Come "regalo di Yule", e come ultimo articolo prima del 2021 e delle novità previste per il prossimo anno, vi presentiamo il poema runico anglosassone, uno dei tre poemi runici giunti fino a noi.
Hailaz Wodanaz!
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martedì 29 dicembre 2020
Il poema runico anglosassone
lunedì 7 dicembre 2020
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte VI
Ultimi protagonisti di un simile panorama travagliato furono i Longobardi. Dieci anni dopo il patto stretto con gli Alamanni, sfumata la possibilità di una liberazione franca, i gruppi indipendentisti goti identificarono nei Longobardi «[...] la potenza che forse poteva aiutarli ad allontanare il dominio di Costantinopoli dall’Italia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 85)
I Longobardi non erano estranei a tentativi d’alleanza da parte degli Ostrogoti; già nel 538 emissari del re Vitige giunsero in Pannonia per parlamentare con i Longobardi. «Purtroppo gli ambasciatori “avendo trovato Vaci (il re longobardo Wacho) amico ed alleato dell'imperatore, tornaronsene senza nulla aver concluso” (Proc., Goth., II, 22)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Un ulteriore tentativo ebbe luogo nel 549 sotto il re Totila, «[...] allorché Ildige, erede legittimo al trono longobardo, giunse con un forte esercito nelle Venezie ben intenzionato ad unirsi ai Goti. Qui “si scontrò e venne alle mani con una schiera di Romani, comandata da Lazzaro, e, voltala in fuga, molti ne uccise” (Proc., Goth., III, 35)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) Inspiegabilmente non si giunse ad un accordo fra le due parti.
Personalità chiave per comprendere il dipanarsi dei legami diplomatici e di sangue fra Goti e Longobardi è il re Audoino sotto cui nel 546 i Longobardi, in qualità di foederati[14] romei, espansero verso sud est e sud ovest il loro territorio in Pannonia. La provincia di Pannonia, da poco sottratta agli Ostrogoti, venne occupata dalle guarnigioni longobarde le quali ricevettero beneficia non indifferenti e fu in questa occasione che «Audoino aveva ottenuto di sposare Rodelinda, pronipote del grande Teodorico, e figlia dell’ultimo re dei Turingi, Ermenfrido». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Il loro figlio, Alboino, «[...] quale discendente ed erede di Teodorico – come suggeriva il Bognetti - si poteva prestare perfettamente alle mire degli Ostrogoti transpadani che ancora vagheggiavano il ripristino del loro regno in Italia. Alboino, diventato re dei Longobardi tra i primi e la metà degli anni sessanta, non sarebbe rimasto indifferente alle suggestioni dei missionari ariani inviati in Pannonia proprio dai Goti» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) e forse è anche per quanto sinora detto che Alboino intraprese la spedizione in Italia, il regno perduto dei suoi più prossimi avi.
Note
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte V
In questo gran minestrone di problemi, anche i Goti ariani entrarono in subbuglio dacché, con la Sanctio Pragmatica pro petitione Vigilii emanata da Giustiniano, nel 554 i grandi latifondisti romani ottennero nuovamente i beni e le rendite che gli erano stati sottratti dai re ostrogoti, specialmente da Totila[12], allo scopo di ripristinare l’aristocrazia senatoria. Vi fu dunque un «[...] drastico cambiamento nel panorama dei possessores, con severa riduzione della percentuale dei Goti e con aumento vertiginoso degli orientali» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 84) e persino le chiese ariane ravennati vennero spogliate dei loro beni, beni che su ordine di Giustiniano vennero assegnati all’episcopato cattolico. «Le stesse basiliche ariane furono subito reconciliatæ [...]» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 84) all’episcopato cattolico tanto che i vescovi ariani dovettero trasferirsi altrove con i loro fedeli.
Partendo da simili presupposti, i Goti superstiti scelsero di ricorrere alla mimetizzazione religiosa convertendosi al cattolicesimo ma mal sopportando la politica imperiale, che era sostenitrice di Roma, decisero di legarsi agli scismatici. Non a caso «[...] le terre di più tenace adesione allo scisma coincidevano con le aree di massima concentrazione ostrogota. Non a caso nella Venetia alcuni facoltosi goti, Amara lectur e Guderit cum suis, compaiono fra gli oblatori del nuovo pavimento musivo nella cattedrale scismatica di Sant'Eufemia a Grado (consacrata nel 579)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, pp. 84-85)
Per questa ragione frange consistenti di Ostrogoti cercarono di stringere accordi diplomatici con varie popolazioni limitrofe, come avevano in precedenza fatto con gli alamanni Buccellino e Leutari del 554[13].
Note
[12] Il regno del sovrano ostrogoto Totila era considerato illegittimo dall’imperatore Giustiniano, tanto da definire nelle Novelle ‘tyrannus’ il sovrano ostrogoto.
[13] Nel 554, come alleati, gli Ostrogoti e gli Alamanni condussero un attacco all’Italia Suburbicaria, «differentemente dai Franchi cattolici, “quelli che erano di origine alamanna, siccome erano di altra fede religiosa, spogliavano e distruggevano gli edifici sacri”». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte IV
Intanto, fra il 560 ed il 561, il patricius Narsete, stabilitosi a Roma, fu posto al vertice del governo civile[10] in Italia mantenendo il comando dell’esercito.
Fra i suoi ruoli civili vi era quello di vigilare sui culti e di curare le relazioni con la Chiesa di Roma che ancora si scontrava con gli aquileiesi; eppure Narsete, sottostando alla volontà non dichiarata di Giustiniano, si mostrò tollerante con gli scismatici.
Dopo aver riportato i confini della Præfectura Italiciana sino al Norico, strappandone il controllo ai Franchi nel 564, il patricius Narsete assegnò le tre diocesi ecclesiastiche dell’alta valle della Drava, del Gail e del Rienza - ossia quelle di Teurnia, di Agunto e quella dei Breoni - «alla giurisdizione metropolitica della scismatica Aquileia» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 82) vanificando così l’intervento del re austrasiano Clotario I che sotto Pelagio I le aveva portate sotto la sua giurisdizione[11] riavvicinandole a Roma.
Così facendo, Narsete guadagnò per Giustiniano le simpatie degli scismatici tricapitolini; solo con la salita al soglio imperiale di Giustino II, il quale perseguiva la distensione fra Roma e Bisanzio, e la fine dell’insurrezione erula del 566 nella Venetia venne messa in campo una vera e propria reazione militare contro gli scismatici. Narsete, spinto dal pontefice e dal nuovo imperatore, fece così “estradare” il vescovo tricapitolino Vitale di Altino dalla città di Aguntum, dove si era rifugiato, esiliandolo in Sicilia.
Lo scopo di Giustino II era duplice ed in totale opposizione alla politica del suo predecessore Giustiniano: evitare di dare l’idea agli scismatici, tramite concessioni di libertà, d’essere indipendenti dalla giurisdizione romea ed evitare, tramite prese di posizione religiose precarie, di destabilizzare ulteriormente un territorio già a lungo provato da guerre e cambi di potere.
Giustino scelse dunque di «[...] indulgere ai contestatari sia in Oriente che in Occidente. Tale era la percezione che se ne ebbe in Occidente sul nuovo sovrano, tanto che Venanzio Fortunato, in un suo carme del 568-69, lo celebra per aver revocato molti vescovi dall’esilio, e per aver accettato tutto quanto stabilito nel controverso concilio di Calcedonia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 83)
Note
[10] Nell’opera degli storici romei Giovanni Malàlas e Teofane il Confessore, Narsete viene citato con l’appellativo di ‘exarchus’ e dunque per questo risulterebbe il primo esarca d’Italia.
[11] Le suddette diocesi gravitavano nella sfera d’influenza merovingia sin dai primi anni delle guerre greco-gotiche.
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte III
Dacché gli aquileiesi non avevano alcuna intenzione di scendere a più miti consigli con Roma, papa Pelagio I decise di rivolgersi al potere temporale esigendo che sia il metropolita Paolo che il presule Auxano, arcivescovo di Milano che aveva consacrato Paolo patriarcha, venissero arrestati[8]. Grazie alle svariate lettere che inviò alle alle varie autorità temporali, Pelagio I ricevette il pieno supporto del patricius Giovanni di Ravenna, magister militum ed ex-consul, esponente della famiglia imperiale romea e massima autorità amministrativa nella penisola italica per conto di Bisanzio.
Giovanni fallì nel suo intento dacché non riuscì a prendere Aquileia né tantomeno a riportare gli scismatici in linea con Roma; stando ad una lectio delle lettere di papa Pelagio I, Giovanni dopo essere stato scomunicato dagli aquileiesi decise di astenersi da ulteriori operazioni e di lasciare l’incarico prefettizio nelle mani del fratello Valeriano. Pelagio I decise allora di rivolgersi al patricius Valeriano, subentrato al fratello come governatore di Ravenna nel 559, ma questi come anche il suo successore, lo stratēgos autokratōr Narsete vincitore delle guerre greco-gotiche, decisero, forse su suggerimento dello stesso Giustiniano, di non occuparsi personalmente della faccenda lasciandola nelle mani di Giustiniano stesso.
Con la morte di Pelagio I avvenuta nel 560 e la nomina di Giovanni III a vescovo di Roma, la politica della chiesa romana verso la scismatica Aquileia non cambiò affatto; il nuovo pontefice ribadì pubblicamente la validità dei decreti del concilio di Calcedonia ed impose ai nuovi vescovi suoi suffraganei di giurare su questi dinanzi a dei testimoni e di fornire prova scritta di tale giuramento[9]. Non vennero però operate azioni dirette contro gli scismatici in quanto nel 560-61 un contingente romeo, inviato ad Aquileia forse per arrestare il patriarcha Paolo, dovette desistere da questo proposito dacché fu bloccato sull’Adige dai franchi del duca Amingo i quali non vedevano di buon grado le continue intromissioni di Giustiniano nella sfera politico-religiosa della penisola italica.
[8] «Reclamava soprattutto che i publici poteri usassero come atto dovuto la loro autorità, ‘exercete igitur debitam auctoritatem’, per stroncare lo scisma in quanto focolaio di sedizione, ‘tanquam seditiosum comprimi’, che minacciava cioè l’unità dello Stato». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, pp. 4-5)
[9] «Caeterum periculosissimis temporibus Joannes pontifex animum non depondit, sed et Romanae rei labenti opem ab imperatore petiit, et synodum V defendit. Etenim ii, qui in urbium antistites consecrabantur, in synodi quintae decreta jurabant, fidei datae chirographum ad apostolicam sedem transmittebant». (cifr. Anast., Joannes III, PL128)
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte II
In risposta al sinodo di Costantinopoli, i vescovi dell’Illyricum, sul finire del 548, convocarono un sinodo nel quale una vasta maggioranza di presuli si sollevò contro la condanna che papa Virgilio aveva espresso tramite il Judicatum. Con l’inasprirsi del conflitto religioso Virgilio fuggì a Calcedonia rifugiandosi nella chiesa di Santa Eufemia dalla quale nel 552, pentito delle sue azioni, emise la lettera ‘ad universam Ecclesiam’ nella quale anatematizzava tutti coloro che avessero accettato la condanna dei tria capitula e che avessero seguito i dettami dell’editto giustinianeo del 543. In seguito a ciò, la provincia dell’Illyricum esplose, abbandonandosi a tremendi disordini. Giustiniano ne fece una questione militare tanto da dirottare verso la città illirica di Ulpiana (i.e. Giustiniana Seconda) le armate romee inviate in soccorso dell’alleato longobardo allora attaccato dai Gepidi; inutile dire che i Longobardi vennero lasciati soli a fronteggiare il loro nemico e, sotto Alboino, tennero memoria di questo tradimento. Repressa la rivolta, Giustiniano indisse nel 553 il secondo concilio di Costantinopoli, il quinto concilio ecumenico, ordinando a Belisario di convincere con ogni mezzo papa Virgilio a partecipare. Il concilio si concluse nel 554 con la definitiva condanna per eresia dei tria capitula sotto la guida di Virgilio, che si decise ad emettere nello stesso anno il suo Constitutum nel quale ribadì con veemenza questa condanna.
Di lì a poco l’intera ecclesia occidentale esplose in tumulti, certa che dietro l’ennesimo ripensamento del pontefice vi fosse Giustiniano; i vescovi di Aquileia e Milano sconfessarono gli esiti del concilio del 554 testimoniando la loro cieca fedeltà ai dettami del concilio di Calcedonia in materia di monofisismo. In questo grande caos, alla morte di papa Virgilio avvenuta nel 555, Giustiniano approfittò del vuoto di potere per far eleggere papa quel Pelagio che in passato era stato strenuo difensore dei tria capitula. Salito al soglio pontificio, papa Pelagio I decise di rinnegare la sua pasata militanza nel fronte anti-monofisita arrivando ad appoggiare in toto l’imperatore Giustiniano che conseguì così una duplice vittoria: sul soglio pontificio sedeva un uomo a lui ciecamente fedele, un uomo strappato alla fazione anti-monofisita della quale era stato esponente di spicco.
Pelagio I operò subito di conseguenza inviando il vescovo Sapaudo di Arleate (i.e. Arles) come suo vicario alla corte merovingia del re Childeberto I nella speranza di convincere quest’ultimo ad operare con ogni mezzo contro ogni forma di dissidenza religiosa. Su questo fronte Sapaudo non ottenne molti successi; riuscì invece ad ottenere la fiducia del re austrasiano pro tempore Clotario I, spingendolo ad attirare sotto il suo controllo le diocesi dei Breoni, di Teurnia e di Agunto un tempo sotto la giurisdizione della provincia ecclesiastica di Aquileia nelle Venetiae.
La reazione di Aquileia non si fece attendere. Alla morte del metropolita aquileiese Macedonio avvenuta nel 558, il suo successore Paolo convocò nello stesso anno un «particularem synodum» (cifr. Pelagio I Pap., Epist., PL 69) durante il quale, con il favore incontrastato dei vescovi e del clero delle diocesi della provincia, assunse il titolo di patriarcha proponendosi come capo autonomo della chiesa metropolitana di Aquileia. Lo scisma era compiuto e l’autocefalia da Roma oramai dichiarata.
Lo scisma contribuì con il mai sopito malcontento dell’Italia Superiore verso i romei di Giustiniano e Narsete, rei di aver usurpato il regno ostrogoto, e le crescenti mire espansionistiche franche sul nord della penisola[6] a gettare le Venetiae nell’incertezza. Di questa situazione precaria ne approfittarono molti imperatori romei, fra cui lo stesso Giustiniano[7], sbandierando la questione aquileiese dinanzi agli occhi del pontefice di turno per ottenerne il consenso.
[6] Basti pensare a ciò che accadde sul finire dei dieci anni di interregno ducale seguiti all’omicidio del sovrano longobardo Clefi nel 574; omicidio del quale o i duchi o l’esarca di Ravenna, a quell’epoca ancora sotto il controllo di Bisanzio, furono i mandanti. I duchi, spinti dalla minaccia franco-romea che premeva sui confini, misero da parte le rivalità e, donandogli metà dei loro patrimoni, giurarono fedeltà ad Autari, figlio di Clefi, eleggendolo re nel 584.
[7] «Poiché Giustiniano ormai si proponeva come guida nelle dispute cristologiche, era sicuramente funzionale alle sue aspirazioni l’indebolimento del prestigio delle antiche Chiese patriarcali». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, nota 20 pag. 4)
Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte I
Note
[1] Nominato anch’egli stratēgos autokratōr da Giustiniano nel 551, subentrò a Belisario come comandante supremo dell’esercito romeo.
[2] Dottrina cristiana che negava la duplice natura, divina ed umana, della figura del Cristo.
[3] Etèra di umilissime origini, divenne sposa di Giustiniano ed imperatrice nella Pasqua del 527, più precisamente il 4 Aprile. Fu esponente di spicco della corrente monofisita a Bisanzio.
[4] Da qui ne deriva il nome comune con cui è noto lo scisma aquileiese, ossia scisma dei tre capitoli.
domenica 22 novembre 2020
Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte VI
sabato 21 novembre 2020
Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte V
Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz
venerdì 20 novembre 2020
Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte IV
Ben altro discorso riguarda gli statunitensi Manowar, pressappoco contemporanei agli Heavy Load, e colleghi nello stile musicale, ma decisamente più famosi.
Appassionati di storia e mitologia, ed estimatori del compositore tedesco Richard Wagner, sin dai primi lavori dedicano numerosi testi alle battaglie del passato e all’onore guerriero.
Ispirati, per l’appunto, più da tematiche wagneriane che da artisti Rock passati e presenti, nei primi anni d’attività incidono brani come Gates of Valhalla e Thor (The Powerhead), che non credo necessitino d’approfondimento – anche qui è quantomeno obbligatorio segnalare che i Manowar porteranno avanti il discorso approfondendolo soprattutto nei lavori più recenti, ma anche qui ci troviamo di fronte a brani e dischi rilasciati in annate in cui le tematiche pagano-germaniche sono ampiamente consolidate nell’ambiente Metal.
Altro caso significativo riscontrabile sul suolo statunitense è quello dei Manilla Road, meno conosciuti dei Manowar ma egualmente affascinati dai conflitti bellici del passato e dalle culture europee.
Anche in questo caso, sin dalle primissime incisioni, gli esempi sono numerosi; in special modo l’amore per il mondo vichingo viene esternato dal fatto che in breve tempo, il simbolo più riconoscibile della band diverrà un evocativo quanto ingenuo (e un po’ pacchiano) elmo cornuto.
Tornando nella vecchia Inghilterra, patria indiscussa della musica Hard ‘n’ Heavy, si possono trovare altri sporadici riferimenti a battaglie ed incursioni vichinghe, meno palesi ma di sicuro non meno interessanti; utili per delineare quanto, all’epoca, determinati argomenti coinvolgessero anche artisti che in futuro non li avrebbero mai veramente approfonditi.
Come i Motörhead di Deaf Forever (1986), che al solito regalano versi essenziali e d’impatto:
“I cavalli urlano, sogno vichingo
eroi affogati in un lago di sangue.
Pugno armato, polso tagliato
lance spezzate in un mare di fango.”
o i Saxon di Warrior (1983) che ne parlano sotto una nuova, terrorizzata, ed anche un po’ stereotipata prospettiva:
“Attraccano sulla tua costa,
buttano giù la tua porta,
invasori da oltre il mare.
Stuprano e massacrano
tua moglie e tua figlia
[…]
vengono con il tuono
per uccidere e depredare,
saccheggiano le ricchezze della tua terra.”
Scavando sempre più a fondo nel sottobosco Heavy Metal di quegli anni, gli esempi diventano via via più frequenti e palesi.
Tra i più noti, possiamo citare: i brani Thor-Thunder Angel (1983) degli inglesi Battleaxe e Valhalla (1986) degli americani Crimson Glory; l’album The Son Of Odin (1986) dei londinesi Elixir; il risibile progetto musicale del culturista canadese Jon Mikl Thor – attivo addirittura dal 1977 - ed il gruppo statunitense Viking, formatosi nel 1986.
Dopo aver analizzato suddetti casi, si può affermare con tranquillità che, partendo dagli anni ’70, la storia e i culti delle antiche popolazioni germaniche hanno iniziato lentamente a prosperare all’interno del panorama Rock internazionale.
È unanimemente riconosciuto però, che la vera svolta la si avrà soltanto nella seconda metà degli anni ‘80, quando un (ormai) noto progetto musicale svedese, che trae il nome da una sanguinaria contessa ungherese, lascerà una traccia indelebile nella storia del Metal ed in quella della rinascita dei culti pagani, facendo sposare ufficialmente due mondi che hanno sempre amoreggiato in maniera più o meno clandestina.
Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz
giovedì 19 novembre 2020
Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte III
mercoledì 18 novembre 2020
Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte II
Rimanendo sul suolo inglese, ulteriore esempio è fornito dalla lunga ed articolata The Gates Of Delirium, vera e propria suite musicale la cui durata supera i venti minuti, incisa nel 1974 dal gruppo di Rock progressivo YES. Pur essendo anch’essi spiritualmente di larghe vedute, e pur avendo loro stessi ammesso che l’ispirazione principale nella stesura del brano è stato il libro “Guerra & Pace” di Lev Tolstoj, ascoltando versi come “i nostri Dèi si risvegliano in tonanti boati” è difficile non immaginarsi una battaglia vichinga.
Portando un ultimo esempio fuori tempo massimo, i Black Sabbath (altra formazione inglese) nei decenni successivi diedero alle stampe l’album TYR, disco ingiustamente sottovalutato ed interamente intitolato al Dio nordico del conflitto – è doveroso precisare che suddetto album è datato 1990, anno in cui le tematiche pagane nordico-germaniche erano già ampiamente utilizzate in svariati sottogeneri della musica Rock.
martedì 17 novembre 2020
Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte I
Partiamo dall’esempio più noto, il brano Immigrant Song dei britannici Led Zeppelin, datato proprio 1970, che può essere considerato il primo palese apripista verso questo genere di tematiche, con le sue liriche che raccontano di paesaggi innevati e incursioni vichinghe:
“Veniamo dalla terra del ghiaccio e della neve
dal sole di mezzanotte dove le calde sorgenti sgorgano,
il martello degli Dèi guiderà le nostre navi verso nuove terre
a combattere le orde, cantando e piangendo
Valhalla sto arrivando.”
Le stesse tematiche saranno ancora affrontate dal quartetto nell’evocativa No Quarter del 1973:
“Chiudi la porta, spegni la luce
no, non torneranno a casa stanotte.
La neve cade forte e… non lo sai?
I venti di Thor soffiano gelidi.
Indossano acciaio tanto splendente e forte,
portano notizie che devono arrivare,
scelgono il sentiero che nessuno percorre,
non hanno nessuna pietà.”
sabato 14 novembre 2020
Sul Male
Tutti noi, almeno una volta, ci siamo posti questa domanda affrontando le avversità che la vita, in questo come altri tempi, ci pone innanzi.
La risposta è tutt’altro che semplice, ma possiamo provare ad analizzarla nella maniera più chiara possibile.
Partiamo da un presupposto: nessun Dio della nostra tradizione è malvagio, nemmeno lo spesso vituperato Loki, ma tutti contribuiscono al mantenimento dell’ordine cosmico ed in questo ordine vi è posto per ogni cosa del creato, per la gioia come per la tristezza, per il piacere come per il dolore.
Possiamo quindi affermare che nessun Dio farebbe mai del male fine a se stesso ma potrebbe tramite questo compiere un’opera utile al mantenimento dell’ordine cosmico, e quindi fare del bene.
Wodanaz potrebbe permettere, o addirittura favorire, la morte in battaglia di un suo prescelto perché questo possa unirsi ai ranghi degli Einherjar fra le aule del Valhöll, così facendo egli agisce in maniera giusta poiché porta a compimento il Wyrd dell’uomo prescelto per quanto, ad un occhio prettamente umano, questo possa sembrare difficile da capire.
Esiste quindi il Male? Assolutamente si, ma non è dagli Dèi che viene, molte sono le entità e le creature che si muovono nel nostro mondo di mezzo, ed alcune di esse possono essere di natura malvagia o compiere, per proprie motivazioni, azioni di questo tipo.
Rune, amuleti e segni sono protezioni valide contro queste minacce ma questo è un altro argomento che tratteremo, separatamente, in un altro articolo.
Gli Dèi, quindi, sono giusti.
Essi sono i custodi dell’ordine e del caos necessari e vegliano sui mondi così come un padre ed una madre vegliano su una famiglia, agendo talvolta in maniera dura ma sempre, in definitiva, per un superiore bene.
giovedì 22 ottobre 2020
Seið hòn leikin - parte XII
Seiðr e possessione
Conclusioni
Postfazione
mercoledì 21 ottobre 2020
Seið hòn leikin - parte XI
La ritualità sessuale nel Seiðr
Un uomo che praticasse il Seiðr era marchiato come ergi (non mascolino, disonorevole), un concetto che oggi potremmo associare piuttosto vagamente allo stigma sull'omosessualità. La sfumatura nella società vichinga era diversa. Non era tanto l'omosessualità in se a costituire un tabù sociale, quanto l'omosessualità passiva: l'associazione di pensiero comune era che un uomo che si lasciasse penetrare da un altro uomo vi si sarebbe sottomesso anche in altre faccende meno private, e dunque mancasse di onore. La domanda che sorge spontanea è dunque: perchè questa pratica magica, se eseguita da un uomo, è associata all'omosessualità e alla perdita d'onore?
Fig. 15: se foste degli scandinàvi quest'immagine di porri avrebbe per voi un chiaro riferimento sessuale |
martedì 20 ottobre 2020
Seið hòn leikin - parte X
Fonti archeologiche
Fra i vari pendenti/amuleti, particolarmente notevoli quelli a forma di sedia, totalmente assenti da contesti cristiani. Hanno la forma del kubbstol – sedia tradizionale scandinava in uso ancora oggi e ritratta anche in pietre runiche come quella di Sanda. Sono solitamente decorate con punzonature, e associati solo a tombe femminili (richiamano l'alto scranno su cui siede la völva a profetizzare). Alcune di queste sono più complesse e particolarmente indicative: in quella di Hedeby (900 ca.) i braccioli rappresentano due canidi (Freki e Geri?) e due uccelli sono scolpiti nello schienale (Huginn e Muninn?), le Figure sono arrangiate al contrario in quello di Lejre ed è presente una rappresentazione di Odino (indicata dalla presenza di un solo occhio) con una lunga veste con bordo decorato, uno scialle o mantello, un cappello in testa e numerosi fili di perle al collo.
Altri amuleti associati sono piccoli pendenti a forma di bastone, cavalli, spade e lance, sempre con un riferimento a Odino. In queste file di amuleti non sono mai presenti Mjolnir.
Come possiamo vedere studiando i paralleli fra tutte queste sepolture, alcuni oggetti ricorrono e sono senz'altro associati con la magia: i resti animali, le sostanze enteogene, le pietre preziose e semipreziose, i secchi, i bastoni, le scatole rituali (più o meno belle, lussuose e complesse, come la scatola di Bj 845 e quella di Oseberg), forse gli scudi (suggerito dal posizionamento del soggetto principale in Fyrkat), probabilmente coltelli, il vasellame orientale (a Klinta ed Aska addirittura una ciotola di origine iraniana, oltre al parallelismo di altri vasi), alcuni tipi di catene (quella di Klinta è uguale a quella che lega i corpi in Bj 843), i pendenti e ovviamente i bastoni: possiamo riconoscerli e caratterizzarli da diversi contesti, differenziandoli dagli spiedi perchè deposti insieme a spiedi (gli oggetti del corredo funebre sono duplicati in casi più unici che rari), con occhielli per appendere amuleti di natura organica (probabilmente legno , ossa o pelli animali), decorati da pomoli troppo ingombranti per essere impugnature, per la presenza di manopole che inframmezzano l'asta rendendone impossibile l'uso culinario, al punto che le impugnature elaborate e a cesto sono state definitivamente identificate come segno di seiðstaff, bastone per il Seiðr.
Fig 14: ricostruzione di Seiðstaff per come sarebbe apparso in origine |
Elementi caratterizzanti la tomba di una völva sono dunque sicuramente i narcotici (con un forte collegamento all'estasi Odinica), bastoni con alcuni gruppi di caratteristiche (che hanno permesso di differenziarli da scettri e spiedi. Ne sono stati trovati 26 in area scandinava, risalenti all'età vichinga, e 8 nella sfera di influenza scandinava geograficamente esterna), dei secchi (il vètt?), alcuni tipi di amuleti (sedie e bastoni principalmente) ed elementi importati da culture lontane, definendo la völva come uno degli elementi più "cosmopoliti" e trasversali della cultura scandinàva.
Loreta Fasano
lunedì 19 ottobre 2020
Seið hòn leikin - parte IX
Fonti archeologiche
Fig. 11: l'inumazione di Oseberg durante gli scavi |
Una delle donne aveva circa 75 anni ed è sicuramente morta di cancro, l'altra circa 50. Non sappiamo se una delle due, e nel caso chi, fosse l'occupante principale e in quale ruolo. La monumentale ricchezza della tomba si presta a interpretazioni molto disparate (un'incantatrice, una proprietaria terriera estremamente ricca, la regina Åsa. La tomba è più ricca delle normali tombe regali, facendo propendere per una völva particolarmente potente e stimata).
Negli arazzi, ben conservati, che tappezzano le pareti della camera possiamo vedere scene di culti di Freja e Odino, con figure femminili, corvi e lance, che ritraggono riti per la fertilità e la potenza sessuale. Sono presenti impiccati, donne con le spade sollevate fra gli alberi, uomini in pelli animali e donne con testa di uccelli e cinghiali: notare che queste non sono maschere, poichè i caratteri sono più estesi, come le setole dei cinghiali raffigurate lungo tutta la schiena. Gli arazzi di Oseberg sopravvivono come unica rappresentazione di mutaforma femminili.
Fig 12: uno degli arazzi |
Fig 13: dettagli del carro con gatti |
Unica tomba femminile in un luogo di sepolture unicamente maschili, sepolta con un rito indubbiamente pagano, di origine norrena e vestita secondo la moda anglo-scandinava.
domenica 18 ottobre 2020
Seið hòn leikin - parte VIII
Fonti archeologiche
sabato 17 ottobre 2020
Seið hòn leikin - parte VII
Fonti archeologiche
Gruppo di Birka (Svezia)
Fig. 7: edificio raffigurato sul bastone di Klinta |
Fig. 8: il pendente di Aska raffigurante Freya |
Loreta Fasano
venerdì 16 ottobre 2020
Seið hòn leikin - parte VI
Fonti archeologiche
Gruppo di Birka (Svezia)
Bj 834, doppia inumazione in camera con carro, 932 ca.Inumazione invernale di un uomo e una donna in una grande camera divisa in due. In una delle stanze si trova una piattaforma su cui sono deposti i resti di due cavalli, sepolti con paramenti costosi. I due umani nell'altra stanza sono stati invece sepolti seduti sulla stessa sedia, uniti da una catenella, deposto prima l'uomo e poi la donna, entrambi guardavano nella stessa direzione.
Questa testimonianza funebre è preziosissima, poichè ci fornisce un parallelo su saghe e resoconti: in Grettis saga e Njals saga ritroviamo una sepoltura comprendente ossa di cavallo, mentre nel racconto di Ibn Fadlan ritroviamo la stessa deposizione in camera e seduto su una sedia per un uomo particolarmente benestante, fornendo credito a quest'ultimo, spesso screditato racconto.
L'uomo e la donna sono abbigliati in modo tradizionale, da notare solo delle monete arabe (che forniscono la datazione) nelle scarselle e utilizzate come pendenti.Gli oggetti sparsi nella camera sono stati attribuiti all'uomo o alla donna secondo indicazioni sociali di genere classiche per questo periodo ma mi preme sottolineare come, poichè emerge la importanza sociale simile per entrambi, non possiamo essere certi dell'attribuzione. In tombe multiple schiettamente meno "paritarie" o disposte diversamente possiamo attribuire la proprietà degli oggetti con molta più certezza e in differenti casi donne sono state sepolte con oggetti tipicamente maschili, come armi e strumenti per lavorare il legno, e uomini con oggetti tipicamente femminili, come strumenti per la filatura.
Per quello che mi riguarda, l'elemento più interessante è una lancia scagliata su entrambi i corpi, di cui sopravvive solo la punta infilata in profondità nella parete di legno della camera: è una delle più palesi dediche a Odino che ritroviamo in una sepoltura (i riferimenti nelle saghe sono numerosissimi: Ynglingasaga, Odino dichiara che tutti coloro che devono andare a lui devono essere marchiati con la lancia; Flateyjarbok: prima di una battaglia si scaglia una lancia che sorvoli i nemici per dedicarli a Odino; Vǫluspá: Odino scaglia una lancia su un esercito e da inizio ad una guerra). Questo ci permette di identificare i due occupanti come consacrati ad Odino, probabilmente un guerriero l'uomo e una völva la donna, identificata dal bastone (e ipoteticamente dal secchio).
Fig. 5: ricostruzione di Bj 834 |
Loreta Fasano