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martedì 29 dicembre 2020

Il poema runico anglosassone

 Come "regalo di Yule", e come ultimo articolo prima del 2021 e delle novità previste per il prossimo anno, vi presentiamo il poema runico anglosassone, uno dei tre poemi runici giunti fino a noi.

Hailaz Wodanaz! 

https://drive.google.com/file/d/168WBwU25yW89-0MWh4t3Dt0ic9iTcBEL/view?usp=sharing

lunedì 7 dicembre 2020

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte VI

Ultimi protagonisti di un simile panorama travagliato furono i Longobardi. Dieci anni dopo il patto stretto con gli Alamanni, sfumata la possibilità di una liberazione franca, i gruppi indipendentisti goti identificarono nei Longobardi «[...] la potenza che forse poteva aiutarli ad allontanare il dominio di Costantinopoli dall’Italia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 85)
I Longobardi non erano estranei a tentativi d’alleanza da parte degli Ostrogoti; già nel 538 emissari del re Vitige giunsero in Pannonia per parlamentare con i Longobardi. «Purtroppo gli ambasciatori “avendo trovato Vaci (il re longobardo Wacho) amico ed alleato dell'imperatore, tornaronsene senza nulla aver concluso” (Proc., Goth., II, 22)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Un ulteriore tentativo ebbe luogo nel 549 sotto il re Totila, «[...] allorché Ildige, erede legittimo al trono longobardo, giunse con un forte esercito nelle Venezie ben intenzionato ad unirsi ai Goti. Qui “si scontrò e venne alle mani con una schiera di Romani, comandata da Lazzaro, e, voltala in fuga, molti ne uccise” (Proc., Goth., III, 35)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) Inspiegabilmente non si giunse ad un accordo fra le due parti.
Personalità chiave per comprendere il dipanarsi dei legami diplomatici e di sangue fra Goti e Longobardi è il re Audoino sotto cui nel 546 i Longobardi, in qualità di foederati[14] romei, espansero verso sud est e sud ovest il loro territorio in Pannonia. La provincia di Pannonia, da poco sottratta agli Ostrogoti, venne occupata dalle guarnigioni longobarde le quali ricevettero beneficia non indifferenti e fu in questa occasione che «Audoino aveva ottenuto di sposare Rodelinda, pronipote del grande Teodorico, e figlia dell’ultimo re dei Turingi, Ermenfrido». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85)
Il loro figlio, Alboino, «[...] quale discendente ed erede di Teodorico – come suggeriva il Bognetti - si poteva prestare perfettamente alle mire degli Ostrogoti transpadani che ancora vagheggiavano il ripristino del loro regno in Italia. Alboino, diventato re dei Longobardi tra i primi e la metà degli anni sessanta, non sarebbe rimasto indifferente alle suggestioni dei missionari ariani inviati in Pannonia proprio dai Goti» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) e forse è anche per quanto sinora detto che Alboino intraprese la spedizione in Italia, il regno perduto dei suoi più prossimi avi.

 

Note

[14] «In base all'impegno preso nel patto di federazione, Audoino aveva fornito a Narsete un contingente di 5.500 combattenti, risultati determinanti nel 552 contro Totila nella battaglia di Tagina, ai Busta Gallorum. In precedenza, nel 550, lo stesso re longobardo aveva promesso mille guerrieri armati di tutto punto per la massiccia spedizione che Germano, nipote di Giustiniano e secondo marito di Matasunta (figlia di Amalasunta e nipote di Teodorico), stava preparando contro gli Ostrogoti. E' importante evidenziare che questa spedizione, andata poi vuoto per la morte improvvisa di Germano, avrebbe potuto provocare forti crisi di coscienza presso i Goti, come riporta Procopio perché “ne furono atterriti e messi pure in perplessità dal dover essi andare in guerra contro la progenie di Teodorico”». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, pp. 85-86)

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte V

In questo gran minestrone di problemi, anche i Goti ariani entrarono in subbuglio dacché, con la Sanctio Pragmatica pro petitione Vigilii emanata da Giustiniano, nel 554 i grandi latifondisti romani ottennero nuovamente i beni e le rendite che gli erano stati sottratti dai re ostrogoti, specialmente da Totila[12], allo scopo di ripristinare l’aristocrazia senatoria. Vi fu dunque un «[...] drastico cambiamento nel panorama dei possessores, con severa riduzione della percentuale dei Goti e con aumento vertiginoso degli orientali» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 84) e persino le chiese ariane ravennati vennero spogliate dei loro beni, beni che su ordine di Giustiniano vennero assegnati all’episcopato cattolico. «Le stesse basiliche ariane furono subito reconciliatæ [...]» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 84) all’episcopato cattolico tanto che i vescovi ariani dovettero trasferirsi altrove con i loro fedeli.
Partendo da simili presupposti, i Goti superstiti scelsero di ricorrere alla mimetizzazione religiosa convertendosi al cattolicesimo ma mal sopportando la politica imperiale, che era sostenitrice di Roma, decisero di legarsi agli scismatici. Non a caso «[...] le terre di più tenace adesione allo scisma coincidevano con le aree di massima concentrazione ostrogota. Non a caso nella Venetia alcuni facoltosi goti, Amara lectur e Guderit cum suis, compaiono fra gli oblatori del nuovo pavimento musivo nella cattedrale scismatica di Sant'Eufemia a Grado (consacrata nel 579)». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, pp. 84-85)
Per questa ragione frange consistenti di Ostrogoti cercarono di stringere accordi diplomatici con varie popolazioni limitrofe, come avevano in precedenza fatto con gli alamanni Buccellino e Leutari del 554[13].


Note

[12] Il regno del sovrano ostrogoto Totila era considerato illegittimo dall’imperatore Giustiniano, tanto da definire nelle Novelle ‘tyrannus’ il sovrano ostrogoto.

[13] Nel 554, come alleati, gli Ostrogoti e gli Alamanni condussero un attacco all’Italia Suburbicaria, «differentemente dai Franchi cattolici, “quelli che erano di origine alamanna, siccome erano di altra fede religiosa, spogliavano e distruggevano gli edifici sacri”». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 85) 

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte IV

Intanto, fra il 560 ed il 561, il patricius Narsete, stabilitosi a Roma, fu posto al vertice del governo civile[10] in Italia mantenendo il comando dell’esercito.
Fra i suoi ruoli civili vi era quello di vigilare sui culti e di curare le relazioni con la Chiesa di Roma che ancora si scontrava con gli aquileiesi; eppure Narsete, sottostando alla volontà non dichiarata di Giustiniano, si mostrò tollerante con gli scismatici.
Dopo aver riportato i confini della Præfectura Italiciana sino al Norico, strappandone il controllo ai Franchi nel 564, il patricius Narsete assegnò le tre diocesi ecclesiastiche dell’alta valle della Drava, del Gail e del Rienza - ossia quelle di Teurnia, di Agunto e quella dei Breoni - «alla giurisdizione metropolitica della scismatica Aquileia» (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, p. 82) vanificando così l’intervento del re austrasiano Clotario I che sotto Pelagio I le aveva portate sotto la sua giurisdizione[11] riavvicinandole a Roma.
Così facendo, Narsete guadagnò per Giustiniano le simpatie degli scismatici tricapitolini; solo con la salita al soglio imperiale di Giustino II, il quale perseguiva la distensione fra Roma e Bisanzio, e la fine dell’insurrezione erula del 566 nella Venetia venne messa in campo una vera e propria reazione militare contro gli scismatici. Narsete, spinto dal pontefice e dal nuovo imperatore, fece così “estradare” il vescovo tricapitolino Vitale di Altino dalla città di Aguntum, dove si era rifugiato, esiliandolo in Sicilia.
Lo scopo di Giustino II era duplice ed in totale opposizione alla politica del suo predecessore Giustiniano: evitare di dare l’idea agli scismatici, tramite concessioni di libertà, d’essere indipendenti dalla giurisdizione romea ed evitare, tramite prese di posizione religiose precarie, di destabilizzare ulteriormente un territorio già a lungo provato da guerre e cambi di potere.
Giustino scelse dunque di «[...] indulgere ai contestatari sia in Oriente che in Occidente. Tale era la percezione che se ne ebbe in Occidente sul nuovo sovrano, tanto che Venanzio Fortunato, in un suo carme del 568-69, lo celebra per aver revocato molti vescovi dall’esilio, e per aver accettato tutto quanto stabilito nel controverso concilio di Calcedonia». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, p. 83)


Note

[10] Nell’opera degli storici romei Giovanni Malàlas e Teofane il Confessore, Narsete viene citato con l’appellativo di ‘exarchus’ e dunque per questo risulterebbe il primo esarca d’Italia.

[11] Le suddette diocesi gravitavano nella sfera d’influenza merovingia sin dai primi anni delle guerre greco-gotiche. 

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte III

Dacché gli aquileiesi non avevano alcuna intenzione di scendere a più miti consigli con Roma, papa Pelagio I decise di rivolgersi al potere temporale esigendo che sia il metropolita Paolo che il presule Auxano, arcivescovo di Milano che aveva consacrato Paolo patriarcha, venissero arrestati[8]. Grazie alle svariate lettere che inviò alle alle varie autorità temporali, Pelagio I ricevette il pieno supporto del patricius Giovanni di Ravenna, magister militum ed ex-consul, esponente della famiglia imperiale romea e massima autorità amministrativa nella penisola italica per conto di Bisanzio.
Giovanni fallì nel suo intento dacché non riuscì a prendere Aquileia né tantomeno a riportare gli scismatici in linea con Roma; stando ad una lectio delle lettere di papa Pelagio I, Giovanni dopo essere stato scomunicato dagli aquileiesi decise di astenersi da ulteriori operazioni e di lasciare l’incarico prefettizio nelle mani del fratello Valeriano. Pelagio I decise allora di rivolgersi al patricius Valeriano, subentrato al fratello come governatore di Ravenna nel 559, ma questi come anche il suo successore, lo stratēgos autokratōr Narsete vincitore delle guerre greco-gotiche, decisero, forse su suggerimento dello stesso Giustiniano, di non occuparsi personalmente della faccenda lasciandola nelle mani di Giustiniano stesso.
Con la morte di Pelagio I avvenuta nel 560 e la nomina di Giovanni III a vescovo di Roma, la politica della chiesa romana verso la scismatica Aquileia non cambiò affatto; il nuovo pontefice ribadì pubblicamente la validità dei decreti del concilio di Calcedonia ed impose ai nuovi vescovi suoi suffraganei di giurare su questi dinanzi a dei testimoni e di fornire prova scritta di tale giuramento[9]. Non vennero però operate azioni dirette contro gli scismatici in quanto nel 560-61 un contingente romeo, inviato ad Aquileia forse per arrestare il patriarcha Paolo, dovette desistere da questo proposito dacché fu bloccato sull’Adige dai franchi del duca Amingo i quali non vedevano di buon grado le continue intromissioni di Giustiniano nella sfera politico-religiosa della penisola italica.

 
Note

[8] «Reclamava soprattutto che i publici poteri usassero come atto dovuto la loro autorità, ‘exercete igitur debitam auctoritatem’, per stroncare lo scisma in quanto focolaio di sedizione, ‘tanquam seditiosum comprimi’, che minacciava cioè l’unità dello Stato». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, pp. 4-5)

[9] «Caeterum periculosissimis temporibus Joannes pontifex animum non depondit, sed et Romanae rei labenti opem ab imperatore petiit, et synodum V defendit. Etenim ii, qui in urbium antistites consecrabantur, in synodi quintae decreta jurabant, fidei datae chirographum ad apostolicam sedem transmittebant». (cifr. Anast., Joannes III, PL128)

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte II

In risposta al sinodo di Costantinopoli, i vescovi dell’Illyricum, sul finire del 548, convocarono un sinodo nel quale una vasta maggioranza di presuli si sollevò contro la condanna che papa Virgilio aveva espresso tramite il Judicatum. Con l’inasprirsi del conflitto religioso Virgilio fuggì a Calcedonia rifugiandosi nella chiesa di Santa Eufemia dalla quale nel 552, pentito delle sue azioni, emise la lettera ‘ad universam Ecclesiam’ nella quale anatematizzava tutti coloro che avessero accettato la condanna dei tria capitula e che avessero seguito i dettami dell’editto giustinianeo del 543. In seguito a ciò, la provincia dell’Illyricum esplose, abbandonandosi a tremendi disordini. Giustiniano ne fece una questione militare tanto da dirottare verso la città illirica di Ulpiana (i.e. Giustiniana Seconda) le armate romee inviate in soccorso dell’alleato longobardo allora attaccato dai Gepidi; inutile dire che i Longobardi vennero lasciati soli a fronteggiare il loro nemico e, sotto Alboino, tennero memoria di questo tradimento. Repressa la rivolta, Giustiniano indisse nel 553 il secondo concilio di Costantinopoli, il quinto concilio ecumenico, ordinando a Belisario di convincere con ogni mezzo papa Virgilio a partecipare. Il concilio si concluse nel 554 con la definitiva condanna per eresia dei tria capitula sotto la guida di Virgilio, che si decise ad emettere nello stesso anno il suo Constitutum nel quale ribadì con veemenza questa condanna.
Di lì a poco l’intera ecclesia occidentale esplose in tumulti, certa che dietro l’ennesimo ripensamento del pontefice vi fosse Giustiniano; i vescovi di Aquileia e Milano sconfessarono gli esiti del concilio del 554 testimoniando la loro cieca fedeltà ai dettami del concilio di Calcedonia in materia di monofisismo. In questo grande caos, alla morte di papa Virgilio avvenuta nel 555, Giustiniano approfittò del vuoto di potere per far eleggere papa quel Pelagio che in passato era stato strenuo difensore dei tria capitula. Salito al soglio pontificio, papa Pelagio I decise di rinnegare la sua pasata militanza nel fronte anti-monofisita arrivando ad appoggiare in toto l’imperatore Giustiniano che conseguì così una duplice vittoria: sul soglio pontificio sedeva un uomo a lui ciecamente fedele, un uomo strappato alla fazione anti-monofisita della quale era stato esponente di spicco.
Pelagio I operò subito di conseguenza inviando il vescovo Sapaudo di Arleate (i.e. Arles) come suo vicario alla corte merovingia del re Childeberto I nella speranza di convincere quest’ultimo ad operare con ogni mezzo contro ogni forma di dissidenza religiosa. Su questo fronte Sapaudo non ottenne molti successi; riuscì invece ad ottenere la fiducia del re austrasiano pro tempore Clotario I, spingendolo ad attirare sotto il suo controllo le diocesi dei Breoni, di Teurnia e di Agunto un tempo sotto la giurisdizione della provincia ecclesiastica di Aquileia nelle Venetiae.
La reazione di Aquileia non si fece attendere. Alla morte del metropolita aquileiese Macedonio avvenuta nel 558, il suo successore Paolo convocò nello stesso anno un «particularem synodum» (cifr. Pelagio I Pap., Epist., PL 69) durante il quale, con il favore incontrastato dei vescovi e del clero delle diocesi della provincia, assunse il titolo di patriarcha proponendosi come capo autonomo della chiesa metropolitana di Aquileia. Lo scisma era compiuto e l’autocefalia da Roma oramai dichiarata.
Lo scisma contribuì con il mai sopito malcontento dell’Italia Superiore verso i romei di Giustiniano e Narsete, rei di aver usurpato il regno ostrogoto, e le crescenti mire espansionistiche franche sul nord della penisola[6] a gettare le Venetiae nell’incertezza. Di questa situazione precaria ne approfittarono molti imperatori romei, fra cui lo stesso Giustiniano[7], sbandierando la questione aquileiese dinanzi agli occhi del pontefice di turno per ottenerne il consenso. 

 
Note

[6] Basti pensare a ciò che accadde sul finire dei dieci anni di interregno ducale seguiti all’omicidio del sovrano longobardo Clefi nel 574; omicidio del quale o i duchi o l’esarca di Ravenna, a quell’epoca ancora sotto il controllo di Bisanzio, furono i mandanti. I duchi, spinti dalla minaccia franco-romea che premeva sui confini, misero da parte le rivalità e, donandogli metà dei loro patrimoni, giurarono fedeltà ad Autari, figlio di Clefi, eleggendolo re nel 584.

[7] «Poiché Giustiniano ormai si proponeva come guida nelle dispute cristologiche, era sicuramente funzionale alle sue aspirazioni l’indebolimento del prestigio delle antiche Chiese patriarcali». (G. Arnosti, Venanzio Fortunato, nel contesto dello scisma aquileiese, in «Il Flaminio» n.15, Novembre 2006, nota 20 pag. 4)

Lo scisma dei tre Capitoli. Ostrogoti e Longobardi - parte I

 
Disclaimer: prima di iniziare a leggere l'autore vi consiglia la visione del video, vi svelerà
alcune informazioni riguardo la qualità dell'articolo.
 

Nel pieno delle guerre greco-gotiche che imperversarono nella penisola italica fra il 535, anno dello sbarco in Sicilia dello stratēgos autokratōr Flavio Belisario alla testa di 7200 cavalieri e di 3000 fanti (cifr. Procopio, De Bello Gothico, Liber I, 5), ed il 553, anno della vittoria decisiva sui Goti del romeo Narsete[1], si apriva un altro scontro, uno scontro di matrice religiosa riguardante l’accettazione del monofisismo[2], uno scontro che influenzò e fu influenzato dallo svolgersi delle operazioni militari lungo la penisola.
Nel 543 Giustiniano, spinto dalla moglie Teodora[3], aveva stilato un editto volto a condannare gli scritti di tre vescovi delle diocesi orientali, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cyro ed Iba di Edessa. Le loro opere, raccolte in tria capitula[4], ritenute fortemente antimonofisite vennero messe al bando. 
La reazione delle Chiese d’Occidente, stanche delle continue intromissioni nelle dispute cristologiche portate avanti da Giustiniano per supportare la corrente monofisita tanto cara a Teodora, non si fece attendere. I presuli (i.e. alti prelati) occidentali rimasero fermi nella loro fedeltà alle sole dottrine riconosciute dal concilio di Calcedonia del 451, concilio in cui venne rigettata in toto il monofisismo, e riconobbero totale legittimità agli scritti raccolti nei tria capitula in quanto in perfetto accordo con la dottrina calcedoniana.
Nel frattempo a Roma era papa quel Virgilio che fu nominato pontefice da Flavio Belisario il 22 Novembre 537, nel pieno del primo dei due assedi a cui fu soggetta Roma nella guerra greco-gotica, su incarico diretto dell’imperatrice Teodora in seguito alle forzate dimissioni ed all’esilio nel 18 Novembre 537 di papa Silverio[1], accusato di essere filo-goto.
Virgilio si mostrò tentennante dacché, non avendo alcuna intenzione di attirarsi le ire dei presuli occidentali, non si espresse a favore dell’editto giustinianeo del 543. Per questa sua condotta incerta, nel 544, fu invitato a presentarsi all’imperatore romeo ed in risposta al suo tacito rifiuto nel 545 fu portato forzosamente sotto scorta a Bisanzio, via Sicilia. Lì nel 548 partecipò assieme ad una settantina di vescovi ad un sinodo indetto da Giustiniano con lo scopo di dirimere la questione dei tria capitula e confermare così l’editto del 543. La frangia dei vescovi anti-monofisiti non si mostrò per nulla incline al compromesso e ne nacquero accese discussioni che diedero l’occasione a papa Virgilio di interrompere gli atti del sinodo, riservandosi di decidere sui tria capitula. Pressato da Giustiniano, scrisse il suo Judicatum rivolgendolo a Menna, patriarca di Costantinopoli; in questo dichiarava di accettare la condanna dei tria capitola esprimendo parimenti la sua indiscussa fedeltà ai dettami del concilio di Calcedonia, una formula di compromesso che scatenò le ire dei presuli occidentali i quali respinsero la decisione papale. 
 
 

Note

[1] Nominato anch’egli stratēgos autokratōr da Giustiniano nel 551, subentrò a Belisario come comandante supremo dell’esercito romeo.

[2] Dottrina cristiana che negava la duplice natura, divina ed umana, della figura del Cristo.

[3] Etèra di umilissime origini, divenne sposa di Giustiniano ed imperatrice nella Pasqua del 527, più precisamente il 4 Aprile. Fu esponente di spicco della corrente monofisita a Bisanzio.

[4] Da qui ne deriva il nome comune con cui è noto lo scisma aquileiese, ossia scisma dei tre capitoli.

[5] Poco dopo lo sbarco di Belisario del 535, il 22 Aprile 536 papa Agapito I morì a Costantinopoli. Ne nacque uno scontro per la conquista del soglio pontificio fra i romei che, nella persona di Teodora, supportavano il diacono romano Virgilio in quanto molto accondiscendente verso i monofisiti ed il potere regale ostrogoto che invece appoggiava il suddiacono Silverio, fervente antimonofisita. Vincitore dello scontro fu il suddiacono Silverio che, stando a quanto riportato nel Liber Pontificalis, acquistò la carica pontificia dal re ostrogoto Teodato, allora a capo di parte della penisola italica (Teodorico, re ostrogoto, divenne re d’Italia sotto il romeo Zenone dal 493 al 526 e passò il controllo della penisola ai suoi successori). Ne nacque uno scandalo dacché Silverio era il primo suddiacono, carica di second’ordine, a divenire pontefice.
Durante il primo assedio di Roma nella guerra greco-gotica, iniziato nel Marzo del 537 con l’assalto di Vitige alla città occupata da Belisario e conclusosi nel Marzo del 538, papa Silverio fu vittima di un intrigo ordito ai suoi danni dall’imperatrice Teodora e portato avanti dallo stesso Virgilio, presente a Roma come diacono. Fu recapitata a Belisario una lettera nella quale si assicurava al re ostrogoto Vitige che la porta Asinaria sarebbe stata lasciata aperta per favorire l’ingresso delle sue truppe nella città e liberarla così dalla presenza romea. Seppure la lettera fosse un falso, lo stesso Liber Pontificalis non accenna ad alcun procedimento operato da Silverio per favorire gli Ostrogoti, il pontefice non riuscì a difendersi dalle accuse che gli vennero volte da Belisario, memore del fatto che in passato Silverio avesse stretto saldi rapporti con il sovrano ostrogoto Teodato. Fu deposto e sostituito dal diacono Virgilio.
Nel bel mezzo del conflitto Teodora si assicura così la fedeltà della diocesi romana con lo scopo di avere una più salda presa sulle chiese occidentali.

domenica 22 novembre 2020

Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte VI

Per quanto venga indiscutibilmente riconosciuto come un capolavoro del genere, Blood Fire Death resta un lavoro di transizione, sia sul profilo musicale che su quello concettuale; ottima partenza verso uno stile più maturo che sarà raffinato nei dischi successivi.  
Hammerheart del 1990 e Twilight Of The Gods del 1991, difatti, parlano da soli. 
Sulle copertine troviamo ancora due magnifici pezzi d’arte: il dipinto Funerale d’un vichingo di Frank Dicksee sul primo e la foto d’un suggestivo tramonto di montagna, ad opera dei fotografi Ridgew & Kihlborg, sul secondo. 
I temi trattati sono talmente palesi e immediati che è sufficiente riportare, tradotti nel nostro idioma quando possibile, i titoli delle tracce più rappresentative dei due album: Valhalla, La casa dei fu valorosi, Nel sangue attraverso il tuono, Sotto le Rune e Il crepuscolo degli Dèi, ovvia citazione all’opera di Richard Wagner
Sebbene il compositore tedesco e la cultura nordico-germanica fossero di grande ispirazione anche per gli americani Manowar, Quorthon ha sempre negato d’esser stato influenzato da altri artisti Metal per la creazione dei propri lavori, difendendo in maniera fin troppo stoica l’originalità della propria musica.
Risulta difficile credere a suddette affermazioni, tenendo anche conto del fatto che gli evocativi cori presenti nel repertorio anni ‘90 dei Bathory si possono scovare, pressoché identici, nelle tracce Thor (The Powerhead) del 1984 dei Manowar, e Heathens From The North del 1981 degli Heavy Load.
Originali o ispirate poco importa, sta di fatto che suddette tematiche diventano un marchio di fabbrica del gruppo - che ormai ha assunto i connotati d’un vero e proprio progetto solista, con Quorthon come unico autore ed esecutore d’ogni brano – e verranno solo saltuariamente abbandonate in sporadici e deludenti tentativi di proporre qualcosa d’alternativo.
Altro lavoro da citare obbligatoriamente è il concept-album - opera i cui testi sono collegati da una trama comune - Blood On Ice del 1996, che pur peccando d’una qualità di registrazione non proprio eccelsa, si annovera tra i migliori lavori del progetto, e regala brani meritevoli d’attenzione come:
Il vecchio con un occhio solo, che racconta dell’incontro tra il protagonista della storia e il dio Odino;
Il Lago, in cui il protagonista emula il sacrificio di Odino per poter attingere dalla fonte della conoscenza; 
Dèi del tuono, del vento e della pioggia, dedicata alla “trinità” pagana composta da Thòrr, Odino e Freyr.
La carriera dei Bathory si conclude con gli album Nordland I (2002) e Nordland II (2003), primi capitoli d’una quadrilogia rimasta purtroppo incompiuta, poiché, citando il commediografo greco Menandro: “muore giovane chi è caro agli Dèi”, e questo fu proprio il caso di Thomas Börje Forsberg, che si spense per un arresto cardiaco a soli 38 anni.
 
L’importanza di Quorthon, e della sua creatura Bathory, per l’Heavy Metal e per il paganesimo germanico è davvero incalcolabile. Attraverso la sua musica, Thomas ha fornito agli appassionati di questo genere la via d’accesso definitiva per la riscoperta dei culti antichi e della vera spiritualità europea. Grazie a lui, dagli anni novanta in poi, ragazzi e fanatici di tutte le età hanno iniziato ad indossare amuleti raffiguranti il martello di Thòrr, e ad interessarsi alle proprie origini, alla storia dei propri padri e della propria terra.
La sua eredità è stata fortunatamente raccolta da altri che hanno proseguito il discorso da lui iniziato, che ha portato alla nascita di sottogeneri straordinari della musica Rock come il Viking, il Folk e il Pagan Metal, dove le tematiche spirituali pagane sono un requisito fondamentale.
Questa musica supporta da decenni la diffusione della vera fede europea.
 
Concludo questa parte dell’articolo salutando questo grandioso artista, artefice indiscusso della rinascita pagana nella musica moderna, citando un suo testo che (secondo il parere di chi scrive) può essere considerato, a tutti gli effetti, uno dei primi esempi di “preghiera etena moderna”:
 
" So che vegli su di me 
Padre di tutto ciò che è passato 
e di tutto ciò che sarà.
 
Sei il primo e l'ultimo
osservatore di tutto ciò che vive,
guardiano di tutto ciò che è morto,
il Dio con un solo occhio che lassù
governa il mio mondo ed il cielo.
 
Vento del Nord, porta la mia canzone in alto
nella Sala della Gloria, in cielo
così che le sue porte m'accoglieranno spalancate
quando arriverà per me il tempo di morire."
 
Song to Hall Up High (1990)
 
HAIL ODINN! HAIL QUORTHON! HAIL BATHORY! 
 
 
Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz  

sabato 21 novembre 2020

Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte V

Prima di proseguire il discorso iniziato nelle precedenti parti dell’articolo, e focalizzarsi sui contenuti prettamente spirituali di quei sottogeneri di Rock che trattano di paganesimo germanico, occorre tracciare una breve ma essenziale panoramica sull’ambiente musicale Metal degli anni ottanta, al fine di avere un quadro generale della situazione ed una buona comprensione dell’argomento trattato.
 
I tanto amati “80s” vengono universalmente considerati il decennio d’oro dell’Heavy Metal; oltre al cospicuo numero di band valide che si muovevano nel sottobosco, le classifiche musicali dell’epoca erano intasate da artisti delle varianti più melodiche del genere. 
Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, dove i già nominati Manowar, pur essendo molto apprezzati e avendo cifre considerevoli in termini di vendite, rimanevano comunque un fenomeno di minore portata rispetto ai connazionali Mötley Crüe, Poison e Bon Jovi, appartenenti ai movimenti Glam, Hair e Pop Metal.
Le motivazioni son da ricercarsi nel tipo di proposta concettuale: la musica suonata dai Manowar in quegli anni, pur non discostandosi troppo in termini di sound da quello dei colleghi succitati (si veda l’album Fighting The World) ed essendo abbastanza fruibile anche dai non-maniaci del Metal, aveva un approccio ideologico decisamente più duro e massiccio; testi inneggianti alla gloria dell’eroica morte in battaglia riscuotevano di sicuro meno consensi rispetto a versi sulla vita facile e spensierata, sugli eccessi alcolici, e sullo sfrenato divertimento sessuale.
Questo e molti altri fattori hanno contribuito alla nascita, nell’ambiente “underground” – dove da adesso in avanti si svilupperanno le vicende di nostro interesse – di una schiera di fanatici sempre più esigenti ed intransigenti, che non accettavano compromessi e che bramavano una forma di Metal il più primordiale, dura e pura possibile.
 
Spostiamo il discorso in Svezia, dove la percezione comune di musica Metal del tempo, rappresentata da degli Europe forti del singolo di successo planetario The Final Countdown, rendeva arduo all’adolescente Thomas Forsberg il reclutamento di musicisti per il suo progetto di musica estrema.
Il progetto aveva nome Bathory, dal cognome della sanguinaria contessa ungherese Erzsébet, e nel 1987 aveva all’attivo tre album dal discreto successo - oggi considerate vere e proprie pietre miliari iniziatrici del movimento Black Metal, di cui si tratterà in maniera approfondita nelle successive parti dell’articolo - dalle liriche che spaziavano dai già noti satanismo e anti-cristianesimo, ai film dell’orrore, all’occultismo ed esoterismo di stampo fumettistico. 
Il giovane Thomas però, che per tutta la sua troppo breve carriera adottò il criptico nome d’arte di Quorthon, incuriosito dalla storia e dalle tradizioni della propria terra, decise di dare una svolta significativa ai propri lavori, sia sul piano musicale che su quello ideologico; svolta riscontrabile sin dalla copertina del quarto album Blood Fire Death (1988), dove al posto delle solite grafiche horror, troviamo il maestoso dipinto Asgardsreien del pittore norvegese Peter Nicolai Arbo, raffigurante la mitologica tradizione europea della “Caccia Selvaggia”, qui capitanata dal dio Thòrr che brandisce il martello Mjollnir.
È facile individuare nei testi e nei titoli delle tracce le nuove tematiche pagane, che in questo primo esperimento affiancano solamente quelle anticristiane abituali.
Essendo Quorthon un artista dotato d’una intelligenza vivace, ha inoltre nascosto un’ulteriore sberleffo ai culti monoteisti nella tracce The Golden Walls of Heaven e Dies Irae: se si legge la prima lettera d’ogni verso dei due testi, nel primo si trova la parola SATAN (Satana) ripetuta otto volte, nel secondo si legge la frase CHRIST THE BASTARD SON OF HEAVEN (Cristo, il figlio bastardo del cielo).

 

Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz 

venerdì 20 novembre 2020

Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte IV

Ben altro discorso riguarda gli statunitensi Manowar, pressappoco contemporanei agli Heavy Load, e colleghi nello stile musicale, ma decisamente più famosi.
Appassionati di storia e mitologia, ed estimatori del compositore tedesco Richard Wagner, sin dai primi lavori dedicano numerosi testi alle battaglie del passato e all’onore guerriero.
Ispirati, per l’appunto, più da tematiche wagneriane che da artisti Rock passati e presenti, nei primi anni d’attività incidono brani come Gates of Valhalla e Thor (The Powerhead), che non credo necessitino d’approfondimento – anche qui è quantomeno obbligatorio segnalare che i Manowar porteranno avanti il discorso approfondendolo soprattutto nei lavori più recenti, ma anche qui ci troviamo di fronte a brani e dischi rilasciati in annate in cui le tematiche pagano-germaniche sono ampiamente consolidate nell’ambiente Metal.
Altro caso significativo riscontrabile sul suolo statunitense è quello dei Manilla Road, meno conosciuti dei Manowar ma egualmente affascinati dai conflitti bellici del passato e dalle culture europee.
Anche in questo caso, sin dalle primissime incisioni, gli esempi sono numerosi; in special modo l’amore per il mondo vichingo viene esternato dal fatto che in breve tempo, il simbolo più riconoscibile della band diverrà un evocativo quanto ingenuo (e un po’ pacchiano) elmo cornuto.

Tornando nella vecchia Inghilterra, patria indiscussa della musica Hard ‘n’ Heavy, si possono trovare altri sporadici riferimenti a battaglie ed incursioni vichinghe, meno palesi ma di sicuro non meno interessanti; utili per delineare quanto, all’epoca, determinati argomenti coinvolgessero anche artisti che in futuro non li avrebbero mai veramente approfonditi.
Come i Motörhead di Deaf Forever (1986), che al solito regalano versi essenziali e d’impatto:

“I cavalli urlano, sogno vichingo
eroi affogati in un lago di sangue.
Pugno armato, polso tagliato
lance spezzate in un mare di fango.”


o i Saxon di Warrior (1983) che ne parlano sotto una nuova, terrorizzata, ed anche un po’ stereotipata prospettiva:

“Attraccano sulla tua costa,
buttano giù la tua porta,
invasori da oltre il mare.
Stuprano e massacrano
tua moglie e tua figlia
[…]
vengono con il tuono
per uccidere e depredare,
saccheggiano le ricchezze della tua terra.”


Scavando sempre più a fondo nel sottobosco Heavy Metal di quegli anni, gli esempi diventano via via più frequenti e palesi.
Tra i più noti, possiamo citare: i brani Thor-Thunder Angel (1983) degli inglesi Battleaxe e Valhalla (1986) degli americani Crimson Glory; l’album The Son Of Odin (1986) dei londinesi Elixir; il risibile progetto musicale del culturista canadese Jon Mikl Thor – attivo addirittura dal 1977 - ed il gruppo statunitense Viking, formatosi nel 1986.
Dopo aver analizzato suddetti casi, si può affermare con tranquillità che, partendo dagli anni ’70, la storia e i culti delle antiche popolazioni germaniche hanno iniziato lentamente a prosperare all’interno del panorama Rock internazionale.
È unanimemente riconosciuto però, che la vera svolta la si avrà soltanto nella seconda metà degli anni ‘80, quando un (ormai) noto progetto musicale svedese, che trae il nome da una sanguinaria contessa ungherese, lascerà una traccia indelebile nella storia del Metal ed in quella della rinascita dei culti pagani, facendo sposare ufficialmente due mondi che hanno sempre amoreggiato in maniera più o meno clandestina.

 

Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz

giovedì 19 novembre 2020

Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte III

Il finire degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 hanno visto la trasformazione dell’Hard Rock in Heavy Metal. 
In quegli anni le differenze fra i due stili musicali erano minime e non degne di nota, eccezion fatta forse per la stoica opposizione di alcuni artisti Heavy Metal verso i culti giudaico-cristiani. 
È pur vero che, nei vari sottogeneri del Rock anni settanta, erano già presenti gruppi che dimostravano fascinazioni non indifferenti per la figura di Satana, principale avversario dei culti abramitici - esempi incontrovertibili sono gruppi come i Coven o i Black Widow – ma con l’affermarsi dell’Heavy Metal si è passati definitivamente alla fase successiva.
Riassumendo: il Rock ‘n’ Roll, da sempre etichettato come musica pericolosa e satanica, ha timidamente ammesso “Beh si, sono satanista…” e l’Heavy Metal ha aggiunto un fiero “…e me ne vanto!” a conclusione della frase.
Sul satanismo (o presunto tale) nella musica Rock si sono scritti innumerevoli testi ed articoli; è una parentesi che suscita ancora oggi stimolanti osservazioni e meriterebbe un discorso a parte, ciò che ci interessa è che parallelamente ad esso, in maniera forse più velata ma non meno forte, si è sviluppata nella musica Metal un altro tipo di opposizione ai summenzionati culti monoteistici.
 
Le prime liriche riguardanti il paganesimo germanico e la cultura nordica sono senz’altro imputabili agli svedesi Heavy Load, e dato il loro paese d’origine, non ci si stupisce più di tanto.
Tra i testi del loro album d’esordio del 1978 spicca sicuramente quello dell’ultima traccia, Son of the Northern Light, che è abbastanza eloquente:
 
“Thor cavalca nuovamente il cielo
ascolta il tuono, avverti il dolore.
Quando sentiamo i pagani piangere
estraiamo la spada, e i cristiani moriranno.
Avverti il dolore! Avverti il dolore!
 
Stanotte il Papa striscerà nel proprio sangue,
la testa di Gesù sta per rotolare,
i guerrieri cristiani hanno stuprato la terra
ed io sto piangendo da quando sono nato.
Avverti il dolore! Avverti il dolore!” 
 
Il risentimento verso il cristianesimo è palese, ed interessante è notare come i successivi versi sembrino riprendere il discorso dei Led Zeppelin, riproponendo addirittura quasi gli stessi versi del quartetto inglese:
 
“Valhalla, credo di star arrivando,
Valhalla, credo di star tornando da te.
Veniamo dalla terra del sole di mezzanotte
occhi blu e capelli biondi, meglio che fuggi.
Il vento sussurra racconti andati
su come abbiamo combattuto, su come abbiamo vinto.” 
 
Tale discorso prosegue rinforzandosi nei lavori successivi, con brani come, tra i tanti, Heathens from the North, Singing Swords e Roar of the North. La band adotta inoltre, sulle copertine dei propri dischi, quello che sembra essere un guerriero berserker – o un combattente vichingo generico secondo l’immaginario dell’epoca - come propria mascotte ufficiale. 
Sfortunatamente la proposta musicale degli Heavy Load non attecchisce più di tanto, portando la band a sciogliersi e riformarsi svariate volte durante la prima metà degli anni ottanta, senza riuscire a trovare una vera e propria stabilità o una qualche risonanza nel resto del mondo
 
 
Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz 

mercoledì 18 novembre 2020

Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte II

A prescindere dalle motivazioni, in breve tempo altri artisti seguirono l’esempio degli Zeppelin.
 
I loro amici, colleghi e compatrioti Jethro Tull composero, nel 1975, la gradevolissima Cold Wind to Valhalla, dove sembrano quasi alludere ad una pecunia di uomini valorosi e meritevoli nell’era moderna, in quanto - citando letteralmente il testo - raccontano di come le Valchirie tornino “a mani vuote” nella “desolazione del Valhalla”.
Proprio come gli Zeppelin, neanche i Tull hanno mai adottato una chiara e definita posizione religiosa; è interessante però notare come questi ultimi siano stati tra i primi e più rappresentativi esponenti del connubio tra Hard Rock a musica Folk, che si sarebbe evoluto svariati anni più tardi nel Folk Metal, sottogenere dell’Heavy Metal in cui le tematiche pagane fanno da padrone.

Rimanendo sul suolo inglese, ulteriore esempio è fornito dalla lunga ed articolata The Gates Of Delirium, vera e propria suite musicale la cui durata supera i venti minuti, incisa nel 1974 dal gruppo di Rock progressivo YES. Pur essendo anch’essi spiritualmente di larghe vedute, e pur avendo loro stessi ammesso che l’ispirazione principale nella stesura del brano è stato il libro “Guerra & Pace” di Lev Tolstoj, ascoltando versi come “i nostri Dèi si risvegliano in tonanti boati” è difficile non immaginarsi una battaglia vichinga.

Portando un ultimo esempio fuori tempo massimo, i Black Sabbath (altra formazione inglese) nei decenni successivi diedero alle stampe l’album TYR, disco ingiustamente sottovalutato ed interamente intitolato al Dio nordico del conflitto – è doveroso precisare che suddetto album è datato 1990, anno in cui le tematiche pagane nordico-germaniche erano già ampiamente utilizzate in svariati sottogeneri della musica Rock.
 
 
Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz

martedì 17 novembre 2020

Il paganesimo germanico nella musica Rock - parte I

La seconda metà del Novecento ha assistito a due fenomeni d’incredibile portata: l’avvento della musica Rock e il risveglio dei culti europei precristiani, specialmente di quella frangia del paganesimo riguardante le credenze nordico-germaniche.
Questi fenomeni, entrambi troppo importanti per essere esclusi dagli eventi significativi della nostra epoca, sono inevitabilmente finiti per incontrarsi e fondersi, generando così un notevole e crescente interesse verso determinate tematiche negli amanti delle forme più estreme del Rock ‘n’ Roll.
Non a caso, gran parte dei pagani risvegliatisi negli ultimi anni, ha trovato la propria iniziazione spirituale proprio grazie alla musica.
Prima di dilungarsi trattando l’enorme parentesi dell’Heavy Metal - genere estremo della musica Rock che conta innumerevoli artisti che non solo hanno abbracciato gli antichi culti, ma ne hanno fatto il proprio vessillo e marchio di fabbrica - è bene spendere qualche parola sul Rock classico dei ruggenti anni ’70, dove si possono trovare i primi esempi dell’incontro tra musica moderna e credenze arcaiche.

Partiamo dall’esempio più noto, il brano Immigrant Song dei britannici Led Zeppelin, datato proprio 1970, che può essere considerato il primo palese apripista verso questo genere di tematiche, con le sue liriche che raccontano di paesaggi innevati e incursioni vichinghe:

“Veniamo dalla terra del ghiaccio e della neve
dal sole di mezzanotte dove le calde sorgenti sgorgano,
il martello degli Dèi guiderà le nostre navi verso nuove terre
a combattere le orde, cantando e piangendo
Valhalla sto arrivando.”


Le stesse tematiche saranno ancora affrontate dal quartetto nell’evocativa No Quarter del 1973:

“Chiudi la porta, spegni la luce
no, non torneranno a casa stanotte.
La neve cade forte e… non lo sai?
I venti di Thor soffiano gelidi.

Indossano acciaio tanto splendente e forte,
portano notizie che devono arrivare,
scelgono il sentiero che nessuno percorre,
non hanno nessuna pietà.”


La scelta del gruppo di trattare suddetti temi deriva non tanto da un interesse storico/religioso quanto da una fascinazione per il misticismo, l’occultismo e l’esoterismo; fascinazione confermata sia dal fatto che, nel 1971, ogni singolo componente della band adottò come proprio logo e firma un simbolo occulto (derivato da sigilli alchemici e runici) personalmente rivisitato, sia dalla forte passione del chitarrista Jimmy Page per gli scritti dell’esoterista Aleister Crowley.
 
 
Luca Russomanno, in collaborazione con le vie di Wodanaz

sabato 14 novembre 2020

Sul Male

Il Male viene anch’esso dagli Dèi? 


Tutti noi, almeno una volta, ci siamo posti questa domanda affrontando le avversità che la vita, in questo come altri tempi, ci pone innanzi. 

La risposta è tutt’altro che semplice, ma possiamo provare ad analizzarla nella maniera più chiara possibile. 

Partiamo da un presupposto: nessun Dio della nostra tradizione è malvagio, nemmeno lo spesso vituperato Loki, ma tutti contribuiscono al mantenimento dell’ordine cosmico ed in questo ordine vi è posto per ogni cosa del creato, per la gioia come per la tristezza, per il piacere come per il dolore. 

Possiamo quindi affermare che nessun Dio farebbe mai del male fine a se stesso ma potrebbe tramite questo compiere un’opera utile al mantenimento dell’ordine cosmico, e quindi fare del bene. 

Wodanaz potrebbe permettere, o addirittura favorire, la morte in battaglia di un suo prescelto perché questo possa unirsi ai ranghi degli Einherjar fra le aule del Valhöll, così facendo egli agisce in maniera giusta poiché porta a compimento il Wyrd dell’uomo prescelto per quanto, ad un occhio prettamente umano, questo possa sembrare difficile da capire. 

Esiste quindi il Male? Assolutamente si, ma non è dagli Dèi che viene, molte sono le entità e le creature che si muovono nel nostro mondo di mezzo, ed alcune di esse possono essere di natura malvagia o compiere, per proprie motivazioni, azioni di questo tipo. 

Rune, amuleti e segni sono protezioni valide contro queste minacce ma questo è un altro argomento che tratteremo, separatamente, in un altro articolo.


Gli Dèi, quindi, sono giusti. 

Essi sono i custodi dell’ordine e del caos necessari e vegliano sui mondi così come un padre ed una madre vegliano su una famiglia, agendo talvolta in maniera dura ma sempre, in definitiva, per un superiore bene. 

giovedì 22 ottobre 2020

Seið hòn leikin - parte XII

Seiðr e possessione

Esiste una connotazione meno approfondita del Seiðr, che però secondo me si correla benissimo al suo status di ergi negli uomini e in generale alla connotazione estatica.
Come abbiamo visto, nella Vǫluspá Heiðr "è mossa tramite il Seiðr"; in Hrolf saga kraki Heiðr "sbadiglia" all'inizio del suo rituale, la parola scelta è la stessa usata per descrivere il Ginnungagap, il vuoto sbadigliante da cui ha origine tutta la magia e, con grande probabilità, questo atto aveva lo scopo di invitare la possessione degli spiriti.
Secondo la mia interpretazione, nonostante siamo certi che svariati impieghi del Seiðr non prevedessero la penetrazione, era sempre associato ad ergi per gli uomini (in dosi maggiori o minori a seconda del rituale) poichè prevedeva, anche nelle forme meno sessuali, la penetrazione da parte degli spiriti nel corpo della völva.
 
Fig. 16: disegno di repertorio di strega che cavalca un lupo

 

Conclusioni

Dall'uso di Seiðr come verbo e come nome, e dalle variegate descrizioni, emerge come fosse una pratica dai numerosi usi e sfaccettature, dalle più domestiche (divinazione, aiuto durante caccia e pesca), alle funzioni guaritorie (probabilmente marginali), all'uso in battaglia (potenziamento degli attacchi fisici, attacchi magici - In Gisla saga Surssonar è usato per causare una valanga che travolga la casa di un rivale, in Gongu-Hrolf saga causa venti magici che tolgono il senno a chiunque guardi fuori, in Friðjolf saga Hins Fraekna le hamingjur (porzione dell'anima che poteva essere distaccata dal corpo e svolgere altre funzioni) di due incantatrici, in forma di balena, sono cavalcate dalle due durante una tempesta che hanno causato col Seiðr per distruggere una nave, oltre ai numerosi casi in cui il Seiðr è usato dettare le condizioni favorevoli di una battaglia o evocare spiriti in aiuto durante uno scontro; potenzialmento o inibizione della forza di un guerriero), alla magia sessuale.
Queste numerose sfaccettature funzionali riflettono sicuramente una varietà rituale, dai riti svolti in pubblico su un Seiðhallr, circondate da donne che intonano canti per attirare gli spiriti a quelli probabilmente svolti in contesti più intimi e con una connotazione sessuale più marcata.
Conosciamo il meccanismo generico con cui tutti questi probabilmente avvenivano: in uno stato di estasi, aiutato o meno da sostanze enteogene, l'anima della völva poteva uscire dal suo corpo in forma di hamingjur e gli spiriti possederla, con diverse funzioni (l'hamingjur principalmente di attacco, nella sua forma o cavalcando un animale, tipicamente un lupo, mentre gli spiriti per raggiungere luoghi remoti e passare informazioni alla völva) e con questi strumenti poteva causare alterazioni negli elementi naturali e nelle percezioni delle persone.
Numerosi erano gli strumenti del mestiere, tra cui sicuramente il bastone, vari amuleti di forme specifiche, pietre semipreziose, probabilmente una pittura bianca rituale entrata in uso tardivamente, strumenti di particolari metalli, talismani di origine animale, e sostanze enteogene. Sicuramente questi si sono evoluti e sono mutati nel corso dei secoli: tutto indica che il Seiðr è una pratica particolarmente antica.
 
 
Loreta Fasano
 
 

Postfazione

Potrei aver sbagliato lo spelling di alcune parole norrene, perchè l'ho richiamato a memoria o dai miei appunti (ho una pessima grafia). Per la classificazione delle fonti letterarie e delle tombe ho seguito quella di Neil Price in "The viking way", libro che vi consiglio caldamente e senza il quale non avrei mai potuto metter giù un discorso organico sull'argomento. Le traduzioni dei poemi e delle saghe sono mie, dall'inglese. Ho traslato in italiano svariate espressioni inglesi usate classicamente nelle descrizioni dei reperti (es. Basket handle), mi spiace se alcune suonano male ma ho cercato di scegliere quelle più descrittive.

mercoledì 21 ottobre 2020

Seið hòn leikin - parte XI

La ritualità sessuale nel Seiðr



Un uomo che praticasse il Seiðr era marchiato come ergi (non mascolino, disonorevole), un concetto che oggi potremmo associare piuttosto vagamente allo stigma sull'omosessualità. La sfumatura nella società vichinga era diversa. Non era tanto l'omosessualità in se a costituire un tabù sociale, quanto l'omosessualità passiva: l'associazione di pensiero comune era che un uomo che si lasciasse penetrare da un altro uomo vi si sarebbe sottomesso anche in altre faccende meno private, e dunque mancasse di onore. La domanda che sorge spontanea è dunque: perchè questa pratica magica, se eseguita da un uomo, è associata all'omosessualità e alla perdita d'onore?
La risposta più banale è che, in alcuni suoi aspetti, prevesse qualche forma di penetrazione, e ci sono vari riferimenti a favore di questa ipotesi tanto nelle saghe quanto nei nomi propri attribuiti ad alcuni di loro (Bosa saga: un bastone per evocare i Gandr è chiamato Gondull – pene; nel Volsa Þattr il Volsi – pene – è simbolo di un culto fallico, e viene conservato coi lokur – porri – simbolo fallico fin dall'antichità norrena), nel nome della völva (che ha la stessa radice di volsi, pene) e nelle interpretazioni più quotate (la più comune è che il Seiðstaff fosse utilizzato come sostituto di un fallo). Sappiamo per certo dalle saghe che alcuni rituali erano associati a più o meno ergi. Questo non si applica per le donne: per loro il Seiðr, così come essere penetrate o partorire, è un atto naturale.
In quest'analisi dobbiamo tener conto del fatto che l'orgasmo rituale, soprattutto femminile, è un tema tipico della stregoneria trasversalmente ad epoche e culture e lo troviamo anche qui con alcuni mirati riferimenti letterari ed archeologici.
Il Volsa Þattr è l'esempio più emblematico, spesso trascurato perchè di tarda composizione e riferito a tempi remoti, ma uno studio filologico e storico rivela che alcune porzioni sono autentiche.
Nel poema re Olafr si presenta sotto mentite spoglie (è un re cristiano e vuole valutare la diffusione del paganesimo nelle sue terre) col suo seguito nella dimora di una famiglia, in concomitanza con il sacrificio di un cavallo da parte di questi. Il pene del cavallo è soggetto di un rituale particolarmente lungo e complesso, al termine del quale il re lo getta via, disgustato, e la madre della famiglia pratica un rituale molto particolare (il guardare oltre la soglia, v.dopo) per recuperarlo.
E' probabile che il Volsa Þattr sia stato scritto per deridere le usanze pagane, ma nel contempo ce ne offre una descrizione con richiami molto antichi: il sacrificio viene rivolto alla gigantessa Mornir, alcune parole sono di origine molto antica (volsi, ringull), il sacrificio di un cavallo non era più comune da almeno un secolo, il riferimento al porro (simbolo sessuale norreno tradizionale, compare per la prima volta in un'iscrizione del V secolo), il culto di casa svolto sotto il patrocinio femminile (in tutto il componimento gli uomini intervengono davvero poco), Olaf e tutti i suoi compagni si presentano con lo stesso nome, Grimr (uno dei nomi di Odino, ma soprattutto hanno un attrito con le donne di casa nel momento in cui disprezzano e gettano il sacrificio, un parallelo in cui risuonano gli attriti di Odino stesso in presenza delle volur).
All'interno del racconto sono presenti porzioni molto esplicite che fanno riferimento a rituali di certa natura sessuale. Una schiava, nel maneggiare il volsi, dichiara "non potrei certo evitare di spingerlo dentro di me, se giacessimo da soli in mutuale piacere": questo breve periodo ci offre sia una connotazione intima di questo tipo di rituale che la personificazione dell'oggetto, dandoci indicazione di un culto del Volsi probabilmente di origine antica. Che non sia un'espressione concettuale ma letterale è confermato in varie parti del poema ("stanotte bagneranno il vingull" esclama il fratello di una delle ragazze).
 
Fig. 15: se foste degli scandinàvi quest'immagine di porri avrebbe per voi un chiaro riferimento sessuale
 
Il fatto che il Volsi fosse di cavallo è già un collegamento alla stregoneria di per se, indipendentemente dall'epoca, ma alla luce dei sacrifici di cavalli ricorrenti in scandinavia in periodi precedenti qui assume anche altre connotazioni.
Altri atti tipici delle streghe e testimoniati nelle credenze scandinàve, come il cavalcare (tipica cavalcatura della strega, fisicamente o in forma di hamingjur, era il lupo) hanno connotazioni sessuali e altri riti funebri, come quello descritto da Ibn Fadlan, comprendono sesso rituale, nel suo caso durante l'assunzione di una sostanza enteogena, rafforzando il collegamento con il Seiðr.
Nella pietra runica di Smiss III a När, Gotland è raffigurata una figura femminile nuda, a gambe aperte, con una complessa acconciatura o copricapo ed un drago ed un serpente nelle mani, presumibilmente la rappresentazione di un'incantatrice.
Inoltre lo scopo del Seiðr poteva ben essere sessuale: attirare un partner, (induzione del sesso), migliorare l'intimità (magia d'amore) o rendere l'esperienza sessuale più intensa (potenziamento sessuale), poteva essere utilizzato in senso ginecologico (contraccezione, aborto, fertilità, assistenza durante il parto) o per identificare una donna infedele o non più vergine.
Lo scopo poteva anche essere negativo: inibire il sesso (Kormaks saga), indurre impotenza (Njals saga), in Volsunga saga due donne usano il Seiðr per scambiarsi l'aspetto e intraprendere relazioni sessuali, di cui una incestuosa (probabile riferimento ai Vanir).
Ci tengo a ricordare che il sesso nella società norrena era tutto tranne che un tabù, nonostante gli insulti di Loki a Freja e ad Odino nel Lokasenna. Gli dei della fertilità norreni non sono dei dell'amore come i loro paralleli greci o romani, ma della procreazione e del piacere sessuale: dai numerosi partner di Freja alla connotazione estatica di Odino, che è raramente visto in associazione a quest'aspetto ma si manifesta in una sessualità pericolosa, estatica, correlata a un perseguire completamente i propri desideri fino ad un esito distruttivo (Odino è per definizione la divinità traditrice che da molto e prende molto, ma in questo processo dona la vera saggezza). Allo stesso modo l'Edda mette in guardia contro il "dormire fra le braccia di una donna versata nella magia", rivelando la stessa natura traditrice di Odino.
 
 
Loreta Fasano

martedì 20 ottobre 2020

Seið hòn leikin - parte X

Fonti archeologiche


Fra i vari pendenti/amuleti, particolarmente notevoli quelli a forma di sedia, totalmente assenti da contesti cristiani. Hanno la forma del kubbstol – sedia tradizionale scandinava in uso ancora oggi e ritratta anche in pietre runiche come quella di Sanda. Sono solitamente decorate con punzonature, e associati solo a tombe femminili (richiamano l'alto scranno su cui siede la völva a profetizzare). Alcune di queste sono più complesse e particolarmente indicative: in quella di Hedeby (900 ca.) i braccioli rappresentano due canidi (Freki e Geri?) e due uccelli sono scolpiti nello schienale (Huginn e Muninn?), le Figure sono arrangiate al contrario in quello di Lejre ed è presente una rappresentazione di Odino (indicata dalla presenza di un solo occhio) con una lunga veste con bordo decorato, uno scialle o mantello, un cappello in testa e numerosi fili di perle al collo.
Altri amuleti associati sono piccoli pendenti a forma di bastone, cavalli, spade e lance, sempre con un riferimento a Odino. In queste file di amuleti non sono mai presenti Mjolnir.

Come possiamo vedere studiando i paralleli fra tutte queste sepolture, alcuni oggetti ricorrono e sono senz'altro associati con la magia: i resti animali, le sostanze enteogene, le pietre preziose e semipreziose, i secchi, i bastoni, le scatole rituali (più o meno belle, lussuose e complesse, come la scatola di Bj 845 e quella di Oseberg), forse gli scudi (suggerito dal posizionamento del soggetto principale in Fyrkat), probabilmente coltelli, il vasellame orientale (a Klinta ed Aska addirittura una ciotola di origine iraniana, oltre al parallelismo di altri vasi), alcuni tipi di catene (quella di Klinta è uguale a quella che lega i corpi in Bj 843), i pendenti e ovviamente i bastoni: possiamo riconoscerli e caratterizzarli da diversi contesti, differenziandoli dagli spiedi perchè deposti insieme a spiedi (gli oggetti del corredo funebre sono duplicati in casi più unici che rari), con occhielli per appendere amuleti di natura organica (probabilmente legno , ossa o pelli animali), decorati da pomoli troppo ingombranti per essere impugnature, per la presenza di manopole che inframmezzano l'asta rendendone impossibile l'uso culinario, al punto che le impugnature elaborate e a cesto sono state definitivamente identificate come segno di seiðstaff, bastone per il Seiðr.

Fig 14: ricostruzione di Seiðstaff per come sarebbe apparso in origine

Questo ci ha permesso di identificare come probabili tombe di volur anche sepolture altrimenti anonime, non associate ad elementi ricchi ed indicativi come il vasellame orientale o le scatole decorate.
Dai bastoni trovati nelle sepolture irlandesi 850 ca. Possiamo dedurre che il Seiðr vi era stato esportato piuttosto precocemente, come testimoniato anche dal Cogach Gaedhel re Gaillaibh, inoltre sono stati ritrovati in tutta la scandinavia pochi bastoni di legno, solitamente più antichi di quelli di ferro e sempre associati al Seiðr (in Finlandia – Pokkila Isokyr, Norvegia – Fure, Hellebust, Mindre-Sundre e in Svezia – Lilla-Ullevi, la più antica e trovata vicino ai resti di un seiðhallr), testimoniando che la foggia del Seiðstaff può essere mutata nel tempo, con il contatto di diverse culture e il succedersi di tradizioni manifatturiere.

Elementi caratterizzanti la tomba di una völva sono dunque sicuramente i narcotici (con un forte collegamento all'estasi Odinica), bastoni con alcuni gruppi di caratteristiche (che hanno permesso di differenziarli da scettri e spiedi. Ne sono stati trovati 26 in area scandinava, risalenti all'età vichinga, e 8 nella sfera di influenza scandinava geograficamente esterna), dei secchi (il vètt?), alcuni tipi di amuleti (sedie e bastoni principalmente) ed elementi importati da culture lontane, definendo la völva come uno degli elementi più "cosmopoliti" e trasversali della cultura scandinàva.

 

Loreta Fasano

lunedì 19 ottobre 2020

Seið hòn leikin - parte IX

Fonti archeologiche


Oseberg, inumazione in camera con carro e nave, Oslofjord, Norvegia, 834
Due donne deposte in letto su una nave intorno a cui è costruita la camera, le cui pareti sono decorate con arazzi.
Probabilmente la sepoltura femminile più monumentale del periodo vichingo, e anche la meglio conservata. La tomba è stata senz'altro profanata e probabilmente alcuni beni razziati, ma ci sono elementi per credere che i razziatori l'abbiano identificata come tomba di un'incantatrice (testimoniato da una scatola ricchissima lasciata chiusa), per cui non è facile afferrare l'entità del furto, se poi davvero è stato portato a termine.
Un'altra possibilità è che la profanazione della tomba di una völva fosse causa di ergi: sappiamo, dalle incisioni di alcune pietre runiche, che i dissacratori degli spazi che proteggevano erano marchiati con l'ergi, e possiamo avanzare questa ipotesi che però rimane tale e non supportata da altre indicazioni.

Fig. 11: l'inumazione di Oseberg durante gli scavi

Una delle donne aveva circa 75 anni ed è sicuramente morta di cancro, l'altra circa 50. Non sappiamo se una delle due, e nel caso chi, fosse l'occupante principale e in quale ruolo. La monumentale ricchezza della tomba si presta a interpretazioni molto disparate (un'incantatrice, una proprietaria terriera estremamente ricca, la regina Åsa. La tomba è più ricca delle normali tombe regali, facendo propendere per una völva particolarmente potente e stimata).
Negli arazzi, ben conservati, che tappezzano le pareti della camera possiamo vedere scene di culti di Freja e Odino, con figure femminili, corvi e lance, che ritraggono riti per la fertilità e la potenza sessuale. Sono presenti impiccati, donne con le spade sollevate fra gli alberi, uomini in pelli animali e donne con testa di uccelli e cinghiali: notare che queste non sono maschere, poichè i caratteri sono più estesi, come le setole dei cinghiali raffigurate lungo tutta la schiena. Gli arazzi di Oseberg sopravvivono come unica rappresentazione di mutaforma femminili.
 
Fig 12: uno degli arazzi
 
Fra i beni: pietre semipreziose, oggetti per la casa e la cura personale, guinzagli e briglie per cani e cavalli, frutti e pane, un'ascia da lavoro, oggetti per tessere, 5 teste animali intagliate, 6 letti, 1 sedia, contenitori e scatole, un carro riccamente ornato (tra le decorazioni bassorilievi di gatti, chiaro riferimento a Freja), oggetti di uso comune nelle navi (mi preme sottolineare qui che le navi usate nelle sepolture erano "vere", non repliche rituali), animali (mucche, cavalli, cani), un sacchetto contenente cannabis (non si sa se utilizzata a scopo enteogeno o per i tessuti).
La cassa trovata chiusa conteneva due lampade uguali a quelle ritratte negli arazzi e un bastone: l'impressione generale della tomba è che siano stati sepolti gli elementi necessari ai riti descritti negli arazzi.
 
Fig 13: dettagli del carro con gatti

 
Peel castle, inumazione, Isola di Man, ca. 950 
Sepolta con ricchi abiti femminili, beni per la casa e il cucito, svariati coltelli (due di questi decorati con pietre, un'ambra e un'ammonite fossile, circondati da cereali bruciati e un'ala d'oca – amuleti?) e un bastone, probabilmente con manico, poco preservato.
Unica tomba femminile in un luogo di sepolture unicamente maschili, sepolta con un rito indubbiamente pagano, di origine norrena e vestita secondo la moda anglo-scandinava.
 
 
Loreta Fasano

domenica 18 ottobre 2020

Seið hòn leikin - parte VIII

Fonti archeologiche 

 
Fyrkat Grave 4, inumazione con carro, Danimarca, X secolo
La donna è stata deposta all'interno di un carro che si è degradato, ma rimane come indicazione dell'alto rango della sepoltura. I pochi frammenti rinvenuti mostrano che doveva essere riccamente decorato.
Quest'inumazione è estremamente ricca e inusuale. L'abito della donna segue lo stile post 980, è blu con decorazioni rosse e fili d'oro ma non ha nessuna spilla. Anche la deposizione, in un sottile sudario di cui rimangono frammenti conferma il periodo e ci da anche un riferimento alla Laxdaela saga, in cui una völva avvolta in un tessuto simile appare in sogno ad Herðis.
Inoltre è stata sepolta con due anelli alle dita dei piedi, simmetrici, sul secondo dito, una moda completamente estranea alla scandinavia e comune in oriente, associata ai vasi d'importazione presenti: uno di questi conteneva un unguento ed era coperto da un filtro di fili d'erba. Importantissimo il ritrovamento di una spilla vecchia e usurata già al momento della deposizione, decisamente fuori posto in una sepoltura del genere, contenente una pasta bianca simile alla biacca probabilmente utilizzata per scopi cosmetici rituali. La spilla in se doveva avere un grande valore spirituale, se è stata preferita a oggetti più lussuosi e moderni certamente alla portata della donna. Un frammento di questa spilla è stato ritrovato nella fortezza circolare di Boyring, dandoci una piccola indicazioni sui luoghi visitati dalla völva).
Alla cintura erano attaccati amuleti, spille, un coltello con cote, un pendente con motivi a zampa d'uccello (tipico finlandese/russo), un pendente a forma di sedia, un'ampolla rotta che conteneva una sostanza a base di fosforo, piombo e calcio e dei semi di giusquiamo, originariamente in una scarsella ora degradata.
Questa è una delle due testimonianze di sostanze enteogene rituali, in particolare il giusquiamo causa confusione visiva e mentale sia negli umani che in altri animali. Di possibile funzione magica anche la mandibola di un giovane maiale, molto vecchia già alla deposizione, e un conglomerato di resti che potevano essere delle ceneri o dei brandelli di pelliccia di vari animali, forse resti di cremazione.
Presenti anche uno spiedo per carni, un bastone di legno del tutto degradato visibile solo per l'impressione lasciata sullo spiedo, troppo sottile per essere un bastone da passeggio e dunque presunto per scopi rituali, due corni potori non decorati e un bastone di ferro ora deteriorato, deposto sopra delle scatole di legno che contenevano vestiti (forse rituali?).
Se davvero entrambi i bastoni avevano funzione magica, è l'unico ritrovamento di questo tipo della scandinavia vichinga.
 
Fig. 9: spilla di Fyrkat contenente la pasta bianca

 
Ka 294-296 inumazione quadrupla in nave, Kaupang, Norvegia, X secolo
Una sepoltura complicatissima, peraltro organizzata sopra e nello stesso verso della tomba di un uomo del tardo IX secolo.
Comprende una donna, il personaggio più importante della disposizione, accompagnata da un uomo e un'altra donna con un infante, tutti deposti su una nave su cui sono stati sparsi i loro oggetti.
A prua: donna con infante al fianco, vestita in abiti costosi e gioielli, circondata da strumenti tipicamente femminili e da cucito. Testa a testa con lei, coi piedi rivolti verso la poppa, si trova un uomo circondato da varie armi di cui alcune antiche, un bracciale, una padella, una falce e catene per cani e cosparso dei cocci di un vaso rotto (il vaso è stato rotto appposta e i cocci sparsi al momento della sepoltura).
Al centro: un cavallo probabilmente smembrato
A poppa: una donna seduta, originariamente col timone in mano, con vestiti lussuosi di cui alcuni di pelle (molto raro per il periodo). Dietro di lei uno scudo e accanto un'ascia, in grembo ha una ciotola di bronzo con una scritta in runico (i montlauku, nel catino per le mani) che conteneva vari oggetti di rame, rame lucidato e una testa di cane, le cui ossa rimanenti, incise, si trovano ai piedi della donna. Presenti anche resti di metallo, legno e cremazione, indicazioni di riti sconosciuti di cui non ci è stato tramandato nulla.
Un bastone rotto in due dal tempo o già originariamente era posto sotto un sasso.
Altri animali non identificati sono sepolti attorno.
Non sappiamo di cosa siano morti i 4 occupanti della nave ma, se qualcuno di loro è stato ucciso per accompagnare l'altro nel viaggio dopo la morte, sono stati sicuramente i tre a prua.
 
 
Fig. 10: ricostruzione della tomba di Kaupang

 
Gausel queen, inumazione, Hetlandsogn, Norvegia, IX secolo
Sepolta con abiti e oggetti per la casa molto lussuosi, una lampada (possibile oggetto rituale basandosi sull'arazzo e i ritrovamenti di Oseberg), un pezzo di un reliquiario irlandese, una testa di cavallo con briglie e, parallelo al corpo, un bastone con impugnatura a cesto.
 
 
Loreta Fasano

sabato 17 ottobre 2020

Seið hòn leikin - parte VII

Fonti archeologiche

 

Gruppo di Birka (Svezia)

Bj 845, inumazione in camera, 930 ca.
Donna sepolta seduta al centro della camera con abiti e oggetti tipici e non particolarmente lussuosi. Perpendicolare al corpo un bastone con manico a cesto particolarmente elaborato, con la punta libera che poggia in un secchio.
Particolarmente degna di nota una scatola di legno di elegante fattura, con chiusure a forma di teste animali simili alla scatola chiusa di Oseberg. Possiamo essere certi che questo tipo di scatole fossero indicative della sepoltura di una seiðkona. In altre tombe, anche definitivamente identificate come tali, sono presenti scatole più semplici che però non possiamo correlare univocamente a queste pratiche, poichè il loro contenuto è completamente degradato e se ne trovano di simili in qualsiasi contesto. Non possiamo però escludere che alcune volur tenessero componenti e ingredienti magici in scatole più semplici.

Fig. 6: Bj 845
  
Klinta 59:2 e 59:3, doppia cremazione con carro e nave, Svezia, 950 ca.
La cremazione è un tipo di sepoltura rarissimo in quest'isola, ma l'organizzazione di questo rito dev'essere stata davvero unica.
Un uomo e una donna sono stati cremati insieme sulla spiaggia in una nave, probabilmente in autunno (dallo studio delle ceneri), coperti da pelli d'orso e con altri animali attorno. Le ceneri sono poi state separate approssimativamente e sepolte in lotti differenti, con la maggior parte dei resti nella tomba femminile, e coperte dai rispettivi tumuli.
La donna è stata deposta nella 59:3 insieme a beni di riferimento certo ad Odino: un ciondolo che raffigura un'uomo inginocchiato con due uccelli sulle spalle,due fogli di bronzo con incisioni runiche (una possibile formula magica e una traducibile come "conoscenza segreta"), anelli, vasi e spille di bronzo, coltelli e prodotti igienici, una piccola ascia da battaglia di circa 150 anni del periodo Vendel, strumenti per la lavorazione del legno, 151 perle di cristallo, vetro e corniola, un anello decorato con 4 piccoli Mjolnir (unico caso di sepoltura di una völva con oggetti riguardanti Thor), resti di secchi e materiale ferroso, strumenti per un carro trainato da cavalli. Dopo, non sottoposto a cremazione, è stato deposto un grande bastone, perpendicolare alla sepoltura e infilato nella copertura del terreno di modo che solo il manico ne emergesse. Il bastone è decorato con teste animali e un manico a cesto che termina con il modellino di un edificio contemporaneo alla sepoltura, in stile Trelleborg. Nel giunto fra il manico e l'asta si trovano dei fori a cui probabilmente erano appesi amuleti di origine organica, ora degradati.
Nella sepoltura anche ossa cremate di cavallo, vacca, maiale, pecora, cane, gatto e diversi uccelli. Notare come le ceneri dei due umani siano state suddivise approssimativamente, dando priorità a quelle della donna, mentre gli animali per accompagnarli siano stati separati con grande cura. Il tutto è coperto da altre ceneri e altri artefatti e poi tumulato.
 
Fig. 7: edificio raffigurato sul bastone di Klinta


Aska, Grave 1, cremazione, Svezia, IX o X secolo
Sepolta con beni tradizionali femminili e molto ricchi come attrezzi da cucina e da tessitura, inoltre briglie decorate per quattro cavali, molte scatole di cui rimangono solo i cardini, beni d'importazione, filoni di pane, un bastone di ferro, un ciondolo già antico al momento della deposizione raffigurante un uomo con un uccello posizionato in foggia di elmetto (il tipo di decorazione è dell'età vichinga iniziale e si è ipotizzato raffigurasse Mimir), un ciondolo con una donna seduta con le braccia incrociate, un'ampia gonna e una collana a 4 fili (si è ipotizzato possa essere Freja con Brisingamen, possibilmente incinta).
 
Fig. 8: il pendente di Aska raffigurante Freya



Loreta Fasano

venerdì 16 ottobre 2020

Seið hòn leikin - parte VI

Fonti archeologiche

 

Gruppo di Birka (Svezia)

Bj 834, doppia inumazione in camera con carro, 932 ca.
Inumazione invernale di un uomo e una donna in una grande camera divisa in due. In una delle stanze si trova una piattaforma su cui sono deposti i resti di due cavalli, sepolti con paramenti costosi. I due umani nell'altra stanza sono stati invece sepolti seduti sulla stessa sedia, uniti da una catenella, deposto prima l'uomo e poi la donna, entrambi guardavano nella stessa direzione.
Questa testimonianza funebre è preziosissima, poichè ci fornisce un parallelo su saghe e resoconti: in Grettis saga e Njals saga ritroviamo una sepoltura comprendente ossa di cavallo, mentre nel racconto di Ibn Fadlan ritroviamo la stessa deposizione in camera e seduto su una sedia per un uomo particolarmente benestante, fornendo credito a quest'ultimo, spesso screditato racconto.
L'uomo e la donna sono abbigliati in modo tradizionale, da notare solo delle monete arabe (che forniscono la datazione) nelle scarselle e utilizzate come pendenti.Gli oggetti sparsi nella camera sono stati attribuiti all'uomo o alla donna secondo indicazioni sociali di genere classiche per questo periodo ma mi preme sottolineare come, poichè emerge la importanza sociale simile per entrambi, non possiamo essere certi dell'attribuzione. In tombe multiple schiettamente meno "paritarie" o disposte diversamente possiamo attribuire la proprietà degli oggetti con molta più certezza e in differenti casi donne sono state sepolte con oggetti tipicamente maschili, come armi e strumenti per lavorare il legno, e uomini con oggetti tipicamente femminili, come strumenti per la filatura.
Nella tomba sono stati rinvenuti oggetti per la cura femminile, armi, uno scudo, due paia di rampini per scarpe, un secchio, un carro, diverse scatole e contenitori di legno e un bastone di ferro decorato, con il manico a pomolo.
Alcuni di questi oggetti sono estremamente interessanti e ci danno indicazioni sullo status sociale rispettivo dei due defunti.
La presenza del carro colloca la donna ad un rango più elevato rispetto all'uomo: è un elemento tipico della sepoltura di donne importanti e si ipotizza fosse il mezzo di trasporto femminile per l'equivalente del viaggio verso il Valhalla – forse per le donne la sala di Freja? Troviamo dei paralleli anche nelle pietre runiche di Alskog e Levide - mentre non troviamo un equivalente per l'uomo, poichè i cavalli sono sepolti con paramenti per attaccarli al carro.
Sono presenti però due paia di rampini per scarpe che, in Gisla saga Surssonnar sono indicati per velocizzare il viaggio verso il Valhalla: probabilmente quest'uomo ci sarà dovuto andare a piedi, ma almeno si sono premurati di fornirgli un paio di ricambio.
Il secchio è un elemento particolarmente importante, trovato insieme al bastone in diverse sepolture. Un oggetto di fattura raramente raffinata, sembra quasi fuori posto insieme ai beni di lusso e importati di questi corredi lussuosi. Si è ipotizzato che, data la completa mancanza di tamburi rituali nei ritrovamenti, il bastone della völva fosse utilizzato per battere su questi secchi o sugli scudi, che sarebbero dunque identificabili come il vètt di cui parla Loki nel Lokasenna.

Per quello che mi riguarda, l'elemento più interessante è una lancia scagliata su entrambi i corpi, di cui sopravvive solo la punta infilata in profondità nella parete di legno della camera: è una delle più palesi dediche a Odino che ritroviamo in una sepoltura (i riferimenti nelle saghe sono numerosissimi: Ynglingasaga, Odino dichiara che tutti coloro che devono andare a lui devono essere marchiati con la lancia; Flateyjarbok: prima di una battaglia si scaglia una lancia che sorvoli i nemici per dedicarli a Odino; Vǫluspá: Odino scaglia una lancia su un esercito e da inizio ad una guerra). Questo ci permette di identificare i due occupanti come consacrati ad Odino, probabilmente un guerriero l'uomo e una völva la donna, identificata dal bastone (e ipoteticamente dal secchio).

Fig. 5: ricostruzione di Bj 834
 

Loreta Fasano