aria e del respiro mentre la seconda è la dea dell'umido (i.e. richiamo allo sputo) - sputandoli fuori dalla bocca, luogo in cui erano stati generati.

Altro esempio di narrazione nel quale dall'atto dello sputare si origina nuova vita mitologia è parte integrante della mitologia scandinava. Gli Æsir ed i Vanir sputarono in una coppa come segno di riconciliazione dopo un lungo conflitto - l’atto dello sputare per alcune genti è principio inderogabile per stipulare un’alleanza; basti pensare che tuttora in Africa orientale due individui stringono amicizia sputandosi reciprocamente in bocca.
Da quello sputo gli Æsir diedero vita ad un uomo chiamato Kvasir, segno vivente della novella pace. Egli pur essendo l'essere più saggio mai esistito non potè scampare al suo fato; fu infatti assassinato dai due nani Fjalarr e Galarr i quali, mescolando il suo sangue con il miele e lasciandolo fermentare, diedero origine ad una bevanda che era fonte di somma ispirazione poetica; l'idromele.
In seguito Odino decise di recuperare questo idromele che era divenuto dopo varie peripezie il tesoro prediletto del gigante Suttungr; Odino con l'inganno riuscì a berne ogni goccia ed a portarne gran parte ad Ásgarðr dove lo vomitò in una grande coppa ma nel fuggire da Suttungr ne perse molte gocce che divennero fonte d'ispirazione di quei bassi poeti che non sono ispirati dagli Dèi. Ecco che sputo e sangue divengono fra loro indistinguibili in quanto l’uno trasforma l’altro e divengono assieme con l’idromele sorgenti d’ispirazione per guerrieri e poeti.
Il fatto che Kvasir sia dotato di grande saggezza è dovuto alla sua nascita dalla saliva degli Dèi; si potrà arguire che le salive divine portano saggezza proprio per la loro natura divina ma presso diverse culture antiche ed attuali sono presenti riferimenti alla saliva - sia essa umana od animale - come portatrice di saggezza. In una fiaba macedone un serpente, per ringraziare un uomo che lo ha salvato, gli sputa in bocca e grazie a questo gesto l’uomo riesce a comprendere ed a parlare fluentemente il linguaggio degli animali o - secondo altre versioni della stessa - acquisisce virtù profetiche (Eschker, 1998: 141, 206). Vi sono alcuni casi in cui la saliva e lo sputo assumono valenza opposta divenendo detrattori di saggezza. In alcune versioni del mito greco di Glauco, il medico-indovino Polyidos, dopo aver insegnato a Glauco l’arte della mantica e volendo che la sua mente se la dimenticasse, gli sputò in bocca (Paladino, 1978).

La saliva è anche strumento d'iniziazione; basti pensare al caso dei Luba dello Zaire. Per essere iniziato come stregone della tribù, un individuo deve bere una mistura contenente la saliva degli anziani tutti. Compiendo questo gesto il novello stregone viene benedetto dagli anziani i quali eserciteranno su di lui un totale ed eterno controllo.

La saliva ha anche una valenza protettiva; basti pensare che nell'Europa meridionale ogni elogio è spesso accompagnato dallo sputare al fine di allontanare il malocchio - alcune genti, temendo l’invidia e l'ira degli dei, sono solite sputare per ben tre volte.
Un tempo nell'Europa occidentale si era soliti sputare in terra qualora si fosse incontrato od un gatto nero od una gazza - animali di norma associati alle streghe - qualora si fosse pronunciato il nome di una persona morta al fine di scongiurarne il ritorno. Si era soliti poi sputare prima di buttare via unghie e capelli al fine di scongiurarne un nefasto uso da parte di streghe.
Sputando si invoca la buona fortuna; basti pensare a quando un individuo sputa sulle proprie mani prima di iniziare un lavoro difficile.

L'usare la saliva come "fluido di guarigione" è infine una pratica adottata in varie parti del mondo; basti pensare a Maometto che per guarire mescolò assieme argilla e sputo e ne fece un cataplasma ed al Cristo che tramite una mistura di sputo e argilla restituì la vista ad un cieco. Le genti dell’arcipelago indonesiano di Babar, qualora dovessero ammalarsi, sono solite sputare dentro un recipiente che una volta sigillato viene posto su di una barca fra i flutti dell'oceano.
In alcuni racconti popolari il protagonista riottiene la facoltà di parola tramite lo sputo; in altri la possessione demoniaca del protagonista viene esorcizzata con lo sputo che allontana così il maligno.
Oltre al diffuso valore terapeutico della saliva, esistono casi etnografici, tuttora carenti di studi specifici, in cui la saliva possiede un valore simbolico e rituale come elemento portatore di saggezza. Fra i Chibcha colombiani la saliva dello sciamano (cacique) è considerata sacra e svolge un ruolo cerimoniale importante nella preparazione rituale della chicha. E’ noto anche che presso diverse tribù del nordest brasiliano la saliva assume valori terapeutici seguendo un’articolata differenziazione fra saliva ottenuta in seguito a prolungato digiuno (“sputo vergine”), saliva del fumatore di pipa di tabacco, saliva del masticatore di foglie di tabacco, ecc. (Gonçalves da Lima, 1990: 332).

Tratto dall’enciclopedia delle religioni diretto da Mircea Eliade, volume 4 – annmari ronnberg. Per la bibliografia dettagliata vedere il volume 4, nel paragrafo dedicato alla saliva.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

domenica 22 luglio 2018

Il sangue nelle varie culture, epoche e riti

Nelle religioni del mondo il rapportarsi nei confronti del sangue è spesso ambivalente e contraddittorio; a volte ciò rientra nella sfera del Sacro altre in quella di ciò che è Profano. Il sangue può essere portatore di vita come anche di morte; esso può essere emblema di purità od impurità. Il maneggiare il sangue può essere proibito od invece obbligatorio; resta il fatto che la valenza del suddetto gesto è molto forte e colma di significato, ragion per cui questo maneggiare è appannaggio di individui particolari quali guerrieri, sacrificanti, macellai e boia.
In molte società primitive il sangue veniva considerato come elemento costitutivo dell’anima umana, animale e perfino vegetale. Per i Romani esso era sedes animæ (i.e. "sede dell'anima"). Per gli Arabi dell'epoca preislamica era assimilabile a quell'anima in forma liquida che permane nel corpo dopo la morte nutrendosi di libazioni. Per gli Ebrei la vita della carne è nel sangue tanto che nella Genesi vi è il divieto di consumare carne cruda "soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue". Gli Irochesi, gli Sciti, gli antichi turco-mongoli ed i governanti dell’impero ottomano imposero alle loro genti il divieto di versare sangue di stirpe regale.
Tra i turchi e gli islamici del XVI secolo non si diveniva adulti, ossia non si acquistava nome ed anima, fin quando non si fosse commesso il primo delitto. Per variegate popolazioni, quali ad esempio gli indiani Dakota ed i Samurai giapponesi, una morte cruenta era preferibile se non migliore di una morte per cause naturali.
In passato la credenza che il sangue contenesse la vita diede vita a diverse usanze; ad esempio Erodoto narra che i guerrieri Sciti bevevano il sangue dei primi nemici da loro uccisi ed a volte svolgevano delle abluzioni rituali con esso al fine di assorbirne le qualità.

La vastità dei tipi di atteggiamenti differenti riguardanti il sangue sono divisibili in due macro-categorie sulla base della provenienza del suddetto:

- Il sangue degli stranieri, degli estranei o dei nemici della comunità non è soggetto ad alcun divieto rituale in quanto di rado è considerato pregno di significato. Una possibile giustificazione nello scendere in guerra è nella necessità di versare sangue al fine di irrigare la terra.
- Il sangue dei membri della propria comunità è invece trattato in maniera differente. L’atteggiamento nei confronti del sangue e dell’omicidio è totalmente diverso in quanto i membri sono legati da consanguineità ed il sangue di uno è in senso letterale il sangue della comunità tutta; l’omicidio all’interno della comunità era proibito in quanto il versare il sangue della comunità tutta equivaleva ad una maledizione che graverà su molte delle generazioni successive come avvenne per l'uccisione di Abele commessa da Caino o per l'uccisione del padre commessa da Edipo. 

L’omicidio tra famiglie e clan differenti è un reato gravissimo a cui si risponde solitamente con vendette che innescano "faide di sangue" o "vendette di sangue"; queste vengono interrotte solo quando il sangue versato ripaga del reato commesso. Nell'odierna Corsica come pure fra la confederazione tribale dei Nuer del Sudan ancora vale questa pratica ancestrale simile alla legge mosaica "occhio per occhio, dente per dente".
L’entrata di uno straniero in una comunità a lui estranea è regolata da ritualità ben determinate. Il matrimonio è una di essa; è usanza dei Fon dell’Africa occidentale e delle popolazioni centroasiatiche che il contrarre un matrimonio dia diritto a fregiarsi del titolo di "fratello di sangue". La giustapposizione di tagli praticati sui polsi è un altro rituale dei suddetti così come bere da una coppa - turchi, sciti e tibetani impiegavano calotte craniche come coppe per libagioni - gocce di sangue mescolate con del vino (i.e. sangue della vite).

Il “patto di sangue” - patto fra uomini e fra uomini e Dèi - è caratteristica comune di variegate e numerose culture. Le popolazioni centroasiatiche e siberiane usano tagliare in due un cane per sigillare un trattato o un giuramento, garantendo così la propria fedeltà. Il patto tra Dio e le genti d'Israele narrato nella sezione biblica dell'Esodo è esemplificativo della forza protettrice del sangue in quanto gli Ebrei usarono il sangue per marchiare le porte delle loro case per segnalarne l'appartenenza alla comunità d'Israele ed allontanare da esse la punizione divina; l’usanza di usare il sangue per imbrattare stipiti e porte la si ritrova in Indonesia.

Il versare sangue può eliminare imperfezioni e debolezze; esempi principi di ciò sono il martirio e la circoncisione. Anche la clirotidectomia australiana - un giovane cosparge un vecchio con il proprio sangue per ringiovanirlo - ne è esempio pregnante.

Il sangue mestruale - essendo il suo flusso involontario ed incontrollabile - è considerato come sommo portatore d'impurità tanto che presso alcune popolazioni le donne mestruanti vengono identificate come portatrici di gravi pericoli ai quali gli uomini sono soggetti. Alcuni ritengono che l'interruzione del flusso mestruale durante la gravidanza tutta sia dovuta alla necessità di non contaminare il feto con sangue impuro. L’impurità si presenta indirettamente come funzione dell’atto sessuale o del versamento di sangue vaginale durante il parto.

Tratto dall’enciclopedia delle religioni diretto da Mircea Eliade, volume 4 – Jean Paul Rox. Per la bibliografia dettagliata vedere il volume 4, nel paragrafo dedicato al sangue.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

sabato 21 luglio 2018

Thunor

E così corse, a perdifiato, per i boschi della Northumbria e le pianure del Caucaso, per gli acquitrini dei sassoni e fra le valli degli svioni. 
Grandi Re e signori lo adorarono, molti sacrifici gli vennero tributati, e così templi e luoghi sacri, egli lottò per i figli degli uomini, anche quando questi lo rinnegarono in nomi di una divinità straniera. 
Egli era e rimase, così come ora è.
Protettore dei mondi, Ǫkuþórr, amico degli uomini, flagello degli Jǫtnar.

venerdì 20 luglio 2018

Saviezza arcaica

Quando uomini savi siedono in assemblea è da stolti non chiedere un posto, se questo ci spetta, l’uomo impara dall’uomo, come il lupo dal lupo e la volpe dalla volpe. 

Sedersi fra i propri pari, ascoltare a lungo prima di parlare, saldi in sé stessi, consapevoli, se giovani, di quanto sia necessario temperare i propri discorsi nella saggezza degli anziani e consci, se anziani, dell’importanza dell’irruenza dei giovani. 

Ritualità arcaica, stretta osservanza della stessa, fedeltà tribale, questo è il mondo eterno che verrà.

giovedì 19 luglio 2018

Idromele

Nelle aule dalle innumerevoli porte, schiere di Dèi e d'eroi d'ardimento ammantati si accingono seduti su lunghe lignee tavolate a bere sorsi di quella chiara bevanda, di quel coraggio liquido che è carburante dai dorati riflessi per lo spirto di chi osa.
È questo un peregrinare nel proprio profondo alla ricerca del proprio io, è l'essenza del vivere racchiusa nelle risa che mescolandosi ai racconti ed ai canti in onore di lontani Bretwaldan si levano sino alle alte travature annerite dai fumi del focolare. Lassù creano quella magnifica e terribile sinfonia che ci accompagna durante il nostro vivere.
Sono i campi in fiore e le operose api, stendardieri della natura, che ci offrono questo dono.
Esiste forse iniziazione più grande?

Riccardo Ghergia in collaborazione con le vie di Wodanaz

mercoledì 18 luglio 2018

Lo spazio geografico della prima civiltà slava

Le prime testimonianze dirette sulla civiltà slava risalgono solamente al VI secolo d.C, quindi agli inizi del medioevo, quando gli slavi entrarono in contatto con il mondo mediterraneo. Sorge spontanea allora la domanda: qual era il loro luogo d'origine? Da dove venivano?
In assenza di indicazioni probanti derivate dall'archeologia e dalla storia delle fonti, il territorio slavo delle origini non ci è noto con precisione: possiamo soltanto farcene un idea.
Vi sono in particolare diverse tesi:

- La tesi orientalista -

Secondo la "tesi orientalista", che in passato è stata sostenuta da autorevoli studiosi di origine ceca e russa, lo spazio geografico della prima civiltà slava si collocherebbe in un'area compresa fra i Capazi, il Dnestr e il Dnepr - il fiume che attraversa l'odierna Keiv -, estendendosi dunque dai boschi dei Carpazi alla pianura stepposa. L'assenza di un nome slavo comune per il faggio, il larice e il tasso, infatti, aveva convinto che l'habitat originario degli slavi dovesse essere situato al di là del limite di vegetazione di questi alberi, ovvero a est di una linea immaginaria che unisce Kaliningrad (Konigsberg) a Odessa, e cioè nell'area della betulla, che ha invece un nome di origine slava comune. Alcuni studiosi hanno poi ristretto il territorio delle origini al bacino paludoso del Pripjat fra Dnestr e Dnepr, fondandosi su un'iterpretazione geografica dell'etnomio "slavi", secondo cui la radice slov-/slav deriverebbe da skloak-/sklav-, equivalente al latino cloaca, con il significato di luogo paludoso o acquitrino. Alle pendici più esterne dei Carpazi, all'incirca nella Galizia (Ucraina), sono presenti inoltre una serie di idronimi slavi che non mostrano altri sostrati precedenti. La lunga permanenza degli slavi in questa area, lontana dai territori conquistati dall'impero, giustificherebbe il silenzio delle fonti greco-romane.
Nel VII secolo a.C. in questa stessa area giunse dalle steppe la popolazione iranica degli sciti, che intrattenne duraturi rapporti con le colonie greche sul mar Nero. Ce ne parla lo storico Erotodo, che distingue in questa popolazione gli sciti "guerrieri" dagli sciti "agricoltori". Gli sciti guerrieri rappresenterebbero le popolazioni nomadi che si spostavano a cavallo, mentre gli sciti agricoltori, legati alla terra, rifletterebbero le caratteristiche della civiltà contadina degli slavi. Si propone anche l'identificazione degli slavi con i neuri, una popolazione di cui parla sempre Erotodo, che sarebbe affine agli sciti. A partire dal III secolo a.C. questo popolo fu sconfitto e assimilato da una nuova popolazione di stirpe iranica, i sarmati, che diedero il nome alla vasta regione stepposa, chiamata pianura sarmatica, estendendo il loro dominio fino al'area danubiana. Il contatto con queste popolazioni di stirpe iranica spiegherebbe fra l'altro l'origine del più antico lessico religioso slavo.

- La tesi occidentalista -

Promossa in paricolare da alcuni studiosi polacchi nel periodo fra le due guerre, la "tesi occidentalista" poneva invece il territorio della prima civiltà slava in un'area che in gran parte coincide con l'odierna Polonia, difendendo così l'autoctonia degli slavi in quest'area dell'Europa orientale. Secondo questa interpretazione, infatti, la protopatria degli slavi si collocherebbe fra l'Oder - il fiume che rappresenta l'odierno confine fra Germania e Polonia - la Vistola e il Bug, in un terreno paludoso e boscoso. Furono decisivi, in questo senso, alcuni studi che dimostrarono come le condizioni climatiche dell'Europa preistorica fossero diverse da quelle moderne, e che non solo il bacino del Pripjat, ma anche tutta l'area che si estende fra l'Elba, l'Oder, la Vistola e il Bug era esclusa dalla zona del faggio, del larice e del tasso. Anche l'interpretazione geografica dell'etnomio "slavi" sembrava del resto trovare una sua giustificazione. Successivamente T. Lehr-Spławiński propose di estendere quest'area ben al di là della Vistola fino al Dnepr, trovando un compromesso con la tesi precedentemente esposta.

- La tesi danubiana -

In passato è stata avanzata l'ipotesi che gli slavi fossero stanziati già da tempi immemorabili nella pianura attraversata dal medio Danubio, che aveva preso il nome della provincia romana della Pannonia (pianura pannonica), un territorio che fu a lungo conteso dall'impero alle tribù germaniche e che corrisponde all'odierna pianura ungherese (puszta). Questa ipotesi, corroborata da fonti autorevoli come la Cronaca degli anni passati, la più antica cronaca slava, è stata recentemente ripresa dallo studioso russo O.N Trubačev (1930-2002), che fa riferimento non solo a una Scizia molto più spostata a occidente, ma anche a una serie e etnonimi, come ad esempio il termine narci, sempre nell citata Cronaca, che potrebbe derivare dal latino Noricum, e ad alcune iscrizioni, come quella risalente al II secolo al Dio Dobrato, il cui nome rimanda alla radice slava dobr-.
La presenza degli slavi in quest'area strategica per l'impero romano, tuttavia, non sarebbe potuta passare inosservata, e gli storici greci e latini non avrebbero mancato di darne notizia. Rimane, dunque, ipotetica la presenza in massa degli slavi in quest'area prima del del VI secolo, quando i longobardi emigrarono nella penisola italiana, anche se alcune fonti storiche sugli unni, e in particolare sul funerale di Attila, farebbero pensare alla loro presenza in Pannonia, già nel V secolo. A proprosito del banchetto funebre lo storico Giordane parla di <strava> , termine presnete nelle lingue slave. In ogni caso il bacino del Danubio ha rappresentato per una fase storica assai lunga, almeno fino all'arrivo degli ungari nel X secolo, un'area di fondamentale importanza per la formazione della civiltà slava.

- Un'interpretazione di compromesso -

Oggi, comunque, sembra dominare un'interpretazione di compromesso sulla protopatria che allarga la fascia dell'area geografica occupata dalla prima civiltà slava dalla Vistola al Dnepr, come già aveva ipotizzato lo studioso ceco L. Niederle (1865-1944), e che in qualche modo sarebbe giustificata dalle continue spinte che le tribù slave dovettero ricevere nel corso delle migrazioni sia dalle popolazioni germaniche sia dalle popolazioni asiatiche che a partire dagli unni sconvolsero l'Europa centrale e orientale. Quest'ipotesi, trova supporto nei due principali sostrati del lessico slavo comune, iranico e germanico, come anche nella più generale convergenza negli sviluppi fonologici del protoslavo con il protogermanico e il protoiranico.
Merita infine attenzione l'interpretazione di F. Curta: l'identità degli slavi si sarebbe formata non nello splendido isolamento di un'ipotetica protopatria, ma quando la loro civiltà venne in contatto con l'impero romano, ormai ai tempi dell'imperatore Giustiniano, e quando Constantinopoli, percepito chiaramente il pericolo di nuove invasioni, elaborò un'articolata politica nei Balcani.

Fonti:
- Gli slavi. Storia, culture e lingue dalle origini ai nostri giorni, Marcello Garzaniti

In collaborazione con la pagina FB Slavic Polytheism and Folklore notes

lunedì 16 luglio 2018

L’arco, il bastone, la spada

La società moderna vive di (pie) illusioni, fortemente voluta da imbelli e vigliacchi è fatta a loro uso e consumo, nemica di tutto ciò che è eccezione, o addirittura eccellenza, tende a piallare ogni cosa con il preciso intento di creare una realtà globale il più possibile omogenea e quieta, una massa indistinta che non desideri nulla più che le insipide gioie che il consumismo può offrire.

Le sue radici sono da ricercare nelle varie dottrine universaliste che, nel corso dei millenni, hanno avvelenato anime e cuore in ogni continente, in quel cristianesimo che vuole tutti gli uomini uguali davanti ad un Dio, nel socialismo di ogni matrice, fascista o comunista che sia,  che vuole tutti gli uomini uguali di fronte allo stato e nel capitalismo che vede in tutti gli uomini uguali entità di consumo. 
Tutti gli universalismi vogliono che gli uomini siano deboli e sottomessi, disposti a sacrificare ogni barlume di identità. 
Preti, commissari, podestà e mercanti appartengono alla stessa medesima razza.
In questo desolante panorama l’esercizio delle proprie doti naturali, all’aperto, lontano da ogni moralità imposta ed ogni vizio acquisito, rappresenta l’unico vero mezzo di affermazione della propria essenza, non un semplice sistema per tenersi pronti ma un vero e proprio percorso spirituale che permetta di riprendere contatto con quelle forze ancestrali che la modernità ha allontanato, non potendone accettare, per ignavia e debolezza, l’esistenza.
Allenatevi quindi, vagate per boschi e campi, sacrificate agli Dèi e agli spiriti, riprendetevi ciò che di più prezioso possedete: la vostra anima. 
E fate in modo che nessun predicatore orientale o mercante occidentale possa nuovamente rubarvela.

domenica 15 luglio 2018

Alarico dei Balti, parte II

Quando Alarico si vide negati riscatti e ricompense dalla città, ottenuti i quali avrebbe tolto l’assedio, decise di entrare nella città per la Porta Salaria nella notte del 14 Agosto 410 e la saccheggiò per tre giorni.

In molti raccontano di come Alarico non saccheggiò l’intera città ma si concentrò nelle zone dove stavano le ville dei senatori e di come il suo agire fosse un agire simbolico e non pratico; visione del sacco quest’ultima alquanto idilliaca.

Giorgio Ravegnani nella biografia su Galla Placidia afferma invece che il sacco fu molto più tremendo di quanto è stato tramandato sino a noi.
Il sacco di Roma fece enorme scalpore; pur non essendo Roma la capitale dell’Impero essa era il simbolo di quest’ultimo ed era rimasta inviolata sin dai tempi di Brenno. Ne nacque una forte polemica fra membri dell’intellighenzia cristiana fra i quali si distinsero Agostino ed Orosio ed autori politeisti come Claudio Rutilio Namaziano.
I primi accusarono i politeisti di essere responsabili del sacco di Roma inteso come diretta manifestazione dell’ira divina, i secondi invece accusarono i cristiani di aver indebolito l’esercito ricordando di come il sacro fuoco di Vesta, fatto spegnere da Flavio Teodosio nel 391 con l’abolizione dei culti politeisti, avesse protetto per secoli la città dalle aggressioni esterne.
Ravegnani ricorda al lettore che la maggior parte degli scritti prodotti in questo frangente furono scritti cristiani e che in queste opere gli autori sminuissero gli effetti del sacco di Roma ché i Visigoti non potevano certo saccheggiare in maniera drastica la città di Pietro; Orosio arrivò a sostenere che i cittadini romani dovevano ritenersi fortunati del fatto che Cristo avesse inviato l’accondiscendente Alarico per punirli e non l’ostrogoto Radagasio noto per la sua brutalità.
Ravegnani ci ricorda di come i saccheggi dei barbari non fossero affatto lievi ed indolori e di come gli autori politeisti scrissero di tremende devastazioni a cui furono soggette Roma e le campagne limitrofe, citando per avvalorare la sua tesi degli estratti dal poema in distici elegiaci ‘De reditu suo’ che Claudio Rutilio Namaziano scrisse come per piangere la decadenza della Pars Occidentis.

Il sacco dell’Agosto 410 fu quindi grave ma non si protrasse a lungo. Portando seco col bottino la bellissima Galla Placidia sorella di Onorio, Alarico si diresse verso il Sud, forse con l'intenzione di passare in Africa. Ammalatosi per via del clima del Meridione lo colse morte improvvisa nei pressi di Cosenza.
Stando a quanto racconta lo storico goto Iordanes nei ‘Getica’, Alarico I re dei Visigoti fu sepolto nell'alveo del fiume Busento assieme con l’ingente bottino ricavato dal sacco della città di Roma.

sabato 14 luglio 2018

Alarico dei Balti, parte I

Alla morte di Flavio Teodosio avvenuta il 17 Gennaio del 395 l’impero romano era stato nuovamente diviso fra i suoi figli nelle due sezioni amministrative delineate da Diocleziano.
Flavio Arcadio divenne così imperatore della Pars Orientis mentre Flavio Onorio ottenne la Pars Occidentis ma essendo questi ancora minorenne la reggenza fu affidata al vandalo Stilicone affiancato da Elia Galla Placidia, sorellastra di Arcadio ed Onorio in quanto figlia di Galla e non di Flaccilla.
A differenza del fratello maggiore, Onorio fu ostaggio della sua inadeguatezza e della sua indecisione e proprio di quest’ultima approfittò il Senato stanco della politica troppo docile nei confronti dei germani sinora portata avanti da Stilicone nella Pars Occidentis.

Nel 396 la difesa dei confini della Pars Orientis dell’impero approntata da Arcadio fu messa a dura prova dagli attacchi degli Unni che nello stesso anno invasero la Tracia.
I Visigoti che si erano stanziati all’interno della Pars Orientis in seguito agli attacchi degli Unni del 376 e che nel mentre erano stati riconosciuti come fœderati (i.e. “alleati”) da Flavio Teodosio nel 382 si ribellarono contro Arcadio e lo accusarono d’incapacità approfittando dei suoi insuccessi militari con lo scopo malcelato di ottenere nuove concessioni da parte dei romani.
A capo di questa sollevazione vi era Alarico, un goto appartenente alla famiglia dei Balti (i.e. dal gotico balþa “audace”) acclamato re dai Visigoti tutti nel 395.
Il ricordo della tremenda sconfitta del 378 inflitta ai romani dai Visigoti nella piana di Adrianopoli e la morte dell’allora imperatore Flavio Giulio Valente era ancora vivo e pulsante. Fu per questo che Flavio Arcadio decise di opporsi alle schiere guidate da Alarico che intanto saccheggiavano le campagne intorno a Costantinopoli. I Visigoti si diressero poi contro la Grecia saccheggiandola.
Dopo aver firmato un trattato di pace con Costantinopoli nel 398 e dopo aver ricevuto la carica di magister militum per Illyricum, nel 401 Alarico si volse con le sue armate verso l’Italia di Onorio e Stilicone forse spinto dallo stesso Arcadio che da tempo voleva liberarsi dei riottosi Visigoti come pure del generale Stilicone, inviso alla Pars Orientis per via del forte ascendente che aveva su Flavio Onorio.

L’ostrogoto Radagasio decise di scendere dalla Rezia in Italia al fine di dare sostegno ai Visigoti.
Stilicone cercò di preparare al meglio le difese spostando la capitale della Pars Occidentis dalla città di Milano a Ravenna essendo quest’ultima più difendibile. Stilicone riuscì a sconfiggere Alarico per ben due volte, la prima il 6 Aprile 402 a Pollenzo e la seconda nel 406, ricorrendo alle legiones limitaneæ stanziate sul confine del Reno. Mai il generale vandalo compì errore più grave di questo.
Fra il 406 ed 407 le popolazioni barbare stanziate oltre il Reno che erano in stretti rapporti con i romani approfittarono di questa situazione ed oltrepassarono il limes facendolo collassare. Fu così che Franchi, Vandali ed Alani invasero la Gallia.
Gli eventi travolsero Stilicone che nel 408 fu accusato di incompetenza da parte del Senato, scontento del fatto che il generale fosse sceso a patti con i Visigoti dopo averli sconfitti concedendogli di occupare il Norico. Il generale fu per questo accusato di tradimento e con il tacito assenso di Onorio fu condannato a morte.
I patti fra Impero e Visigoti vennero meno con la morte di Stilicone; il nuovo primo ministro di Onorio, il magister officiorum Olimpio, in perfetto accordo con il Senato decise di agire con pugno di ferro contro i barbari.
In alcune città i legionari trucidarono le famiglie dei mercenari di stirpe germanica che riempivano le fila delle legioni romane. Questi si unirono all’esercito di Alarico istigandolo ad invadere l’Italia in modo da vendicare il massacro delle loro famiglie. Alarico cercò di nuovo la negoziazione con la corte imperiale ma Olimpio rifiutò ogni compromesso.
Alarico sentendosi tradito decise di scendere dal Norico nel 409 sino ad arrivare a assediare la stessa Roma nel 410.

venerdì 13 luglio 2018

L’uomo libero segue il valoroso

L’assemblea in armi, emblema di tutti i popoli germanici, perfetta rappresentazione dello spirito fiero e libero di quelle genti, spesso oggetto di politicizzazioni poco consone a quella che era la sua vera natura, questa da entrambe le parti del carrozzone politico, strumentalizzata in ogni modo possibile ed immaginabile.

“Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su quelle più
 importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo
 subiscono un preventivo esame da parte dei capi. Si radunano, tranne casi
 di improvvisa emergenza, in giorni particolari, nel novilunio o nel
 plenilunio, perché credono che siano i periodi più favorevoli per prendere
 iniziative. Non contano il tempo, come noi, per giorni, ma per notti; con
 tale criterio fissano date, così si accordano: per loro è la notte che
 guida il giorno. Dal loro spirito di libertà deriva questo inconveniente,
 che non si presentano alle riunioni contemporaneamente, come dietro
 comando, ma perdono due o tre giorni per l'attesa dei partecipanti. Quando
 la massa dei convenuti lo ritiene opportuno, siedono in assemblea, armati.
 Il silenzio viene imposto dai sacerdoti che, in quelle occasioni, hanno
 anche il potere di reprimere. Quindi prendono la parola i re o i capi,
 secondo l'età, la nobiltà, la gloria militare e l'abilità oratoria e li
 stanno ad ascoltare più per l'autorevolezza che hanno nel persuadere che
 per l'autorità. Se le idee espresse non piacciono, manifestano 
 disapprovazione con mormorii; se invece piacciono, battono insieme le
 framee: il plauso espresso con le armi è il più onorevole.”

(Tacito, Germania)

Citiamo quindi Tacito che, nel suo “Germania” fa riferimento per la prima a queste assemblee, elemento tipico della società da lui analizzata e componente centrale della vita comunitaria e tribale. 
I capi, a differenza che nel mondo mediterraneo, non hanno potere assoluto, anzi, devono temperarsi innanzi al volere dei liberi, sono inoltre spronati a dimostrare sempre il proprio valore allenando carisma, autorevolezza e prestanza fisica, le doti principali, che mai dovrebbero mancare ad un capo degno di essere chiamato tale. 

“In battaglia poi è disonorevole per un capo lasciarsi superare in
 valore ed è disonorevole per il seguito non eguagliare il valore del capo.”

(Tacito, Germania)

Quale differenza con quanto avveniva nelle terre “civilizzate”, nelle quali il mefitico influsso della civitas permetteva (e permette tuttora) ad imbelli e vigliacchi di comandare su uomini migliori di loro, è questo il vero affronto alla verità, la vera e profonda ingiustizia di ogni tempo
.
Nessuno, nemmeno un capo, anzi, specialmente un capo, deve essere sollevato dal dimostrare il proprio valore. 
Questo è il nostro credo, forti nella fede negli Dèi e nel riconoscimento della verità noi auspichiamo una nuova era di capi degni e sani.

giovedì 12 luglio 2018

Le Ossa e le Fiabe, parte III

La conoscenza senza condizionamenti delle usanze e delle storie altrui permette di ricostruire un quadro più ampio di alcune pratiche che vengono tramandate da secoli o migliaia di anni.

Nei nostri tempi molti ormai utilizzano le ossa per le ritualità più disparate ad esempio incidendole. Viene spontaneo il chiedersi quante di queste persone abbiano svolto accurate ricerche al fine di poter utilizzare le ossa al meglio; ricerche scevre di condizionamenti che dovrebbero essere portate avanti da ogni persona che decida di rapportarsi alle ossa ed agli spiriti quando invece molti sono soliti affidarsi alle parole dette da figure che godono di fama popolare e si adagiano su quel poco che gli viene detto e spesso anche sbagliato.

Leggendo una manciata di libri scritti da membri appartenenti ad una data "corrente di pensiero" spesso si pensa di essere in grado di lavorare ed utilizzare le ossa; la realtà però è un'altra.
Le ossa nel loro uso prevedono anche un percorso personale che non può essere letto su di un libro e senza questo è inutile ad esempio dipingere od incidere un osso poiché in tal caso l'osso per quanto bello possa apparire la maggior parte delle volte non ha carattere "magico" di alcun genere e spesso quando lo ha il risvolto che ne paghiamo nell’utilizzarlo è tutt’altro che positivo.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

mercoledì 11 luglio 2018

Le Ossa e le Fiabe, parte II

Oltre alle due fiabe in precedenza citate vi sono molti altri scritti che presentano al loro interno ossa che assurgono alle più disparate funzioni narrative.
Basti pensare alla favola scritta da Esopo nel VI secolo a.C. che va sotto il nome de 'Il cane e l'osso' nella quale l'autore pone in guardia il lettore dai mali della cupidigia e dell'invidia tramite il narrare di un cane che sportosi lungo un fiume con in bocca un osso morse la sua immagine riflessa nelle acque con lo scopo di sottrarle l'osso perdendo così il proprio fra i flutti.

Altre opere degne di nota sono la fiaba dal titolo 'Vom Machandelbaum' (i.e. "Il ginepro") messa per iscritto dai fratelli Grimm - https://www.grimmstories.com/it/grimm_fiabe/il_ginepro - il racconto che va sotto il nome di 'la Cantadora e la Loba' - https://narraredime.blogspot.it/2013/05/la-loba.html - ed infine l'antica fiaba cinese 'Ye Xian' la cui prima apparizione scritta risale al IX secolo d.C. e che presenta una straordinaria mole di elementi in comune con la fiaba di Cenerentola tanto da esserne considerata l'antesignana. La giovane fanciulla Ye Xian alla morte dei suoi due genitori divenne vittima delle angherie della sua matrigna e della di lei figlia; abilissima con l'oro, viveva in una grotta ed aveva i piedi più piccoli e graziosi del regno, segno inconfutabile di nobiltà nella società orientale. Otterrà l'onore e la fortuna che merita grazie alle ossa magiche di un pesce che era reincarnazione della madre.

Possiamo ritrovare gli stessi temi nella mitologia scandinava. Nell'Edda in prosa - più precisamente nel capitolo 44 della suddetta - Snorri Sturluson narra di come Thor (i.e. figlio di Odino e Jǫrð che è Dèa della terra) resuscitò i suoi capri ricomponendone lo scheletro:

"Durante la serata Þórr prese i suoi capri e li uccise entrambi, dopodiché vennero scuoiati e arrostiti nel calderone. Quando furono cotti, Þórr sedette a cena con i compagni e invitò a mangiare anche il fattore, sua moglie e i loro figli. Il figlio del fattore si chiamava Þjálfi, e la figlia Röskva. Quindi Þórr mise le pelli dei capri lontani dal fuoco e disse al fattore e ai suoi servi di gettare le ossa dei capri sulle pelli. Þjálfi, figlio del fattore, aveva un femore di uno dei capri che incise col suo coltello e lo ruppe per prenderne il midollo. Þórr rimase lì per la notte, ma quando giunse ótta, prima del giorno, si alzò, si vestì e prese il martello Mjöllnir, lo fece roteare e benedisse le pelli dei capri. I capri allora si alzarono, ma uno di essi era zoppo a una delle zampe posteriori. Þórr lo notò e disse che il fattore o un suo domestico non erano stati attenti con una delle ossa del capro. Se ne accorgeva poiché l'osso della coscia era rotto."

Figura affine a quella di Thor presente nella mitologia baltica è quella di Perkūnas che è Dio del Fuoco, dei Fulmini e della Guerra. Si ritiene possibile che egli assolvesse al compito di Dio della pioggia e della fertilità della terra.
Altra figura, appartenente questa volta alla mitologia slava, che presenta caratteristiche simili alla precedenti è Perun, marito di Mokoš. Secondo alcuni studiosi fra i quali spiccano Łowmiański e Borovskij quest'ultima sarebbe la Dea della pioggia e della tempesta, mentre secondo Jakobson e Gieysztor ella sarebbe una figura della Madre Terra.

Queste tre divinità sono adorate in luoghi diverse ma sostanzialmente sono determiate e definite dall'influenza di diversi personaggi quali Madre, Padre o Moglie etc. che ne delineano i tratti sostanziali per ricostruire la pratica sopra descritta inquadrandone perfettamente il “dominio di competenza” che è riconducibile alla "terra".

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

martedì 10 luglio 2018

Le Ossa e le Fiabe, parte I

Il canto, la resurrezione, il rispetto, la pratica diversa per uso diverso, gli ammonimenti, gli spiriti, le preghiere, la tradizione tramandata.

Le ossa hanno sempre rivestito un ruolo fondamentale nella cultura di tutti i tempi. Esse sono direttamente collegate allo spirito del defunto, sia esso animale od umano.
Esempio di questo è la fiaba messa per iscritto dai fratelli Grimm che va sotto il nome di 'Der singende Knochen' (i.e. "L'osso che canta") di cui segue un breve estratto:

[…] Un giorno, dopo molti anni, un pastore, facendo passare il suo gregge sul ponte, vide giù, fra la sabbia, un ossicino bianco come la neve e pensò di farne un bel bocchino. Scese, lo raccolse, e intagliò un bocchino per il suo corno. Ma la prima volta che si mise a suonare, con sua gran meraviglia l'ossicino cominciò a cantare da solo:

"Ah pastorello,
nel mio osso hai soffiato,
è proprio mio fratello
colui che mi ha ammazzato!
E in questo ruscello dopo mi sotterrò,
il cinghiale al re portò e sua figlia si sposò."

"Che strano corno" disse il pastore "canta da solo!" e pur non comprendendo il significato delle parole lo portò al re. Allora l'ossicino ricominciò a cantare la sua arietta. Il re la capì benissimo e fece scavare sotto il ponte dove comparve il resto dello scheletro dell'ucciso.
Il fratello malvagio non potè negare il delitto; fu gettato in acqua ed annegò.
Le ossa della vittima invece trovarono riposo in una bella tomba del cimitero.

Una fiaba simile è presente anche nella tradizione cerquetana e fu raccontata nel lontano 1973 dal pastore Elia Pisciaroli al Professore Giuseppe Profeta, ordinario in Scienze demo-etno-antropologiche e in Sociologia che la mise per iscritto. Pur essendo differenti nei particolari queste due fiabe presentano gli stessi leitmotiv che ora seguono:

- la ricerca svolta in un bosco od altrove; segno del ricercare nel proprio profondo.
- la presenza due o più personaggi fra i quali ve ne è uno dal cuore puro che porta a termine la ricerca di cui sopra.
- l'uccisione ed il rapido seppellimento del personaggio dal cuore puro.
- la creazione di un piffero dalle ossa del defunto; emblema del soffio di vita.
- la storiella narrata dal suddetto piffero in osso; rappresentazione diretta dello Spirito che rivela l’accaduto.
- avidità nell’accaparrarsi la altrui proprietà o l’altrui merito.

Come si può osservare le fiabe per quanto possano essere diverse presentano svariati punti in comune. La loro essenza di trasmissione non è alterata dal luogo in cui nascono, ragion per cui rivestono un ruolo fondamentale nella ricerca delle tradizioni o degli insegnamenti.
La fiaba ha origini popolari antichissime in quanto risale addirittura alla preistoria ed è priva di morale. Essa ha un autore solo nel caso in cui un dato scrittore la ha trascritta dopo essersela fatta raccontare; il vero ideatore della fiaba rimarrà sempre ignoto. 
- http://cerquetoinforma.altervista.org/blog/losso-che-canta/…

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

lunedì 9 luglio 2018

Destino

Un sonno profondo, un sogno si trasmette 
Roman riposa sotto la neve, Roman cavalca sulle rovine 

Una foresta di ossa, un cervo guardiano, lo osservano passare
Ungern Khan cavalca ancora nel mondo di mezzo, insieme a buriati, sciti, longobardi e goti.
Cavalca al seguito del padre del tutto, cavalca perché questo è il suo destino.

Caccia selvaggia, lotta, furore e sapienza.

E poesia, le parole danzano, insieme alle spade. Frecce del mito, fuochi notturni e stridii.

domenica 8 luglio 2018

L’archetipo del guerriero a cavallo

L’Eurasia, continente enorme, mistico, dotato di vita propria e abitato da ogni sorta di spirito e divinità.

Queste terra fanno da sfondo all’opera del guerriero a cavallo, archetipo selvaggio del conquistatore, del destino, dell’unità della spada. 

Da Ovest ad Est e da Est a Ovest, condottieri tribali di ogni popolo hanno seguito il proprio destino, tentando, riuscendo o fallendo a seconda del volere delle Norne.

La loro traccia, il loro lascito più prezioso sta nella figura stessa da loro rappresentata, nell’anima archetipa della cavalcata feroce, savia perché folle, ispirazione dei valorosi, terrore degli imbelli.

Fra le steppe e le colline, fra campi, boschi e monti ancora risuoneranno cupi gli zoccoli dei cavalli, la caccia selvaggia continua, nello spirito di coloro che ci hanno preceduti, con la benedizione di Viðrir, guidati da Váfuðr e Yggir.

sabato 7 luglio 2018

Sul valore, o dei capi

“Scelgono i re per nobiltà di sangue, i comandanti in base al valore. I
 re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano per
 l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono
 coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si battono in prima
 fila.”

(Tacito, Germania)

Il valore personale, il coraggio, la capacità di controllare la paura e di ergersi al di sopra dei propri pari, tutto questo è ciò che, in una società naturale, definisce un capo, insieme con il carisma, la prestanza fisica e, perché no, un minimo di avvenenza queste caratteristiche vanno a formare il perfetto ritratto di ogni condottiero tribale.

Questo è il grande discrimine fra società naturale ed a-naturale, il riconoscimento della superiorità e dell’inferiorità come tali, non come il riflesso di una situazione “ingiusta” o imposta ma come la semplice rappresentazione di una realtà inequivocabile, eterna ed immutabile.

Esistono i forti ed i esistono i deboli, ed è giusto così, così come è giusto che i secondi obbediscano ai primi, prendendo coscienza di sé, della propria natura e del proprio ruolo in questa terra di mezzo. 
Anche se questi pochi millenni di sovrastrutture hanno tentato di eliminare o, per lo meno, di temperare questa verità essa, come tutto ciò che è davvero inevitabile, tende sempre ad affiorare, a ricordare, anche solo nelle piccole cose, che esistono persone fatte per comandare e persone fatte per obbedire.

Piaccia, non piaccia, poco importa, così va il mondo e questa è la volontà degli Dèi.

venerdì 6 luglio 2018

Il tamburo sciamanico nella cultura Sami

Noto anche come “Kannus” è considerato lo strumento per antonomasia dello sciamano, il mezzo tramite il quale egli esercita la propria arte e trae informazioni sugli eventi passati, presenti e futuri.

Quando gli adepti del Cristo bianco giunsero nelle terre dei Sami, circa tre o quattro secoli fa, attuarono immediatamente una sistematica repressione di tutto ciò che era espressione dell’antica fede, molti sciamani vennero perseguitati, torturati e uccisi e la luce dei tempi antichi si fece sempre più fioca, pur non giungendo mai, nemmeno in questi casi, ad estinguersi del tutto. Insieme agli sciamani, come è ovvio, vennero spesso bruciati i loro strumenti, per questo motivo, ad oggi, non restano in Europa che ottanta tamburi sciamanici dei tempi antichi, sparsi per i musei delle zone che hanno goduto di una presenza ugrofinnica. 

A causa dell’opera di persecuzione di cui sopra ci è ben difficile interpretare interamente i simboli dipinti su questi potenti strumenti, le cronache dell’epoca della cristianizzazione danno infatti spesso notizie “cristianizzate” sul significato dei pittogrammi.

Ciò nonostante è anche grazie a questi reperti che è stato possibile per i nostri cugini ugrofinnici ricostruire parte di ciò che venne perduto. 



mercoledì 4 luglio 2018

Le vie di Wodanaz pdf, primo numero

Come promesso eccovi il primo pdf stampabile de "Le vie di Wodanaz", diffondetelo e, sopratutto, confrontatevi di persona con coloro che vi stanno vicino, è questo lo spirito del tribalismo.

https://drive.google.com/file/d/16QNlMM2aEbaTMJVdVeWcWPWEP5it6rov/view?usp=sharing

Che gli Dèi vi guidino.

la redazione de "Le vie di Wodanaz"

martedì 3 luglio 2018

Rán

Moglie di Ægir, madre di Bára, Blóðughadda, Bylgja, Dúfa, Hefring, Himinglæva, Hrönn, Kólga, e Unnr, ella è terribile Dèa delle profondità marine e guardiana di coloro che perdono la vita fra i flutti. 

A lei conviene rivolgersi per placare tempeste e marosi, o per domandare aiuto in caso di pericolo in mare.

Nelle sue sale, che talvolta ospitano perfino gli Dèi, ella accoglie queste anime sfortunate che presso di lei dimoreranno fino alla fine dei tempi. 

Cosa sarà di esse dopo il Ragnarok non è dato sapere, se, come coloro che dimorano in Gimlè continueranno la loro esistenza o se, nella furia della fine dei tempi, verranno spazzate via. 


lunedì 2 luglio 2018

Il mondo che verrà

Tribalismo e identità come argine all’oblio 

Essere ciò che si è, ad oggi, è la più grande rivolta possibile ad un mondo che ci vorrebbe sempre più indistinti, liquidi, in grado di essere qualunque cosa, ovvero il nulla che l’intellettuale à la page chiama essere “cittadini del mondo”.
Questa pialla, questo cristianesimo 2.0 privato di qualunque profondità spirituale che vada al di là di uno sproloquio ad una apericena equo solidale, che viene talora chiamato capitalismo non è, o almeno non è solo, un male moderno.
È solo la riproposizione ciclica di un male antico quanto il mondo che ha assunto, nel corso dei millenni, forme e realizzazioni differenti.
È la volontà uniformante, distruttrice di libertà e popoli, che ha guidato la mano di ogni imperialista, dall’Egitto a Roma, dalla Spagna alla Cina, in ogni tempo ed in ogni forma. 
La storia però ci insegna che a queste aggressioni vi è sempre stata opposizione da parte di coloro che, fieri o semplicemente temerari, mal sopportavano di abbassare la testa innanzi al principio uniformatore, distruttore di identità.
L’Impero Persiano si trovò innanzi i greci, quello Romano i Germani, quello Cinese i mongoli e così continuando fino ad oggi.

La resistenza è possibile e necessaria, la nostra triste epoca spiritualmente derubata dal monoteismo e inaridita dal nichilismo, non può e non deve essere abbandonata.

Lottare per i propri Dèi, per la propria gente, per la propria famiglia e per la propria tribù, per tutto ciò che è santo e vero, deve essere, oggi più che mai, la priorità per coloro che ancora credono nel futuro, per gli araldi del mondo che verrà.

domenica 1 luglio 2018

Nehalennia e la resistenza frisone

 Dèa del viaggio, sia terreno che ultramondano, originariamente adorata da frisoni e franconi, il suo culto ebbe una grossa fioritura durante gli ultimi secoli dell’impero romano arrivando a scontrarsi, nelle ultime fasi di questo, con la novella religione del Cristo bianco ed i suoi adepti. 

I frisoni difesero con grande coraggio la propria fede e per lunghi anni riuscirono ad opporsi alle orde dei franconi, la superiorità numerica del nemico, purtroppo, era spaventosamente alta, i frisoni, lasciati soli davanti ad un nemico tanto numeroso e organizzato, non avevano possibilità.

Anche fra le loro fila non mancarono traditori e convertiti, l’oro dei franchi fu per secoli in grado di comprare gli uomini da poco. 
Finì così la resistenza in Frisia, dopo anni di guerre, intrighi diplomatici e campagne militari e l’antica
 fede dovette rifugiarsi nella selva. 
Rimane, tuttavia, il loro esempio di uomini liberi, fortemente radicati e legati ai valori della tribù, della comunità e della fede. 
In una guerra fra schiavi ed uomini liberi possono essere anche i primi, che del resto sono molti di più, ad ottenere la vittoria.

Gli schiavi però rimangono schiavi, i liberi, nella vita come nella morte, liberi. 

I danesi, secoli dopo, riportarono l’antica via alle genti frisone ma, anche tra loro, il veleno del monoteismo si era già infiltrato con astuzie e inganni.