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lunedì 25 maggio 2020
Sentieri Selvaggi: un punto di vista identitario - parte V
Sul piano iconografico, il film è una miniera di immagini e corrispondenze simboliche dove queste giocano tra inquadrature di chiari/scuri e di sguardi, e non solo nei “tempi morti” del film. La finalità, secondo me, è fare arrivare il messaggio di ciò che si vuol sottolineare ancora prima che questo venga spiegato dallo svolgimento della trama. La pellicola è ricca di cavità oscure, che rimandano consciamente all'utero, e non a caso sono teatro di fatti importanti. Le ho spesso collegate all'esplosione della selvatichezza che tratteggia Wayne. Si cerca il luogo chiuso, riparato, ovattato, ma poi, proprio per nostra natura si tende a finire per esplodervi dentro.
A proposito di ciò, una delle sequenze più significative dell'intero film, è quando Wayne penetra con violenza a cavallo in un teepee Indiano. Egli pianta una speronata nel ventre della bestia costringendola (i cavalli sono fortemente claustrofobici) ad entrare a forza nella tenda. In questa manciata di secondi Wayne, con un impulso violento è come se onorasse la parte selvaggia di sé. Questo atto prepotente è un tratto preponderante e peculiare nelle persone aggressive e abituate a comandare. Una volta all'interno, Ethan trova l'indiano Scar morto e lo scalpa. Questo è l'apice supremo della scena, quando l'adrenalina di chi comprende questa simbologia speciale va a toccare il picco massimo. L'accostamento alla sessualità dell'eroe viene quasi automatico durante questa sequenza; la ricerca, la bramosia, la violenza della penetrazione per il raggiungimento della protezione.
Ho contato cinque differenti luoghi chiusi, oscuri, uterini all'interno del film. Questi vanno a ritmare l'itinerario psicologico del maschio bianco che viene costantemente associato ad essi. Sono luoghi in cui maggiore può essere la sua “regressione” a uno stato di selvatichezza bestiale, ma anche quelli dove può trovare una nuova linfa rigenerante. La caverna è un potente simbolo (specie presso i popoli “lunari” mediterranei, ma anche per gli indiani d'America) di rientro nel grembo materno, un'anticamera misteriosa, di un mondo sotterraneo.
Il viaggio di Wayne, tra peripezie e pericoli, del tutto simile ad un'Odissea, fa tappa in una caverna oscura; quindi egli realizza un tuffo nell'oscurità, desiderata e oscura, della vita prenatale.
Scendendo nell'ombra ci si cala nel mondo notturno dell'indistinto. Non esiste tempo, non c'è ieri né domani, poiché in essa anche il giorno e la notte sono indivisi. Il paragone che mi sovviene è quello con i morti, nell'aldilà.
Fuori dalla caverna, dopo il caos dell'oscurità originaria, l'eroe è atteso dalla luce, come in un'antica saga indo-germanica in piena regola.
Sentieri Selvaggi può essere interpretato con questa dicotomia luce/tenebra; il principale e primigenio sistema dualistico ario. Ethan si dibatte tra le due, facendo i conti con il proprio IO che è riflesso, essendo egli un eroe, sugli altri; ma può essere anche interpretato come l’eterna spinta ad ovest delle genti indo-germaniche, quasi come fosse un destino scritto nelle stelle, ai quali loro inconsciamente ubbidiscono.
Da questa spinta, 3000 e più anni fa, nacque l’Europa e - 300 anni fa - nacque l’America.
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
domenica 24 maggio 2020
Sentieri Selvaggi: un punto di vista identitario - parte IV
Il deserto di Sentieri Selvaggi è una forma sublime che allontana da ogni socievolezza, da ogni sentimentalità, da ogni sessualità e, a mio avviso, funge come fuga dalla storia umana, dalla nascente civiltà urbana e industriale, da un'esistenza meccanizzata, dalle strettoie economiche, dalle crisi sociali, da infelici relazioni personali, dall'ingiustizia sociale.
Nonostante il film sia stato girato tra Colorado, Utah e Alberta (Canada), è ambientato in Texas, nel 1868, quando la guerra civile è ormai finita da tre anni. E' probabile che in questo lasso di tempo, Wayne/Ethan sia stato un guerrigliero di Quantrill, il generale sudista che ha continuato la sua personale disfida con l'Unione, anche dopo la capitolazione. Wayne è il reduce sconfitto ma non arreso («non credo nelle capitolazioni»). Tutto questo è una miscela infinitamente complessa di trasformazioni storiche e psicologiche.
Ad un certo punto, per bocca di un'anziana colona, si esprime il pensiero comune della comunità: «questo luogo sarà un luogo meraviglioso per viverci, ma noi ci stenderemo le cuoia prima». Ed è proprio ciò che è avvenuto. Dopo aver tenuto testa agli indiani, i coloni verrano spazzati via da quel progresso in cui sono stati i primi a credere. Il futuro sembra appartenere, già nel film, a gente come il reverendo Clayton o ai trafficanti senza scrupoli come l'ebreo Futterman. L'epopea più autentica, infatti, copre gli anni dal 1835 al 1885; lo affermo molto personalmente, ma trovo diverse conferme anche tra gli stessi studiosi del West. In quel mondo di impermanenza cronica i coloni europei sono spariti dal giorno alla notte.
Nel 1956, Sentieri Selvaggi prende atto della loro sparizione, pur mostrandoli al pubblico nella loro romantica vitalità, protagonisti di un mondo che molto presto li relegherà ai margini. Insieme al cowboy, all'indiano, al trapper, al cercatore d’oro anche il colono anglosassone diventa un frammento vivente nel mirino prismatico della storia del West.
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
Nonostante il film sia stato girato tra Colorado, Utah e Alberta (Canada), è ambientato in Texas, nel 1868, quando la guerra civile è ormai finita da tre anni. E' probabile che in questo lasso di tempo, Wayne/Ethan sia stato un guerrigliero di Quantrill, il generale sudista che ha continuato la sua personale disfida con l'Unione, anche dopo la capitolazione. Wayne è il reduce sconfitto ma non arreso («non credo nelle capitolazioni»). Tutto questo è una miscela infinitamente complessa di trasformazioni storiche e psicologiche.
Ad un certo punto, per bocca di un'anziana colona, si esprime il pensiero comune della comunità: «questo luogo sarà un luogo meraviglioso per viverci, ma noi ci stenderemo le cuoia prima». Ed è proprio ciò che è avvenuto. Dopo aver tenuto testa agli indiani, i coloni verrano spazzati via da quel progresso in cui sono stati i primi a credere. Il futuro sembra appartenere, già nel film, a gente come il reverendo Clayton o ai trafficanti senza scrupoli come l'ebreo Futterman. L'epopea più autentica, infatti, copre gli anni dal 1835 al 1885; lo affermo molto personalmente, ma trovo diverse conferme anche tra gli stessi studiosi del West. In quel mondo di impermanenza cronica i coloni europei sono spariti dal giorno alla notte.
Nel 1956, Sentieri Selvaggi prende atto della loro sparizione, pur mostrandoli al pubblico nella loro romantica vitalità, protagonisti di un mondo che molto presto li relegherà ai margini. Insieme al cowboy, all'indiano, al trapper, al cercatore d’oro anche il colono anglosassone diventa un frammento vivente nel mirino prismatico della storia del West.
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
sabato 23 maggio 2020
Sentieri Selvaggi: un punto di vista identitario - parte III
Sentieri Selvaggi ruota ampiamente attorno al tema dell'incontro/scontro di due razze e culture, quella dei bianchi europei e quella dei Pellirosse nativi. L'apice di questo confronto è reso visivamente esplicito nella sequenza in cui i due, Ethan e Scar, si sfidano faccia a faccia, quasi appoggiandosi l'un l'altro, suggerendo così l'idea di uno specchio che riflette un'identica immagine. E' infatti curioso ma sensato che il maestro Ford non faccia uccidere il capo Comanche Scar a Wayne, ma al suo co-protagonista. Permane per tutto il film la sensazione dello scontro tra due alterità, di un incontro con la parte selvaggia di sé. Se si scendesse nella psicologia di ogni dettaglio non basterebbero mille pagine per descrivere i processi animistici che si basano sull'onnipotenza dei pensieri. Ogni “fazione” ha avuto le sue perdite, Indiani e Bianchi, allo stesso modo.
Il personaggio di Wayne non è affatto contraddittorio; egli possiede la perfetta conoscenza di usi e costumi dei nativi ed è esperto delle abitudini dei Comanches, è in grado di capire la psicologia ed ha assunto l'abitudine indiana di scalpare i nemici ma questo non lo rende diverso da quello che è. Nella sequenza durante la quale spara negli occhi ad un guerriero pellerossa morto per precludergli la via alla Terra del Grande Spirito, prorompe tutta la spiritualità dell'eroe indo-germanico che respinge ferocemente il cristianesimo in quanto nemico dell’etica degli antichi Aryas, etica che per molti versi è molto più similare alla spiritualità nativa indiana che a quella cristiana. Le critiche di Wayne, e quindi di Ford, alla cristianità puritana del Nuovo Mondo non sono per niente velate ma vanno lette attentamente nell'atteggiamento del protagonista. Il cristianesimo è il nemico dell'azione, è il nemico dell'individualità ma soprattutto è nemico dell'origine primigenia dell'eroe europeo.
Da questa sintesi si può estrarre il nocciolo etico di Wayne. Egli intimamente odia i mezzosangue (tra cui il co-protagonista, che è per un ottavo Cherokee), è disgustato alla vista delle prigioniere bianche («non sono più bianche, sono Comanches»), vuol vedere morta Debbie perché è stata contaminata sessualmente da Scar («ha vissuto insieme ad un indiano»), offende Scar («sei molto intelligente… per un indiano»).
Da qui occorre muovere un'altra pesante critica nei confronti di quella cristianità puritana tutta americana per la quale la prospettiva di una possibile miscegenation tra le due razze essere la cosa più terrificante quando in realtà non è affatto così. Il puritanesimo ha infatti sviluppato una sorta di senso di colpa nei coloni europei, rendendoli deboli spiritualmente e non permettendo ad essi una sana presa razziale sul continente. A questi pennivendoli religiosi importa che lo scritto di un libro semitico venga diffuso il più possibile, poco interessa se chi lo fa è bianco, nero, giallo o rosso. Il concetto centrale di questo morbo desertico onnipresente è la “purezza [sic!]” dell'anima, la quale trascende nettamente dall'idea di sangue ed è quindi, in ultima analisi, la negazione stessa dello spirito indo-germanico.
Ancora una volta, il maestro Ford mi aiuta ad esprimere un concetto che altrimenti sarebbe rimasto incastrato fra i meandri del mio cervello. Nel momento in cui questa “questione” appare nella pellicola, si staglia il primo piano di John Wayne alla vista delle prigioniere bianche che hanno avuto relazioni sessuali con gli Indiani, un'immagine incancellabile che conta più di mille discorsi e di mille disamine.
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
Il personaggio di Wayne non è affatto contraddittorio; egli possiede la perfetta conoscenza di usi e costumi dei nativi ed è esperto delle abitudini dei Comanches, è in grado di capire la psicologia ed ha assunto l'abitudine indiana di scalpare i nemici ma questo non lo rende diverso da quello che è. Nella sequenza durante la quale spara negli occhi ad un guerriero pellerossa morto per precludergli la via alla Terra del Grande Spirito, prorompe tutta la spiritualità dell'eroe indo-germanico che respinge ferocemente il cristianesimo in quanto nemico dell’etica degli antichi Aryas, etica che per molti versi è molto più similare alla spiritualità nativa indiana che a quella cristiana. Le critiche di Wayne, e quindi di Ford, alla cristianità puritana del Nuovo Mondo non sono per niente velate ma vanno lette attentamente nell'atteggiamento del protagonista. Il cristianesimo è il nemico dell'azione, è il nemico dell'individualità ma soprattutto è nemico dell'origine primigenia dell'eroe europeo.
Da questa sintesi si può estrarre il nocciolo etico di Wayne. Egli intimamente odia i mezzosangue (tra cui il co-protagonista, che è per un ottavo Cherokee), è disgustato alla vista delle prigioniere bianche («non sono più bianche, sono Comanches»), vuol vedere morta Debbie perché è stata contaminata sessualmente da Scar («ha vissuto insieme ad un indiano»), offende Scar («sei molto intelligente… per un indiano»).
Da qui occorre muovere un'altra pesante critica nei confronti di quella cristianità puritana tutta americana per la quale la prospettiva di una possibile miscegenation tra le due razze essere la cosa più terrificante quando in realtà non è affatto così. Il puritanesimo ha infatti sviluppato una sorta di senso di colpa nei coloni europei, rendendoli deboli spiritualmente e non permettendo ad essi una sana presa razziale sul continente. A questi pennivendoli religiosi importa che lo scritto di un libro semitico venga diffuso il più possibile, poco interessa se chi lo fa è bianco, nero, giallo o rosso. Il concetto centrale di questo morbo desertico onnipresente è la “purezza [sic!]” dell'anima, la quale trascende nettamente dall'idea di sangue ed è quindi, in ultima analisi, la negazione stessa dello spirito indo-germanico.
Ancora una volta, il maestro Ford mi aiuta ad esprimere un concetto che altrimenti sarebbe rimasto incastrato fra i meandri del mio cervello. Nel momento in cui questa “questione” appare nella pellicola, si staglia il primo piano di John Wayne alla vista delle prigioniere bianche che hanno avuto relazioni sessuali con gli Indiani, un'immagine incancellabile che conta più di mille discorsi e di mille disamine.
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
giovedì 21 maggio 2020
Sentieri Selvaggi: un punto di vista identitario - parte II
Personaggi come Wayne, tipici delle culture Indo-Germaniche, esigono dagli altri, e da se stessi, molta perfezione, tanta nobiltà (interiore) e coraggio. Sono uomini rinchiusi in loro stessi, che preferiscono evitare di scontrarsi con la quotidiana conferma dell'impossibilità di condividere con altri la loro incessante ricerca interiore. Penso fortemente che anche il maestro Ford abbia provato fin nelle viscere questa “condanna”.
L'eroe porta la “linea di Frontiera” sempre con sé, dovunque vada. L'eroe è colui quindi che trova l'equilibrio e lo mantiene, e tuttavia si porta costantemente al limite. L'eroe ridisegna il limite e, per questo, porta e sposta la frontiera, anzi la Frontiera. E tale conquista trova la sua misura nel dolore, nell'immane a cui certi uomini devono tener testa, nelle crudeltà che li attanagliano e a cui reagiscono diventando, a loro volta, crudeli e sapienti. Dal dolore il sapere, dal sapere il dolore. Nonostante ciò, chi si è formato la propria toughness è capace anche di flessibilità e tenerezza emotiva. Chi è attratto da questo richiamo di selvaticità ha sovente una personalità di qualità paterne/materne, in parte patriarchi, in parte presenze protettive, e diviene così una creatura cinica e abbastanza avulsa da qualsiasi contesto.
Il contrasto con gli spazi aperti desertici del film e della wilderness che vedono Wayne stridere nel chiuso, a mio parere trovano la spiegazione in una frase di Rudyard Kipling: «tutto considerato, al mondo ci sono due tipi di uomini: quelli che stanno a casa e quelli che non ci stanno».
Wayne, nel film, appare di fatto apolide, senza patria. Estraneo alla pólis che ha contribuito a fondare combattendo in guerra contro Indiani e Unionisti, egli si ritrova come un identitario di oggi: straniero in casa propria. Il continente che i nostri avi hanno contribuito, nel bene e nel male, a forgiare non ci appartiene più o forse siamo noi che non apparteniamo più ad esso. La Heimat, il luogo d'origine, la Patria (intesa anche come quella interiore): genera come annienta. La lontananza da essa inquieta, ma l'uomo sempre anela al ritorno da essa. Tutti le cavalcate presenti in questa pellicola, sono metafore della vita e della morte. Dallo scarto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, nasce la spinta a uscire fuori di sé, per scoprire lo "straniero" che è in noi
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
L'eroe porta la “linea di Frontiera” sempre con sé, dovunque vada. L'eroe è colui quindi che trova l'equilibrio e lo mantiene, e tuttavia si porta costantemente al limite. L'eroe ridisegna il limite e, per questo, porta e sposta la frontiera, anzi la Frontiera. E tale conquista trova la sua misura nel dolore, nell'immane a cui certi uomini devono tener testa, nelle crudeltà che li attanagliano e a cui reagiscono diventando, a loro volta, crudeli e sapienti. Dal dolore il sapere, dal sapere il dolore. Nonostante ciò, chi si è formato la propria toughness è capace anche di flessibilità e tenerezza emotiva. Chi è attratto da questo richiamo di selvaticità ha sovente una personalità di qualità paterne/materne, in parte patriarchi, in parte presenze protettive, e diviene così una creatura cinica e abbastanza avulsa da qualsiasi contesto.
Il contrasto con gli spazi aperti desertici del film e della wilderness che vedono Wayne stridere nel chiuso, a mio parere trovano la spiegazione in una frase di Rudyard Kipling: «tutto considerato, al mondo ci sono due tipi di uomini: quelli che stanno a casa e quelli che non ci stanno».
Wayne, nel film, appare di fatto apolide, senza patria. Estraneo alla pólis che ha contribuito a fondare combattendo in guerra contro Indiani e Unionisti, egli si ritrova come un identitario di oggi: straniero in casa propria. Il continente che i nostri avi hanno contribuito, nel bene e nel male, a forgiare non ci appartiene più o forse siamo noi che non apparteniamo più ad esso. La Heimat, il luogo d'origine, la Patria (intesa anche come quella interiore): genera come annienta. La lontananza da essa inquieta, ma l'uomo sempre anela al ritorno da essa. Tutti le cavalcate presenti in questa pellicola, sono metafore della vita e della morte. Dallo scarto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, nasce la spinta a uscire fuori di sé, per scoprire lo "straniero" che è in noi
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
Sentieri Selvaggi: un punto di vista identitario - parte I
Nel mese di Aprile del 1956, uscì il film-capolavoro del maestro John Ford nelle sale Americane. Ovviamente sto parlando di Sentieri Selvaggi con John Wayne, nei panni di Ethan Edwards. In tutti questi anni, sono riuscito a ricavarne una personale analisi, la quale, è frutto di un sentimento sudato e profondo nei confronti di quest'idea del maestro Ford.
La sensazione ultima che a me comunica Sentieri Selvaggi è che il valore del singolo è superiore a quello di qualsivoglia massa. In esso, infatti, risuonano mille significati e archetipi culturali: la relazione tra legge e moralità; la necessità della violenza nell'affermare i valori della civiltà; l'eroismo e la libertà del singolo sacrificati alle esigenze della "civiltà".
Ford sembra quasi identificare la chiusura della frontiera con un simbolico rito di passaggio, la dolorosa transizione da una società agraria Anglosassone a uno stato multiculturale e multietnico. Infatti, già all'epoca di Sentieri Selvaggi, il mito del West può continuare a fiorire proprio solo come "mito", come immaginario nostalgico di un'America W.a.s.p. ormai persa per sempre. L'eroe Western, così come molti uomini veri di un tempo, teme la civiltà e la visione femminile, i compromessi e la vita sedentaria; li vede come fonti di corruzione e tradimento, un'esca per trascinarlo via da una condizione di indipendenza, di fiducia in se stesso e di certezza nelle proprie capacità.
Da tutto questo scaturisce quella che io chiamo la “solitudine dell'eroe”.
Il personaggio (John Wayne) emana forza, potenza. Compie gesti solenni, definitivi (ad esempio, nei particolari che adoro, quando sfodera le armi dalle fondine); si esprime con frasi brevi, icastiche, che non ammettono repliche. Per chi ha visto il film, sa a cosa mi riferisco.
Egli è laconico, come tutti i veri uomini delle terre selvagge, non esita a interrompere il discorso troppo lungo di una donna («le sarei obbligato se voleste concludere, signora»). Come se un eccesso di parole potesse significare vulnerabilità o perdita del suo controllo. Egli disprezza i beni terreni, le onorificenze, le medaglie («non ha più valore, ora») e soprattutto il denaro; basti vedere come Wayne tratta le monete in questa pellicola. Per contro, sfodera grande destrezza con le armi: spesso compie esercizi di abilità con la Colt, per non parlare della naturalezza con cui spara indifferentemente a bianchi, indiani e bisonti. Egli esercita sugli altri un'influenza dominante; è lui che prende tutte le decisioni significative, compresa quella finale, di uccidere o meno Debbie. I gesti “contro” di lui tendono a rimanere, appunto, solo dei gesti, poco più che povere intenzioni. Un particolare che colpisce l'occhio attento è quello dove Wayne getta via gli oggetti, che gli altri personaggi brandeggiano nei suoi confronti.
Nonostante la sua forza, però, rimane un vagabondo solitario, senza casa, senza donna e privo di un posto fisso nella società: un anarchico identitario. Tutto questo è visto con grande accezione positiva, dai miei occhi; così come, nelle ultime scene del finale, quando la porta si richiude e lo schermo ripiomba nell'oscurità, io condivido con gusto il ritorno di Wayne nel deserto del mito che lo ha generato; fra i sentieri spaventosi della vita vera e solitaria. Un eroe della pazienza e dell'azione ha il potere di dominare la sofferenza, oltre che la propria forza di volontà. Il suo isolamento non è una condanna, ma un rifugio materno, dove Wayne (e spesso anche chi fatica a stare in società oggi) trova il proprio equilibrio. Nessuno, a mio avviso, è in grado di rispondere a certe forze interiori, specialmente quando per estremo idealismo, ci si isola dal mondo moderno asentimentale.
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
La sensazione ultima che a me comunica Sentieri Selvaggi è che il valore del singolo è superiore a quello di qualsivoglia massa. In esso, infatti, risuonano mille significati e archetipi culturali: la relazione tra legge e moralità; la necessità della violenza nell'affermare i valori della civiltà; l'eroismo e la libertà del singolo sacrificati alle esigenze della "civiltà".
Ford sembra quasi identificare la chiusura della frontiera con un simbolico rito di passaggio, la dolorosa transizione da una società agraria Anglosassone a uno stato multiculturale e multietnico. Infatti, già all'epoca di Sentieri Selvaggi, il mito del West può continuare a fiorire proprio solo come "mito", come immaginario nostalgico di un'America W.a.s.p. ormai persa per sempre. L'eroe Western, così come molti uomini veri di un tempo, teme la civiltà e la visione femminile, i compromessi e la vita sedentaria; li vede come fonti di corruzione e tradimento, un'esca per trascinarlo via da una condizione di indipendenza, di fiducia in se stesso e di certezza nelle proprie capacità.
Da tutto questo scaturisce quella che io chiamo la “solitudine dell'eroe”.
Il personaggio (John Wayne) emana forza, potenza. Compie gesti solenni, definitivi (ad esempio, nei particolari che adoro, quando sfodera le armi dalle fondine); si esprime con frasi brevi, icastiche, che non ammettono repliche. Per chi ha visto il film, sa a cosa mi riferisco.
Egli è laconico, come tutti i veri uomini delle terre selvagge, non esita a interrompere il discorso troppo lungo di una donna («le sarei obbligato se voleste concludere, signora»). Come se un eccesso di parole potesse significare vulnerabilità o perdita del suo controllo. Egli disprezza i beni terreni, le onorificenze, le medaglie («non ha più valore, ora») e soprattutto il denaro; basti vedere come Wayne tratta le monete in questa pellicola. Per contro, sfodera grande destrezza con le armi: spesso compie esercizi di abilità con la Colt, per non parlare della naturalezza con cui spara indifferentemente a bianchi, indiani e bisonti. Egli esercita sugli altri un'influenza dominante; è lui che prende tutte le decisioni significative, compresa quella finale, di uccidere o meno Debbie. I gesti “contro” di lui tendono a rimanere, appunto, solo dei gesti, poco più che povere intenzioni. Un particolare che colpisce l'occhio attento è quello dove Wayne getta via gli oggetti, che gli altri personaggi brandeggiano nei suoi confronti.
Nonostante la sua forza, però, rimane un vagabondo solitario, senza casa, senza donna e privo di un posto fisso nella società: un anarchico identitario. Tutto questo è visto con grande accezione positiva, dai miei occhi; così come, nelle ultime scene del finale, quando la porta si richiude e lo schermo ripiomba nell'oscurità, io condivido con gusto il ritorno di Wayne nel deserto del mito che lo ha generato; fra i sentieri spaventosi della vita vera e solitaria. Un eroe della pazienza e dell'azione ha il potere di dominare la sofferenza, oltre che la propria forza di volontà. Il suo isolamento non è una condanna, ma un rifugio materno, dove Wayne (e spesso anche chi fatica a stare in società oggi) trova il proprio equilibrio. Nessuno, a mio avviso, è in grado di rispondere a certe forze interiori, specialmente quando per estremo idealismo, ci si isola dal mondo moderno asentimentale.
Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz
lunedì 4 maggio 2020
Stirpe
Buio.
Mi sveglio di soprassalto, scosso da un sogno tremendo, il mio cuore torna a battere ad un ritmo normale mentre, nella tiepida oscurità, riannodo i fili di quanto ho visto.
Una dama bianca, sia giovane che matura, mi porgeva una lancia ed uno scudo, oggetti di foggia antica ma consunti dal tempo, mentre le sue ancelle intonavano un dolce canto.
Non so interpretarlo pur sapendolo un segno. “Il sogno viene dagli Dèi” soleva ripetere mia madre; ora come ora da loro ho più che mai bisogno di istruzione e guida. Mi alzo e raggiungo a tentoni l’uscita della tenda. Una pallida luna splende nel sereno cielo notturno ed una lieve brezza mi accarezza il viso, cancellando così ogni traccia di torpore.
Raggiungo una delle sentinelle, Wulfhere, uno dei miei tanti fratellastri, e lo spedisco a dormire. Io non vi riesco quindi tanto vale rendersi utile in qualche maniera permettendo ad altri di riposare.
Siamo partiti nel giorno di Woden, ormai tre notti fa, in cerca di tracce del nemico.
Quattordici uomini a cavallo sotto il comando di Eowa, figlio secondogenito del nostro signore Pybba.
Non è un cattivo signore Eowa e pur avendo avuto lui la fortuna di nascere da un paio di reali cosce rimane sempre sangue del mio sangue ma è fin troppo cauto per i miei gusti.
Suo fratello, Penda, è uomo di tutt’altra pasta, burrascoso, pieno di sé e sempre pronto all’azione; è il genere di nobile che gli uomini servono volentieri.
Un suono ovattato, come di passi mi distoglie da questi pensieri, estraggo il seax che porto alla cintola e mi avvicino alla fonte del rumore.
Un cervo, bianco come la prima neve del mondo, cammina tranquillo a mezzo tiro di freccia. I suoi passi sono lenti ed una pallida luce sembra irradiarsi dalle sue membra.
Non ho mai visto nulla di simile nella mia intera vita.
Tocco il martello che porto al collo, l’amuleto che mi accompagna fin dall’infanzia, e come in un sogno inizio a seguire l’animale che a passi sicuri si inoltra nel bosco giù per la collina. Vuole che lo segua, ne sono certo, e più volte rallenta il passo quando a causa di rovi o fossati devo deviare dal percorso.
Proseguo ancora, non saprei dire per quanto. Ore, mesi, millenni? Il tempo non sembra avere lo stesso valore in questa arcana foresta, di questo si tratta. Gli alberi sono diventati più fitti e l’aria più pesante, pregna di odori selvatici.
Poi, come proveniente dagli alberi stessi, un canto.
Una nenia malinconica, estranea e familiare ad un tempo. Parole di bosco e pietra, di albero e foglia, più antiche di quanto la memoria dei figli degli uomini possa serbare memoria.
D’un tratto una freccia corre ad un soffio dalla mia testa, graffiandomi una guancia e finendo la sua corsa nell’occhio del pallido cervo; seguono delle risate e poco dopo due giovani donne sbucano dalla boscaglia alle mie spalle.
“Sei rumoroso, Aethelric figlio di Pybba!” esclama ridendo una delle due. Ha lunghi capelli ramati e porta una tiara d’argento variamente decorata con simboli di luna crescente. Sia lei che la sua compagna portano ricche vesti, seppur di fogge differenti, e lunghi archi come mai ne ho visti prima. Sono entrambe belle, di una bellezza altra, come mai ne avevo visto prima. L’una è più esile, l’altra di maggiore stazza ma entrambe molto alte.
Sorrido, pur essendo quanto meno sorpreso dall’incontro. “Mie signore” pronuncio a mezza voce inchinandomi; si tratta certamente di due nobili fanciulle e la situazione inconsueta non è una scusa sufficiente per non offrire loro il rispetto dovuto.
“Vedo con piacere che la cortesia non è stata ancora dimenticata dalla tua stirpe, e ne sono lieta - commenta la seconda ragazza, scuotendo la testa bionda - è una caratteristica che vi accompagna da sempre ed è buona cosa che essa viva ancora nel vostro sangue.”
Parla tranquillamente, ed in maniera cortese, tuttavia non posso ignorare il fatto che sembrino conoscere ogni cosa su di me, perfino il mio nome.
Non sono un nobile, non sono noto al di là delle pareti dell’aula del mio signore e la mia fama in battaglia non è tale da giustificare una tale conoscenza.
“Sei ferito figlio di Pybba - la prima fanciulla mi indica il graffio che ho sul viso - sono stata io a provocare questa ferita, non è vero?”
Sarei tentato di negare ma qualcosa dentro di me mi dice che sarebbe del tutto inutile:
“È solo un graffio mia signora, niente per cui dovrebbe darsi pena.”
Lei scuote la testa, sorridendo debolmente. “Non è così” afferma sfiorandomi appena il viso che sento particolarmente freddo.
“Prepara le tue armi Aethelric, il tuo destriero è già pronto. Si va a caccia. Il Sire già aspetta!”
Un nero destriero mi si affianca, sbucando dal bosco, e molti altri sembrano sfilare poco distante.
Una donna mi porge una lancia ed uno scudo. Guardo il cielo: Luna calante.
Salgo a cavallo e saluto il padre del tutto, padre della mia stirpe.
Ecco che la caccia selvaggia può di nuovo ancor cominciare.
Mi sveglio di soprassalto, scosso da un sogno tremendo, il mio cuore torna a battere ad un ritmo normale mentre, nella tiepida oscurità, riannodo i fili di quanto ho visto.
Una dama bianca, sia giovane che matura, mi porgeva una lancia ed uno scudo, oggetti di foggia antica ma consunti dal tempo, mentre le sue ancelle intonavano un dolce canto.
Non so interpretarlo pur sapendolo un segno. “Il sogno viene dagli Dèi” soleva ripetere mia madre; ora come ora da loro ho più che mai bisogno di istruzione e guida. Mi alzo e raggiungo a tentoni l’uscita della tenda. Una pallida luna splende nel sereno cielo notturno ed una lieve brezza mi accarezza il viso, cancellando così ogni traccia di torpore.
Raggiungo una delle sentinelle, Wulfhere, uno dei miei tanti fratellastri, e lo spedisco a dormire. Io non vi riesco quindi tanto vale rendersi utile in qualche maniera permettendo ad altri di riposare.
Siamo partiti nel giorno di Woden, ormai tre notti fa, in cerca di tracce del nemico.
Quattordici uomini a cavallo sotto il comando di Eowa, figlio secondogenito del nostro signore Pybba.
Non è un cattivo signore Eowa e pur avendo avuto lui la fortuna di nascere da un paio di reali cosce rimane sempre sangue del mio sangue ma è fin troppo cauto per i miei gusti.
Suo fratello, Penda, è uomo di tutt’altra pasta, burrascoso, pieno di sé e sempre pronto all’azione; è il genere di nobile che gli uomini servono volentieri.
Un suono ovattato, come di passi mi distoglie da questi pensieri, estraggo il seax che porto alla cintola e mi avvicino alla fonte del rumore.
Un cervo, bianco come la prima neve del mondo, cammina tranquillo a mezzo tiro di freccia. I suoi passi sono lenti ed una pallida luce sembra irradiarsi dalle sue membra.
Non ho mai visto nulla di simile nella mia intera vita.
Tocco il martello che porto al collo, l’amuleto che mi accompagna fin dall’infanzia, e come in un sogno inizio a seguire l’animale che a passi sicuri si inoltra nel bosco giù per la collina. Vuole che lo segua, ne sono certo, e più volte rallenta il passo quando a causa di rovi o fossati devo deviare dal percorso.
Proseguo ancora, non saprei dire per quanto. Ore, mesi, millenni? Il tempo non sembra avere lo stesso valore in questa arcana foresta, di questo si tratta. Gli alberi sono diventati più fitti e l’aria più pesante, pregna di odori selvatici.
Poi, come proveniente dagli alberi stessi, un canto.
Una nenia malinconica, estranea e familiare ad un tempo. Parole di bosco e pietra, di albero e foglia, più antiche di quanto la memoria dei figli degli uomini possa serbare memoria.
D’un tratto una freccia corre ad un soffio dalla mia testa, graffiandomi una guancia e finendo la sua corsa nell’occhio del pallido cervo; seguono delle risate e poco dopo due giovani donne sbucano dalla boscaglia alle mie spalle.
“Sei rumoroso, Aethelric figlio di Pybba!” esclama ridendo una delle due. Ha lunghi capelli ramati e porta una tiara d’argento variamente decorata con simboli di luna crescente. Sia lei che la sua compagna portano ricche vesti, seppur di fogge differenti, e lunghi archi come mai ne ho visti prima. Sono entrambe belle, di una bellezza altra, come mai ne avevo visto prima. L’una è più esile, l’altra di maggiore stazza ma entrambe molto alte.
Sorrido, pur essendo quanto meno sorpreso dall’incontro. “Mie signore” pronuncio a mezza voce inchinandomi; si tratta certamente di due nobili fanciulle e la situazione inconsueta non è una scusa sufficiente per non offrire loro il rispetto dovuto.
“Vedo con piacere che la cortesia non è stata ancora dimenticata dalla tua stirpe, e ne sono lieta - commenta la seconda ragazza, scuotendo la testa bionda - è una caratteristica che vi accompagna da sempre ed è buona cosa che essa viva ancora nel vostro sangue.”
Parla tranquillamente, ed in maniera cortese, tuttavia non posso ignorare il fatto che sembrino conoscere ogni cosa su di me, perfino il mio nome.
Non sono un nobile, non sono noto al di là delle pareti dell’aula del mio signore e la mia fama in battaglia non è tale da giustificare una tale conoscenza.
“Sei ferito figlio di Pybba - la prima fanciulla mi indica il graffio che ho sul viso - sono stata io a provocare questa ferita, non è vero?”
Sarei tentato di negare ma qualcosa dentro di me mi dice che sarebbe del tutto inutile:
“È solo un graffio mia signora, niente per cui dovrebbe darsi pena.”
Lei scuote la testa, sorridendo debolmente. “Non è così” afferma sfiorandomi appena il viso che sento particolarmente freddo.
“Prepara le tue armi Aethelric, il tuo destriero è già pronto. Si va a caccia. Il Sire già aspetta!”
Un nero destriero mi si affianca, sbucando dal bosco, e molti altri sembrano sfilare poco distante.
Una donna mi porge una lancia ed uno scudo. Guardo il cielo: Luna calante.
Salgo a cavallo e saluto il padre del tutto, padre della mia stirpe.
Ecco che la caccia selvaggia può di nuovo ancor cominciare.
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