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sabato 29 dicembre 2018

Asclepio

Nella mitologia greca, Asclepio (noto anche come Esculapio) era un semidio nato dall'unione di Apollo e Arsinoe (secondo Esiodo) o di Apollo e Coronide (secondo Pindaro).
Nella versione del mito narrata da Pindaro, Artemide uccise Coronide, rea di aver tradito Apollo. Quest'ultimo decise però di salvare il bambino che Coronide portava in grembo e gli diede il nome di Asclepio.

Crescendo, Asclepio venne addestrato dal centauro Chirone nell'arte della medicina. Secondo alcune versioni del mito, Atena donò ad Asclepio l'abilità di cambiare il proprio sangue con quello di Medusa. Il sangue che sgorgava dalle vene del fianco sinistro del semidio era infatti velenoso, mentre quello del fianco destro aveva il potere di guarire ogni malattia e riportare in vita i morti.

L'abilità di Asclepio di riportare in vita i morti, presente in tutte le versioni del mito, indusse Zeus a fulminarlo per evitare che i mortali diventassero troppo simili agli dei. Apollo si infuriò per il gesto del padre e nella sua ira uccise i tre Ciclopi che forgiavano le folgori di Zeus. Per placare l'ira di Apollo, il padre degli dei rese Asclepio immortale tramutandolo nella costellazione di Ofiuco.

Dalla pagina Facebook “Pillole di Mitologia”, previo permesso
https://m.facebook.com/pilloledimitologia/

venerdì 28 dicembre 2018

Culto eroico, Re Penda

Parlando con un conoscente siamo arrivati a parlare di figure eroiche e di come entrambi sentiamo la necessità dell’esempio che questo possono, debbono, dare alle generazioni, di oggi e dei secoli a venire.
Questo fino a quando non ho poi parlato di quelli che sono gli eroi ai quali dedico culto, fra questi infatti ve n’è uno che se proprio non misconosciuto è, quantomeno, molto poco noto.
Si tratta di Penda, signore della guerra e Re di Mercia, vissuto più di tredici secoli fa.
Ma chi era costui e, sopratutto, perché ritengo sano e sacrosanto annoverarlo fra il numero degli Eroi? Per i cultori degli imperatori e dei grandi conquistatori egli potrà sembrare, nella sua circoscrizione geografica limitata, un personaggio di poco conto, quasi secondario ma per chi, come il sottoscritto, cerca l’eroismo al di là della mera apparenza egli è senza ombra di dubbio ben più che degno di ogni lode.
Di stirpa divina, discendeva per linea maschile dal Woden, il terribile Vate, padre del tutto, così infatti è riportato nella cronaca anglosassone:

“Penda, figlio di Pybba, figlio di Cryda, figlio di Cynewald, figlio di Cnebba, figlio di Icel, figlio di Eomer, figlio di Angeltheow, figlio di Offa, figlio di Wermund, figlio di Wihtlaeg, figlio di Woden”

Egli fu guerriero di grande valore, e grande del suo tempo.
In un’epoca in cui ormai la quasi totalità delle isole britanniche era nelle mani di regnanti traditori degli Dèi e della propria stirpe egli preferì rimanere fedele alla propria fede, non scelse come molti altri la via più comoda per rimanere al potere e non si piegò alle lusinghe e ai denari dei predicatori franchi, resistette e prosperò, pur in un regno circondato da nemici, e morì nella maniera più consona ad un’eroe, in battaglia, spada in pugno nonostante l’età avanzata, aveva infatti ottantuno anni.
Questo è, in breve, il perché, specialmente fra coloro che seguono la via antica con una particolare inclinazione al pantheon germanico, sarebbe d’uopo ricordare nei propri sacrifici questo campione della causa divina.

Concludo con la parte finale di un articolo ben più corposo, scritto sempre dal sottoscritto, dedicato alla storia vera e propria di questo personaggio:

“Finisce qui la vita terrena di Re Penda, morto a ottantun’anni, circondato dai propri amici e consiglieri, spada in pugno. Un uomo coraggioso, estremamente leale agli Dèi, alla propria fede e al proprio popolo, ora festeggia con gli Dèi e gli eroi nelle sale del Valhǫll, in attesa che giunga la fine di questa età del lupo.”

Per chi volesse approfondire le sue gesta consiglio di digitare, nella sezione “cerca” del nostro blog - nella sua versione “desktop” - il nome “Penda”.

martedì 25 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte VI

Passiamo ora alla visione diretta delle parole del “Beato Signore” Kṛṣṇa:

“Quando si rinuncia a tutti i desideri che turbano il cuore e la mente, o figlio di Prtha, quando si è appagati in se stessi e da se stessi, ecco quel che si dice essere consolidato in saggezza.
La mente di un simile uomo non conosce apprensione nelle sofferenze; è libero da ogni attaccamento ai piaceri, affrancato dalla cupidigia, dal timore o dalla collera: tale è l’asceta che si dice saldo nell’alto pensiero.
Colui che, distaccato da tutto, incontrando fortuna o sfortuna non prova né gioia né odio, ecco quegli che è consolidato in saggezza” (II:55,56,57)

Ai praticanti della traduzione Zen (o Chán) non sarà sfuggita la somiglianza del versetto 57 con un celebre passo del “Barbaro dagli occhi Blu”, il 28º Patriarca del Buddhismo indiano Bodhidharma, fondatore della scuola Chán e, presumibilmente, dello stile di combattimento Shaolin.
Lo stesso infatti, nel testo di Red Pine “L’insegnamento Zen di Bodhidharma” spiega un concetto molto simile per quanto riguarda la figura del Buddha:

“Un Buddha è qualcuno che trova la libertà nella buona e nella cattiva sorte. È tale il suo potere che il karma non può vincolarlo. Comunque sia il karma, un Buddha lo trasforma. Paradiso e inferno non sono nulla per lui. (p. 59)”

Comunque, tornando al testo, dopo la descrizione della verità del distacco, Kṛṣṇa descrive la già citata importanza dell’azione e della rinuncia a fini divini:

“In questo mondo, te l’ho già detto, è lecito seguire una doppia vocazione, o eroe senza macchia: disciplina dei filosofi speculativi mediante il metodo della conoscenza (metafisica) e disciplina dei praticanti mediante il metodo dell’azione (Yoga)
Non è soltanto astenendosi dall’agire che l’uomo accede alla libertà del non-agire, non è unicamente rinunziando che egli s’innalza alla perfezione.” (III:3,4)

E ancora:

“Dedicandomi ogni tua azione, con mente perfettamente interiorizzata, libero da ogni desiderio come da ogni spirito di possesso, calmata la tua febbre, combatti.
Gli uomini che, indefettibilmente, con fede e senza mormorare, mettono in pratica questa mia dottrina, anch’essi sono liberati dagli atti.
Quelli che, al contrario, ribellandosi contro di essa, non mettono in pratica la mia dottrina, considerali distolti da ogni saggezza, perduti e incoscienti” (III: 30,31,32)

Il terzo capitolo termina infine con un incoraggiamento da parte del Beato, riguardante il combattimento contro la cupidigia, la collera, il desiderio e tutto quello che “nasce dal fattore passionale, distruttore della scienza e della saggezza”:

“Conoscendo mediante ciò che supera la facoltà intellettuale, rinsaldando il Sé con il Sé, guerriero dalle grandi braccia, distruggi questo nemico che porta i colpi del desiderio e la cui vicinanza è pericolosa” (III: 43)

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

lunedì 24 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte V

Terminata questa prima serie di rivelazioni al titubante Arjuna (definite dallo stesso Kṛṣṇa come “saggezza sul piano speculativo”) il Beato passa ad illustrare quella che sarà considera come “la saggezza sul piano pratico” definibile con il termine “Karmayoga” ossia Yoga dell’azione; tema che riempirà la fine di questo secondo capitolo e riempirà tutto il terzo capitolo del testo.
Nel descrivere questa prassi spirituale Kṛṣṇa spiega come sia importante evitare di attaccarsi ai frutti dell’azione ma come sia assolutamente illegittimo e sciocco evitare la stessa, che è preferibile portare avanti anche con risultati mediocri:

«L'uomo che ha realizzato la sua identità spirituale non ha interessi personali nell'adempiere i doveri prescritti né ha motivo di non compiere tali doveri. Egli non dipende da alcuno per nessuna cosa. Si devono dunque compiere il proprio lavoro e le proprie azioni per dovere, senza attaccamento ai frutti dell'azione, perché agendo senza attaccamento si raggiunge il Supremo.» (III:18,19)

Affinché si possa svolgere con serenità e giustizia il proprio dovere il testo spiega come sia importante il distacco sia dai sensi sia dalle cose mondane, fuorvianti e futili, e dell’importanza di fissare la propria azione e il proprio pensiero sulla divinità.
In questo modo Arjuna comprende come non sia l’inazione a sciogliere i legami karmici che costringono l’anima a reincarnarsi in questa realtà senza fine (La ruota del Saṃsāra) ma come questo ruolo spetti all’azione libera e distaccata.
Cosi la rinuncia non diviene solo un elemento negativo e/o distruttivo, non prende la forma di un’ascesi rinunciante fine a se stessa ma, al contrario, si carica di positività e di devozione spirituale verso il Divino.

Prima di citare dei passi del testo riguardanti questi argomenti credo sia interessante notare come con questa narrazione, la Gītā (pur influenzata da queste correnti) prenda le distanze dalla rinuncia proposta dal Jainismo e dalla dottrina dell’Illuminato (Buddhismo); che al tempo, grazie ai loro meriti e alla decadenza del Brahmanesimo, videro un rilevante accrescimento della loro importanza numerica.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

domenica 23 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte IV

Nel secondo capitolo, chiamato “sāṅkhya”, Arjuna continua inizialmente il suo lamento verso Kṛṣṇa che però si rivela essere in realtà non il suo auriga, ma bensì l’Avatāra di Vishnu, dove per Avatāra si intende la discesa in suolo, forma e dimensione terrestre di una divinità:

«Così ogni volta che l'ordine (Dharma) viene a mancare e il disordine avanza, io stesso produco me stesso, per proteggere i buoni e distruggere i malvagi, per ristabilire l'ordine, di era in era, io nasco.» (IV:7,8)

Nella corrente Induista del Visnuismo si tende a considerare quest’ultimo (Visnu) come l’essere supremo.
Nella corrente definita Kṛṣṇaismo invece Kṛṣṇa non viene considerato come un’Avatāra ma è proprio lui ad essere considerato come l’essere supremo stesso (“The Supreme Personality of Godhead”).
Come ci ricorda lapidariamente il Bhāgavata Purāṇa (famoso testo Kṛṣṇaita del IX secolo d.C.):

“Kṛṣṇa è l'Essere supremo stesso”

(Bhāgavata Purāṇa I,3,28)

Chiarito ciò possiamo continuare con l’analisi del secondo capitolo della gītā, a mio avviso uno tra i più belli e tra i più carichi di meravigliose allegorie dell’intera opera.
Il primo tema toccato da Kṛṣṇa è quello della trasmigrazione e dell’indistruttibilità dell’anima.
L’essere supremo spiega infatti al dubbioso Arjuna come lo stesso non debba preoccuparsi di scontrarsi in battaglia contro i suoi familiari, perché:

“Come in un dato corpo, infanzia, giovinezza, vecchiaia toccano in sorte a un’anima incorporata, cosi questa acquisisce successivamente altri corpi. Il saggio non si inganna su ciò” (II:13)

“Ora, riconosci come indistruttibile tutto ciò da cui questo universo è nato. Di ciò che non è immutabile nessuno potrebbe provocare la distruzione.
Questi corpi hanno una fine; lo spirito che vi si incarna è eterno, indistruttibile, incommensurabile.
E perciò combatti, discendente di Bharata” (II: 17,18)

“Alla maniera di un uomo che ha abbandonato le vesti usate e ne prende altre, nuove, l’anima incarnata, abbandonando il proprio corpo usato, si trasporta in altri che sono nuovi” (II:22)

Dopo questa spiegazione sul destino eterno e indistruttibile dell’anima Kṛṣṇa passa a ricordare ad Arjuna il suo dharma/svadharma, (qui intenso come dovere nei confronti della sua casta Kṣatriya di appartenenza e verso le leggi e i doveri dello Stato) e quali conseguenze nefaste gli spetterebbero nel caso di un’eventuale ritirata o fuga dallo scontro.

Citando i versi emanati dallo stesso Kṛṣṇa:

“E considera anche il tuo dovere di Stato: non dovresti, tremando, appartarti, poiché per l’uomo di guerra, secondo la legge sacra del suo Stato, non vi è bene superiore della battaglia. (II: 31)

“Ma se non ti impegni in questo giusto combattimento, rinunci al tuo dovere di Stato, all’onore e ti poni nel peccato.
E inoltre la gente narrerà il tuo imperituro disonore e, per l’uomo rispettabile, il disonore è peggio della morte” (II: 33,34)

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

sabato 22 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte III

Terminata questa parentesi possiamo entrare nel vivo della Bhagavadgītā e iniziare a seguire le gesta di Arjuna ma, soprattutto, i suoi dubbi e le sue perplessità.
Siamo proprio nella battaglia di Kurukshetra quando, nel primo capitolo dell’opera (chiamato “Angoscia di Arjuna”), il re cieco Dhṛtarāṣṭra si fa dire dal suo consigliere personale Sanjaya (al quale lo stesso Vyāsa aveva dato la magica possibilità di vedere e sentire tutto ciò che accadeva sul campo di battaglia) quali sono i guerrieri che affollano il luogo dello scontro e quanto grande fosse il valore e il merito di ciascuno di essi:

“Ascolta, o migliore fra gli Arya; i più ragguardevoli fra i nostri, capi del mio esercito, io te li nominerò, affinché tu ne prenda conoscenza” (I:7)

Dopo di ciò il cambio di tono è brusco ed immediato: il testo passa da toni di esaltazione e di affermazione di virtù alla più nera disperazione e sbigottito sgomento.
Come già accennato è Arjuna il responsabile di tanta tetraggine, il nobile principe infatti viene preso da vero e proprio sconforto quando si trova davanti ai suoi familiari e parenti, costretto secondo la legge a muovere guerra contro di loro ed estremamente rattristato da questo fatto.
Si rivolge cosi a Kṛṣṇa, per il momento creduto il suo auriga e principe del clan degli Yādava, con un brano che ritengo opportuno riportare in versione quasi integrale tanto è carico di simbolismo e di preziosi riferimenti:

“O Kṛṣṇa, quando vedo i miei desiderosi di combattere, pronti a farlo, mi vengono meno le membra, la mia bocca si dissecca, un brivido si impadronisce del mio corpo, mi si drizzano i peli, il mio arco Gandhiva mi cade dalle mani, la mia pelle è tutta ardente, non posso star dritto e la mia mente sembra presa da vertigine… (I:28,29,30)
Dunque è un’infamia per noi mettere a morte i Dhrtartastridi, nostri parenti; infatti come potremmo essere felici, o Madhava, dopo aver ucciso la nostra parentela, anche se col cuore ferito da cupidigia, essi non vedono che è un errore distruggere la propria famiglia, crimine mortale tradire i propri amici?
Come non sapremo distoglierci da questo crimine, noi che vediamo quale errore sia la distruzione della famiglia, o Janārdana!
Con la distruzione della famiglia perisce anche l’ordine sacro che deve reggere perennemente la famiglia: distrutto l’ordine, il disordine sicuramente domina la famiglia tutta.
Quando il disordine predomina, o Kṛṣṇa, le donne della famiglia si corrompono; quando le donne
sono corrotte, o figlio di Vrsni, si produce la mescolanza delle caste. (I: 37,38,39,40,41)
Per gli uomini la cui famiglia non è più retta dall’ordine, o Janārdana, v’è una dimora sicura all’inferno! L’abbiamo sentito insegnare tante e tante volte!” (I: 44)

Il capitolo si conclude con le parole di Sanjaya che afferma:

“Con tali parole Arjuna, in piena battaglia, lasciò cadere arco e frecce e si sedette in fondo al suo carro, la mente turbata dall’angoscia” (I: 47)

Il disagio di Arjuna quindi, non è solo un “semplice” dispiacere fattuale scaturito dal dover uccidere persone a lui care e familiari, ma è un vero e proprio simbolo del sovvertimento del Dharma (qui inteso ovviamente nella sua accezione Brahmanica e non Buddhista), ossia del sovvertimento di quell’ordine universale che regge l’armonia del mondo e che va mantenuto ad ogni costo; pena la vittoria delle forze del caos (Adharma) e la rovina che cadrebbe sopra l’intera civiltà.
Il mescolamento delle caste è giustappunto uno dei simboli della vittoria delle forze caotiche e dissolutrici, essendo la gerarchia castale una rappresentazione divina dell’ordine e dell’armonia.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

venerdì 21 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte II

Pur essendo un compito tutt’altro che semplice (vista la già citata mole di versi ed eventi che si intercorrono nell’opera e non essendo questo il testo preso direttamente in esame) cercheremo di gettare le linee estremamente generali della trama, funzionali per un inquadramento contestuale.
La guerra, come abbiamo già premesso, è il fulcro, il cuore palpitante e il terreno dove i protagonisti del Mahābhārata poggiano il loro essere, che sarebbe meglio definire il loro “Ātman”.

L’opera è infatti diretta espressione dell’etica e del codice morale e guerriero degli Kṣatriya, la seconda tra le caste più importanti e riverite all’interno della millenaria divisione gerarchica (probabilmente retaggio dell’invasione subita da parte delle popolazioni Ariane) delle antiche genti dell’India; preceduta solo dalla casta dei Brahmani, i sacerdoti, e superiore alle caste dei mercanti (Vaiśya) e dei servitori (Shudra). Districandoci tra le innumerevoli śloka veniamo a conoscenza degli attriti e del vero e proprio scontro che interviene tra due schieramenti, accomunati a livello parentale dal grado di cuginanza e appartenenti allo stesso nucleo dinastico: I Kaurava (ossia i diretti discendenti di Kuru) e i Pandava (cioè i 5 figli di Pandu, tra i quali figura anche il protagonista della Bhagavadgītā, il nobile Arjuna).

Dopo una contorta e avvincente serie di tradimenti, incendi, complotti, esili e interventi divini (impossibile, a mio parere, non far tornare alla memoria le già citate epiche gesta trattate da Omero nell’Iliade) si arriva all’ormai inevitabile scontro fisico tra i due clan belligeranti. La località predestinata a questo titanico scontro è Kurukṣetra (Campo dei Kuru), una regione situata a Nord-Est della moderna città di Delhi. 
La datazione dello scontro può essere fatta risalire (prendendo come fonte la tradizionale cronologia Hindu) tra il 3193 e il 3138 a.C. e vede una durata complessiva di 18 giorni. Sul campo appare un dispiegamento composto da 18 armate (aksauhini), undici sono schierate dalla parte dei Kaurava mentre 7 sono comandate dai Pandava.
Ogni armata aveva un enorme numero di carri ed elefanti (21.870 di entrambi) 5.610 cavalli e 109.350 fanti mentre le armi maggiormente utilizzate furono l’Arco (arma prediletta da Arjuna, il temibile Gandhiva), mazze, lance e spade. 

Prima di abbandonare (ci torneremo più avanti per constatare la conclusione dell’epica saga e per una curiosità) questa iniziale esposizione dei caratteri generali presentati dal Mahābhārata e , tornando a premere sull’etica guerriera della casta Kṣatriya, credo sia interessante citare alcune delle regole di guerra (Dharma-yuddha) imposte dalle due fazioni per far sì che la guerra potesse essere fatta rientrare all’interno dei criteri di giustizia e lealtà.
 
“La battaglia deve iniziare non prima dell'alba e concludersi esattamente al tramonto.
Più guerrieri non possono attaccare un singolo combattente.
Due guerrieri possono cimentarsi in "duello", ovvero indugiare in prolungati combattimenti personali, solo se entrambi utilizzano le stesse armi e lo stesso mezzo di trasporto (un cavallo, un elefante, un carro, o nessuno di essi). 
Nessun guerriero può uccidere o ferire un nemico che si sia arreso.
Chi si arrende diviene un prigioniero di guerra ed uno schiavo.
Nessun guerriero può uccidere o ferire un combattente disarmato.
Nessun guerriero può uccidere o ferire un combattente che abbia perso i sensi.
Nessun guerriero può uccidere o ferire una persona o un animale che non prenda parte alla guerra.
Nessun guerriero può uccidere o ferire un combattente che sia posizionato di spalle.
Vanno seguite le regole specifiche di ciascuna arma; ad esempio, nei combattimenti con la mazza è proibito colpire sotto la cintola.
I guerrieri non possono cimentarsi in qualsiasi tipo di combattimento ingiusto o sleale.” 

Non credo eccessivamente azzardata ma anzi, spero stimolante (con l’obbligo pressoché implicito di prendere le dovute precauzioni del caso e le dovute differenze di contesto) fare un breve paragone tra le regole del Dharma-Yuddha e la trattazione che il noto giurista, filosofo e politico teutonico Carl Schmitt analizza all’interno del suo saggio “la Teoria del Partigiano” (1963).
Qui il giurista di Plettenberg prende in analisi le regole della guerra Europea e la divisione tra quegli enti militari considerati “Regolari” (e che quindi muovono guerra conformandosi a regole specifiche, approvate a priori dagli stati Europei e nate dagli eventi dettati dal Congresso di Vienna del 1814-15 e dalla convenzione internazionale dell’Aja del 1907) e gli “Irregolari” ossia i partigiani, tutti colori che di tale regola si fanno beffe e che quindi non meritano nessun tipo di rispetto o pietà da parte degli eserciti regolari ; singolare in tal senso l’espressione che Napoleone Bonaparte usa per chiarire definitivamente questo concetto: 

“Il faut opérer en partisan partout où il ya des partisans” (Dovunque ci siano partigiani bisogna combattere alla partigiana)

E sarà lo stesso Schmitt a dare un’appropriata definizione della situazione Europea del tempo: 

“Oggi si chiama diritto di guerra classico, ed è indubbiamente un nome meritato. Stabilisce infatti chiare distinzioni – innanzitutto tra stato di guerra e stato di pace, fra combattenti e non combattenti, fra nemico e criminale comune. La guerra è condotta da Stato a Stato come una guerra di eserciti regolari, statuali, fra due depositari sovrani di uno jus belli, che anche in guerra si rispettano come nemici e non si discriminano vicendevolmente come criminali”

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

giovedì 20 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte I

“Vedo Te – dalle braccia possenti – con innumerevoli bocche e occhi stellati, con infinite mani e gambe adorne di piedi di loto. L'immensa voragine della Tua bocca, con i denti del giorno del giudizio, si spalanca ad ingoiare i mondi intorno che si dissolvono, e lascia in me un puro e gioioso timore reverenziale. Vedendo la Tua immensità tutti i mondi rimangono esterrefatti, ed anch'io!”( XI: 23)

La Bhagavadgītā (traducibile dal sanscrito come “Canto del Divino” o “Canto del Beato”) è prima di tutto un patrimonio spirituale del popolo Indiano e dell’umanità tutta.
Vero e proprio gioiello dottrinale e amatissimo testo sacro dai fedeli del Sanātanadharma (termine sanscrito dentro al quale si racchiude la “Legge/Religione eterna”, che in occidente viene impropriamente chiamata sotto il nome di Induismo) viene da sempre considerata come “Il Vangelo dell’India”, proprio per simboleggiare la cardinale importanza di questo testo e dei contenuti in esso racchiuso.

L’opera, composta probabilmente in un periodo che va dal III secolo a.C. fino al I secolo d.C., è strutturata in 700 versi (chiamate “śloka”, ossia quartine di ottonari) divisi a loro volta in 18 canti (adhyāya), nella versione detta vulgata/settentrionale, collocata a sua volta nel VI parvan (Libro) dell’imponente epopea Indiana chiamata “Mahābhārata” (La grande storia dei discendenti di Bharata).

“Quest’opera dischiude gli occhi del mondo, accecati dall’ignoranza. Al pari del sole, il Bharata disperde le tenebre con la sua esposizione della religione, dei doveri, delle azioni, della contemplazione e così via. Come il plenilunio, diffondendo la sua luce smorzata, favorisce lo sboccio dei fiori di loto, cosi questo Purāṇa (Storia antica) in virtù del suo esposto allarga l’intelletto umano. La lampada della storia illumina “tutta la dimora del grembo della natura”
Vyāsa

E’ indispensabile, per una corretta inquadratura generale storica e letteraria, soffermarsi brevemente sulle mitiche vicissitudini del componimento.
Questo enorme poema epico infatti, il più grande di tutta la letteratura mondiale (contente al suo interno ben 95.000 versi nella versione detta “meridionale” e 82.000 nella versione settentrionale; numeri importanti che come nota saggiamente lo scrittore indiano e più volte candidato al Nobel per la letteratura R.K.Narayan potrebbero contenere le Omeriche Iliade e Odissea riunite assieme ben otto volte) tratteggia il bellicoso contorno nel quale la gītā prende vita.
La paternità del testo viene tradizionalmente riconosciuta a Vyāsadeva (o Vyāsa, traducibile proprio come “Il Compilatore”) facente parte di quella tradizione di saggi, cantori e veggenti che sta sotto il termine sanscrito di Ṛṣi o rishi.
E’ sicuramente lecito, visto l’ampio processo temporale di scrittura che accompagna l’opera, credere che sotto il nome di Vyāsa stia una denominazione generica piuttosto che una singola persona ma noi, proprio come il già citato R.K. Narayan, ci atteremo alla Tradizione.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

mercoledì 19 dicembre 2018

Di capi e signori della guerra

Dalla falange al muro di scudi, dai marmi di Atene alle aule dei signori del Nord Europa, la condivisione di uno spirito comune è sempre stata alla base della gloria per l’uomo indoeuropeo. Un signore della guerra è tale quando ha dei compagni disposti a seguirlo e a rischiare insieme a lui, quando le sue gesta sul campo di battaglia e nell’aula superano quelle dei suoi pari.
È in questa spirito cameratesco, di condivisione, che sono nate le basi della grandezza degli uomini d’Eurasia, ciò che ha permesso la nascita di tribù e domini in lungo ed in largo per tutto il continente.
Il valore della gerarchia e di un sano rapporto fra eguali sono imprescindibili per la creazione di ogni società realmente sana, checche ne dicano modernisti e poveri di spirito di ogni risma.

Concludo con una frase a me cara, di una grande personalità del mondo antico:

“Re o governanti non sono coloro che portano con sé uno scettro, ma quelli che sanno comandare.”

(Socrate)

lunedì 17 dicembre 2018

Sulla possibilità, e sulla necessità, di un nuovo culto eroico

Come amo spesso ripetere è necessario e sano vivere dei propri tempi, è però altrettanto necessario riconoscerne le mancanze e le criticità per poter costruire, o ricostruire, una società che sia realmente sacra ed eterna.

Ciò che balza più all’occhio della nostra epoca, ma, più in generale dell’ultimo millennio, è la mancanza di eroi e di un culto ad essi dedicato. Occorre quindi agire, nel nostro tempo e per il nostro tempo, perché questi culti vengano restaurati e ripresi per poi poter essere magari ampliati in futuro.
Ma da dove occorre iniziare, quindi? Come sempre da se stessi, dal proprio io e dal proprio rapporto con gli Dèi e la spiritualità, occorre aggiungere alle proprie ritualità anche il culto eroico di quanti ci hanno preceduto distinguendosi agli occhi degli uomini mortali e degli Dèi immortali, tentando di cogliere anche solo un barlume del loro insegnamento e tentando di fare proprio le qualità morali e spirituali di quegli uomini straordinari, siano stati essi figli degli uomini o di sangue divino (caratteristica, questa, comune a molti eroi della nostra bella terra, da Achille a Penda, passando per Perseo e ancora).
Non dimentichiamo che nei tempi antichi esistevano veri e propri culti dedicato ad eroi particolari, con tanto di templi ad essi dedicati, nell’ottica di una restaurazione dei culti antichi questi è un passo imprescindibile, oltre che in grado di avere un peso non indifferente nell’educazione delle future generazioni.

Mobilitatevi quindi è ricordati nei vostri riti anche gli eroi a voi più cari, narrate le loro gesti ai vostri amici e ai vostri figli perché queste siano ricordate in eterno e cercate di applicare i loro insegnamenti. Anche questo è seguire la buona via.

domenica 16 dicembre 2018

Santa Claus, Odino, Befana e Holda/Perchta

Prima del cristianesimo, il Paganesimo nordico-germanico aveva a capo del pantheon degli Dei Odino, Woden o Wotan. Odino faceva raccogliere dalle Valchirie, sui campi di battaglia, gli Einherjar, spiriti di valorosi guerrieri da portare nel Valhalla che lo avrebbero aiutato nello scontro finale tra le potenze dell'ordine e quelle del caos, il Ragnarok.
Si raccontava inoltre che insieme a questi spiriti di guerrieri egli solcasse i cieli e le dimore degli uomini: questo evento veniva chiamato Caccia Selvaggia.

In epoca cristiana, gli spiriti dei guerrieri divennero spiriti dei morti anzitempo, dei morti per morte violenta, dei suicidi e dei bambini non battezzati. Da qui uno dei suoi altri nomi del periodo medievale: Processione dei Morti.

Essendoci un'ambiguità tra chi raccoglieva gli spiriti dei morti, Odino o le Valchirie, questo portò a un'ambiguità su chi era a capo della Caccia Selvaggia: una figura maschile o femminile.
Per questo motivo in periodo medievale ritroviamo nel folklore Dee, figure femminili quindi, come guide di tale fenomeno. Pensiamo ad esempio a Holda e a Perchta, personaggi del folklore medievale probabilmente derivanti dalla Dea Frigg o dalla Dea Freya del pantheon precristiano.
Queste figure vennero poi assimilate a Diana e ad Hera della mitologia classica e così portarono alle schiere di donne e spiriti associate a Diana e ad Erodiade (personaggio della Bibbia che assimilò Hera, e che venne in seguito chiamata in Toscana "Aradia", in Veneto "Redodesa", in Sardegna "Araja" o "Sa Rejusta", in Romania "Arada" o "Irodeasa").

Il passaggio di questa schiera spesso era preceduto dal lasciare offerte di cibo e bevande, solitamente sul tavolo della cucina o comunque vicino al focolare domestico.

La figura della Befana, il cui nome deriva invece dalla festa dell'Epifania, l'ultimo dei dodici giorni dopo Natale - periodo in cui si pensava passasse questa schiera di spiriti - viene proprio da queste leader femminili.

In cambio dell'offerta di cibo, il leader o la leader della Processione avrebbe ricompensato con benedizioni di abbondanza e fortuna l'intera casa e i suoi abitanti.
Questa usanza, durante il periodo natalizio, si unì a quella di scambiarsi regali e da qui deriva il fatto che in cambio dell'offerta di cibo (che oggi sono latte e biscotti per Babbo Natale) si riceve un regalo.

Prima della cristianizzazione, i popoli germanici celebravano un evento di metà inverno chiamato Yule.
Con la cristianizzazione dell'Europa germanica, numerose tradizioni del periodo di Yuletide furono assorbite nelle celebrazioni del Natale moderno. Durante questo periodo si diceva che aumentassero di frequenza fenomeni soprannaturali e spettrali, compresa la Caccia Selvaggia.
Il capo della Caccia Selvaggia è, come abbiamo detto, il Dio Wotan od Odino, recante, tra i suoi molti nomi, quelli di Jólnir, che significa "colui di Yule", Jólfaðr, che vuol dire "padre di Yule", e Langbarðr, che significa "barba lunga".

Il ruolo di Woden durante il periodo di Yuletide si crede abbia influenzato la figura di San Nicola (originariamente un famoso vescovo cristiano del IV secolo che visse nella città bizantina di Mira in Turchia) in sue numerose caratteristiche, tra cui la lunga barba bianca e il suo cavallo grigio per le cavalcate notturne (che viene paragonato al cavallo di Odino Sleipnir) o la sua renna nella tradizione nordamericana.

La folklorista Margaret Baker sostiene che "l'aspetto di Santa Claus o Babbo Natale, il cui giorno è il 25 dicembre, deve molto a Odino, il vecchio portatore di doni del nord con la mantella azzurra, ammantata di bianco, che cavalcava il cielo d'inverno con il suo destriero a otto zampe Sleipnir, visitando il suo popolo con doni. [...] Odino, trasformato in Babbo Natale, poi Santa Claus, prosperò assieme a San Nicola e al Bambin Gesù, divenne un attore di primo piano sul palcoscenico natalizio."

Sempre i popoli germanici, infine, usavano fare sacrifici "appendendo" agli alberi le carcasse delle vittime sacrificate. Probabilmente proprio da un'attenuazione di questa usanza deriva quella di addobbare un albero a Natale.


Articolo dalla pagina Facebook “Stregoneria Italiana”, che consigliamo senza riserve a chi volesse intraprendere un percorso di stregoneria tradizionale; hanno anche un blog, che potete trovare a questo indirizzo: https://tradizioneitaliana.wordpress.com/

venerdì 14 dicembre 2018

mercoledì 12 dicembre 2018

Le Tesmoforie

Festività autunnale dedicata al culto di Demetra Tesmofora, da Θεσμοϕόρος, legislatrice, in quanto a lei si doveva l’istituzione di usanze quali l’agricoltura o il matrimonio. 
Diffusa in buona parte delle città libere di Grecia e Magna Grecia, ad Atene essa era aperta solo alle donne di condizione libera, sposate con un membro del ceto cittadino che prendevano quindi il nome di Θεσμοφοριάζουσαι, thesmophoriazousai
Le cerimonie si svolgevano lungo tre giorni, durante il primo dei quali le donne, dopo aver vegliato una notte nel demo di Alimunte, salivano al santuario di Demetra Tesmofora. 
Questo primo giorno era detto “kathodos e anodos”, cioè discesa e salita. 
Veniva poi il secondo giorno di celebrazioni detto nesteia, digiuno, durante il quale le celebrante si purificavano digiunando, lamentando la scomparsa di Demetra e mescolando semi ai resti ormai marciti di suinetti sacrificati e a oggetti misterici della cui natura non ci è giunta alcuna notizia certa. 
Arrivava quindi il terzo ed ultimo giorno di celebrazioni, detto kalligenèia, bella nascita, durante questo giorno venivano offerti sacrifici a Demetra sotto forma di cereali ed altre libagioni, veniva quindi cotta la carne degli animali sacrificati (probabilmente seguendo l’usanza che prevedeva che ossa e grasso venissero bruciati come offerta). 
Le Celebranti, durante il banchetto, si scambiavano quindi motti osceni flagellandosi e invocando la grande Dea perché concedesse loro il dono di una prole numerosa e sana. 
Infine, durante la notte, le carcasse degli animali sacrificati venivano gettate in fosse e burroni. 

martedì 11 dicembre 2018

Aldilà

L’aldilà nella mitologia scandinava presenta una ripartizione legata ad un criterio geografico-funzionale; vi sono due macroregioni nelle quali confluiscono i defunti dividendosi in base al modus moriendi (i.e. “tipologia della morte”).

In Ásgarðr (i.e. “terra degli Asi", ossia degli Dèi e quindi slegata dal mondo dove noi risiediamo che è detto Miðgarðr) vi sono due luoghi dove i caduti in battaglia dimorano in attesa del Ragnarök e sono la 'Valhalla' (i.e. “sala dei caduti”) di Óðinn ed il 'Fólkvangr' (i.e. “campo delle genti/eserciti”) di Freyja. Freyja è solita scegliere per sé la metà dei caduti sul campo di battaglia, i restanti vanno ad Óðinn.
Nel Ragnarök gli Æsir avranno bisogno di individui che si sono distinti in battaglia per la difesa di Ásgarđr ed è per questo che nella Valhalla e nel Fólkvangr vi giungono solo coloro che sono morti con onore marziale, ossia l'onore che solo le armi e la guerra possono conferire.


Per quanto riguarda coloro che non muoiono sul campo di battaglia vi sono le sale di Gimlé site nella parte meridionale del Víðbláinn (i.e. “cielo remoto”, terzo cielo della cosmologia scandinava dove dimorano i Ljósálfar ossia gli elfi chiari) citate nella 'Völuspa' (i.e. “profezia della veggente”, Edda, sopravvissute al Ragnarök le sale di Gimlé diverranno residenza escatologica dei giusti di tutti i tempi) e l'Helheimr (i.e. “regno di Hel”).

Nell'Helheimr i giusti ed i rei di delitti infamanti sono divisi dalla stessa Hel la cui parte di volto non tumefatto è rivolta verso i giusti mentre l'altra verso i rei di delitti commessi in aperta opposizione alla legge degli Dèi; i defunti vengono accolti nel ‘Gnipahellir' (i.e. “recesso di Gnipa”, anfratto che conduce all’Helheimr) dal lupo Garmr la cui pelliccia è rossa di sangue; superato questo terribile guardiano i defunti seguono il corso del ‘Gjöll’ (i.e. “Ululante”, fiume sotterraneo sulle cui acque corrono lame) per giungere al Gjallarbrú (i.e. “ponte sul Gjöll”, ponte dorato che sovrasta il precedente fiume) presidiato dalla fanciulla di nome Móðguðr (i.e. “furia guerriera”) in quanto porta dinanzi all’Helgrind (i.e. “cancello di Hel”).

L’Helheimr viene erroneamente descritto come un luogo freddo ed inospitale; questo errore frequente è legato al fatto che spesso l’Helheimr viene confuso con il regno che lo contiene, il ‘Niflheimr’ (i.e. “terra delle nebbie/gelo”, ultimo dei nove mondi). Così recita un passo del ‘Vafþrúðnismál’ (i.e. “Il Discorso di Vafþrúðnir”, Edda Poetica):

“[…] nío kom ek heima fyr Níflhel neðan, hinig deyja ór heljo halir.”

“[…] giunsi nei nove mondi fino al Niflhel in basso, presso Hel, dove vanno i morti.”

C’è da dire che i luoghi dove dimorano i rei non sono per nulla confortevoli; vi è persino una sorta di spiaggia chiamata ‘Nástrǫnd’ (i.e. “lido dei cadaveri”) dove vengono raccolti gli omicidi i quali vengono divorati dal maligno serpe ‘Níðhöggr’ (i.e. “colui che sferza con malizia”).
Per quanto concerne la sala dove risiede Hel, con pareti e tetto di serpenti intricati che grondano stille di veleno, c'è da dire che non è propriamente un bel posto.
La sezione dove sono accolti i giusti è invece più accogliente, non è certo la Valhalla ma alla fin fine non è così male; ricordiamo che nell'Helheimr vi dimora Baldr il valoroso, figlio di Óðinn.

lunedì 10 dicembre 2018

Contro gli imperi

Perché siamo contro gli imperi e gli stati burocratici? È una domanda che ci è stata posta più volte e che, talvolta, ci siamo probabilmente posti anche noi, vorremmo quindi con questo breve articolo rispondere a quanti ci hanno posto questa domanda oggi in maniera da poter agevolmente rispondere alla stessa anche in futuro.

Ecco, quindi, perché siamo contro Roma e tutti gli imperi:

-sono stati burocratici, centralizzati, che per funzionare necessitano di una folta schiera di imbelli burocrati 
-sono delle pialle culturali e spirituali che tendono ad assimilare quanto può essere loro utile e distruggere tutto il resto 
-nella loro organizzazione anche i comandanti diventano dei mercanti della guerra o, peggio ancora, dei semplici funzionari, non c’è spazio per l’eroismo aristocratico
-sono realtà corrotte nelle quali un imbelle, se dotato di mezzi e astuzia, può ottenere potere più di un uomo coraggioso e ciò è per noi inaccettabile. 
-in essi lo stato diventa un’entità da servire, più della propria famiglia e del proprio sangue. Anche questo per noi è completamente inaccettabile.

Siamo a favore di ogni specificità locale e di ogni espressione della spiritualità indoeuropea arcaica, la nostra non è un’opposizione etnica o basata su folli e francamente idiote teorie separatiste fra europei mediterranei e continentali, tutt’altro.
Difendiamo il diritto di ogni popolo e di ogni spiritualità ad esistere come entità specifica e non per “concessione”, facilmente revocabile, di un’entità astratta, asettica e lontana quale un impero. 
Il nostro messaggio è quindi rivolto a tutti: greci, insubri, tarantini, lucani, veneti e ancora siracusani, liguri, longobardi e sanniti sono nostri fratelli, e lo sono anche i romani, nella loro espressione tribale e locale, ovviamente, non in quella universalista che tanto male ha fatto alla nostra terra di mezzo. 
Siamo già stati, quasi tutti e per periodi variabili, schiavi di Roma, vogliamo davvero esserlo nuovamente? Davvero volete piegarvi e servire ancora quel principio che un tempo schiavizzò e sfruttò la vostra terra? 
Coloro che tradirono gli Dèi votandosi anima e corpo al Dio del deserto?
Siate fedeli a voi stessi, a ciò che davvero siete, siate tribù, figli della vostra terra, liberi davanti agli Dèi e agli uomini, non meri schiavi, perline colorate nel pallottoliere di una Roma qualsiasi. 
Questo è il nostro messaggio e la nostra lotta e non cambieremo strada.

domenica 9 dicembre 2018

Le pietre forate

Le pietre forate sono, fin dall’antichità, considerate potenti talismani. Esse vengono chiamate con diversi nomi: Pietre forate, Pietre di Odino, Pietre delle fate, Pietre delle streghe.

Esistono tante leggende su queste pietre e vari detti antichi. Comunemente si narra che le pietre forate siano legate agli spiriti e che essi abbiano lavorato su di loro incessantemente e costantemente per praticare il foro.

Detti antichi 

La locuzione “Gutta cavat lapidem” (La goccia scava la roccia) si ritrova in Ovidio, in Lucrezio, in Tibullio, in Seneca, in Catone e in molti altri autori. In epoca medioevale la locuzione è cambiata e diviene, “Gutta cavat lapidem, non vi sed saepe cadendo” (La goccia perfora la pietra non con la forza ma col cadere spesso). Con questa Locuzione viene data importanza all’azione stessa che perfora la roccia e non alla pietra o al foro stesso, La costanza, il tempo, la pazienza, la perseveranza, la tenacia ecc. nonché l’impegno che non si lascia distrarre per perseguire il proprio obiettivo.

Altro aspetto collegato alla pietra è l’acqua che buca la pietra, infatti grazie all’acqua che costantemente cade sulla pietra, gli vengono attribuiti poteri purificatori (L’acqua che ha lavato la pietra e rimosso le impurità). Altro elemento importante è il foro, simbolo estremamente significativo in moltissime culture che indica protezione/Benedizione ecc.

Usi magici/leggende 

Alla pietra sono attribuite capacità curative, di protezione da morte, maledizioni, streghe, malattie e incubi, ma anche di finestre attraverso le quali vedere mondi altri e spiriti invisibili (Guardando attraverso il foro). Venivano usate dai marinai In Gran Bretagna come amuleti contro la stregoneria. Il Dottor H. Colley nel suo articolo “Witched Fishing Boats in Dorset” in “Somerset and Dorset Notes and Queries” (vol. X, pp. 49- 50; 1906) scrive: …”non era raro per le barche a remi a Weymouth averne legate a chiodi o graffette a prua, immediatamente sotto la falchetta”… Alle pietre sono attribuite anche capacità di poter purificare l’acqua. Si dice anche che non bisogna disperare per la rottura della pietra poiché essa significa che ha protetto una vita.

In generale esse preservano indifferentemente uomini, donne, bambini, luoghi o animali (sia bestiame che domestici) dalle “cose brutte”.

Le pietre forate vengono anche chiamate “Wishing Stone” (Pietre dei desideri). Si dice che guardando la luna attraverso il foro essa ci aiuterà a realizzare il nostro desiderio.

Alle pietre forate sono attribuiti usi sciamanici, infatti essa era considerata un portale di nuova vita e/o collegamento tra i mondi. Consentono di lasciarsi indietro il passato, di rigenerare il corpo dalla malattia, nonché lo spalancare di energie psichiche potenti. Si dice anche che esse siano collegate ai poteri di morte, poiché il passaggio attraverso di esse era un passaggio dalla vita alla morte simbolico, tra il mondo fisico e quello spirituale. Collegate ad Odino la Gimbutas dice che lo strisciare attraverso l’apertura procurava la rigenerazione (Odino e L’idromele).

Le pietre forate le troviamo anche tra i celti per cerimonie nunziali.

In epoca preistorica le pietre forate naturali venivano esposte all’entrata delle camere funerarie, quale simbolo di passaggio, dopo la morte, per facilitare la rinascita dei propri cari.

Rarità 

Le pietre Forate sono più facilmente reperibili vicino al fiume o al mare, meno facili da reperire in montagna. Rimangono comunque difficilmente reperibili anche vicino ai letti del fiume, ancora più rare sono quelle pietre di roccia dura (difficilissime da trovare per ovvi motivi).

Conclusioni

Le pietre forate in qualunque cultura sono considerati potenti oggetti naturali (le pietre che non sono forate naturalmente non rientrano nella categoria "talismani potenti")  vengono utilizzate per i più svariati usi e come collegamento tra il mondo visibile e quello invisibile; esse sono collegate all’acqua e alla terra (e tutto ciò che ruota attorno a questi due elementi compresa la morte e la vita). Spesso sono “ciottoli” ma, ci sono anche quelle che hanno un aspetto antropomorfo e di varie dimensioni (si dice sono abitate da spiriti e donate da loro). 
Le pietre forate di grosse dimensioni sicuramente non possono essere portate al collo ma, possiamo proteggere luoghi o usarle per particolari "cerimonie" o altro che esula dal portarle con se.


Orlando, in collaborazione con “Le vie di Wodanaz” 

venerdì 7 dicembre 2018

Origine delle Rune,l'ipotesi etrusca -parte seconda

Tornando ai santuari di Reitia: a questa dea venivano dedicate iscrizioni votive, sia su osso che su statuette, che rappresentano esercizi di scrittura e segni magici molto simili a quelli ritrovati in iscrizioni indubbiamente runiche i quali, soprattutto nei santuari situati intorno alle Alpi orientali, prendono forme contratte in cui gli elementi non formano frasi complete ma, piuttosto, quella delle iscrizioni runiche magiche a 5 elementi.




























Fig. 1 – Dettaglio di statuetta votiva dedicata a Reitia

L’iscrizione tipica infatti diventa la forma “nome del dedicante, offre, oggetto, esercizio grammaticale, Reitia, simboli sacri” esattamente come testimoniato per le rune da numerosissimi reperti. Le forme contratte non sono comunissime nella scrittura votiva in altri alfabeti, e ancora meno gli esercizi grammaticali (evidentemente dedicati a un dio eloquente a cui il dedicante desidera mostrare la sua abilità).

Colpisce particolarmente come il verbo votivo usato nella maggior parte di queste iscrizioni sia alu, esattamente come per le iscrizioni runiche che sembrano averlo mutuato intatto, insieme ad alcune sequenze di lettere utilizzate come esercizio grammaticale, che si ritrovano immutate nei reperti di amuleti runici più antichi, probabilmente incisi da germani che avevano visitato questi templi e avevano riportato con sé la sintassi votiva tipica dei santuari di Reitia.





















Fig 2 – Iscrizione runica “Alu” su un bratteato

La mappa dei ritrovamenti Etruschi nell’Europa centrale dimostra come, dal nord Italia, questo culto e questo alfabeto si siano diramati oltre le Alpi verso l’attuale Francia, Austria, Slovenia – sono state rinvenute iscrizioni di questo tipoanche in scavi di accertata origine Celtica come quelli di Magdalensberg.



Fig 3 – Mappa dei ritrovamenti etruschi in Europa

Altra testimonianza a favore di questa tesi sono due reperti presenti al Kunsthistoriches Museum di Vienna, e che apparentemente hanno ispirato l’idea dell’origine Etrusca delle rune: in questo museo sono conservati gli Elmi di Negau, di origine etrusca e datati al 400 AC. Sono stati rinvenuti in quella che ora è la Slovenia e presentano due incisioni del tutto differenti: Negau A riporta un’iscrizione Celtica, mentre Negau B riporta un’iscrizione nell’alfabeto etrusco traducibile come “Harigast il sacerdote”, dove Harigast è un nome tipicamente germanico e testimonia che, fra le tribù germaniche, qualcuno doveva essere pratico dell’alfabeto etrusco.
Personalmente, ritengo questi elmi rappresentino benissimo la commistione culturale che ha portato all'origine delle rune.
Fig. 4 – Iscrizione su Negau B
L’alfabeto Nord-Etrusco non è un’unica entità, ma è rappresentato con caratteri differenti a seconda della zona del nord Italia in cui sono state rinvenute le iscrizioni (e quindi della tribù che vi era stanziata), con l’aggiunta di differenti influenze (ad esempio, quelle Celtiche nella zona di Lugano). I parallelismi fra queste forme e l’alfabeto runico sono numerosi, come riportato nella tabella comparativa.













































Tab. 2 – Tabella comparativa fra le varianti Nord-Etrusche e il Futhark

In particolare, è evidente come l’orientamento verticale delle lettere L ed U sia mantenuto fra le forme più comuni dell’alfabeto Nord-Etrusco e di quello Runico.
A livello vocale, i linguisti concordano sul fatto che le lettere b, t e k presentino un evidente parallelismo tra il Futhark, l’alfabeto greco e quello latino; mentre la pronuncia di p, d e g si discosta molto dalle forme mediterranee, laddove l’alfabeto Nord-Etrusco aveva adottato dei grafemi che permettessero di distinguere fra questi due tipi di pronunce.

Sia a livello fonetico che grafico la c Nord-Etrusca si ritrova nella k del Futhark, ed è interessante notare come nell’alfabeto Sud-Etrusco infine si affermi la pronuncia come C e in quello Nord-Etrusco come K, esattamente come Kenaz.
La X nord-Etrusca traslittera con ogni probabilità come g, mantenendo la grafia in Gebo.
Allo stesso modo, la j è rappresentata nel Nord-Etrusco da due linee parallele, successivamente piegate in una forma simile a Jera.










Fig. 5 – L’evoluzione di Jera

La V dell’alfabeto Nord-Etrusco deriva dalla Vau greca, già caduta in disuso al momento della diffusione transalpina, e veniva utilizzata nella forma VH per indicare la f e distinguerla dalla w (indicata semplicemente con V), ma nel tempo V passò ad essere utilizzata per indicare sia w che f. La somiglianza con Fehu è lampante.








Fig. 6 – L’evoluzione di Vau/Fehu

La e Nord-Etrusca appare ruotata in vari reperti, fra cui l’elmo di Negau, nella stessa rotazione di Ehwaz.
La a Nord-Etrusca, che presenta marcate somiglianze con Ansuz, deriva da una forma arcaica che si ritrova anche nel latino ma già caduta in disuso ai tempi dei primi reperti runici.
La h Nord-Etrusca presenta, nel tempo, una semplificazione da 3 a 2 bracci, come mantenuto in Hagalaz.











Figg. 7 e 8 – L’evoluzione di Ansuz e Hagalaz

Anche la disposizione delle lettere e delle parole nelle iscrizioni e la presenza di alcuni “caratteri speciali” presenta evidenti parallelismi.
In entrambe le culture sono presenti lettere o intere frasi invertite, specchiate o capovolte, scritte da destra a sinistra come da sinistra a destra, in scrittura bustrofedica (ovvero continuando fino al margine del supporto e scendendo al rigo successivo a nastro, invertendo l’ordine di scrittura).




Fig. 9 – Pietra runica di Rök con vari esempi di inversioni, scrittura bustrofedica, un motivo fishbone, rune specchiate e bindrune

In entrambi gli alfabeti manca la differenziazione ortografica (le “maiuscole” runiche non sono utilizzate come le maiuscole greche o latine, piuttosto come marker di una parola più significativa, per questo è tra virgolette) anche nella spaziatura, che si presenta talvolta in forma interpuntata nelle stesse modalità nelle due culture.
Allo stesso modo, parallelamente nel tempo i due alfabeti preferirono la scrittura destroversa a quella sinistroversa.
I simboli alberiformi (o fishbone) tipici di alcune iscrizioni votive runiche, si ritrovano nelle iscrizioni votive del Nord-est Italia.



Fig. 10 – Trascrizione dell’incisione runica sulla pietra di Kylver, tra cui una bindrune fishbone

So che sono stato appeso ad un’albero
in balia del vento
Per nove lunghe notti,
Ferito da una lancia, votato ad Odino
Io a me stesso,
Su quell’albero le cui radici
nessun uomo conosce.


Bibliografia e approfondimenti:
. Bernard Mees - The North Etruscan Thesis of the Origin of the Runes (da cui è tratta la tabella comparativa, la mappa dei reperti etruschi e le derivazioni linguistiche contenute nell’articolo)
. Mindy MacLeod - Runic amulets and magic objects

giovedì 6 dicembre 2018

Origine delle Rune, l'ipotesi etrusca - parte prima

L’origine storica delle rune è un tema attualmente ancora dibattuto, e le ipotesi a riguardo si avvicendano da più di un secolo.
Una teoria particolarmente affascinante e documentata vede l’origine del Futhark nell’alfabeto Nord-Etrusco, con cui effettivamente sono evidenti notevoli somiglianze già ad una prima occhiata.
E’ necessario premettere che l’alfabeto Nord-Etrusco deriva dall’alfabeto Etrusco, che ha notoriamente subito influenze greche nella sua genesi; l’alfabeto greco a sua volta raccoglie influenze mediorientali, per cui chi ravvisa nelle rune somiglianze con l’alfabeto armeno o greco sta vedendo bene: le influenze Indoeuropee sono articolate e complesse.
Semplicemente, a mio parere, l’alfabeto Nord-Etrusco è quello da cui l’alfabeto runico prende le sue discendenze più dirette.

Ritengo che la via seguita dalla diffusione degli alfabeti, in questo caso, sia una delle più ovvie: la via dello scambio economico.

Nel Nord-Est dell’Italia era diffuso, già nei secoli AC, il culto di Reitia: questa divinità femminile deriva direttamente dall’Artemide greca (nella sua connotazione di divinità eloquente), ed era venerata principalmente dagli spartani.
Il culto è arrivato nel Nord Italia grazie al commercio lungo i centri economici dell’Adriatico: traccia di questo processo si ritrova nella somiglianza fra l’alfabeto Messapico e tanto l’alfabeto runico quanto quello greco (la cultura autoctona Salentina è riconosciutamente di derivazione greca, molto più che romana).






Tab. 1-  Alfabeto messapico


I santuari dedicati a Reitia, associata con l’eloquenza e la scrittura, spaziano dalla zona del Po all’attuale Austria, mostrando una mappa geograficamente favorevole allo scambio culturale fra le tribù germaniche (in particolare, acconta per questo periodo la presenza sia di Cimbri che di Teutoni nell’area, come ulteriore testimonianza di una trasmissione da sud a nord e di un’influenza Celtica che poi spazierà anche nel nord Italia, ricamando influenze sulle tribù locali che ancora andranno ad influenzare quelle germaniche, e ne verranno influenzate a loro volta).

Per quanto riguarda la diffusione ancora più a nord, nei paesi scandinavi, è probabilmente passata per la Danimarca. Intorno al 200 DC, la Danimarca era al centro di un fiorente commercio che univa sud e nord Europa, come dimostrato dai ritrovamenti di beni di lusso importati da Roma e dalle numerose iscrizioni runiche nei reperti dell’epoca (un aumento della scrittura è spesso collegato ad un aumento degli scambi economici, di cui si tiene traccia scritta).
E’ però peculiare come queste iscrizioni non siano di natura contabile, ma vadano a designare la  proprietà (di beni di lusso o armi, in molti casi), oppure rappresentino iscrizioni in oggetti votivi.
Personalmente, ritengo che questo utilizzo sia indicazione con l’origine Etrusca delle rune, poichè Reitia vanta una doppia connotazione come divinità guerriera e divinità eloquente, caratteristiche che poi ritroveremo in Odino.
L’associazione con il prestigio e la ricchezza rimarrà una caratteristica tipica delle iscrizioni runiche durante tutta la storia del loro utilizzo, come testimoniato dalla distribuzione delle pietre runiche in Scandinavia, concentrate nelle aree economicamente più ricche.

lunedì 3 dicembre 2018

Teodorico, parte IV

Il successore di Felice Liberio al titolo di Prefetto del pretorio fu Cassiodoro III; anche questi come Liberio aveva in precedenza servito Odoacre con il titolo di ‘comes sacrarum largitionum’.

Fra gli altri collaboratori di Tedorico spiccano i due romani Simmaco e Boezio; anche questi avevano in precedenza servito Odoacre. Pur essendo stati irreprensibili funzionari nel 523 i loro rapporti con Teodorico si ruppero; improvvisamente scoppiò quello che potremmo definire ‘il processo del secolo VI’.
Il tutto iniziò quando il referendario Cipriano accusò di tradimento il patrizio Albino dinanzi a Teodorico; Albino si era reso colpevole, secondo Cipriano, dell’aver spedito a Giustino I, imperatore della Pars Orientis, lettere di calunnia ai danni Teodorico e di aver cospirato ai danni di quest’ultimo.
Boezio prese le difese di Albino facendo cadere in un primo momento le accuse di Cipriano; questi di risposta spinse suo fratello Opilione ad accusare Boezio di complicità nel tradimento. In Senato si costituì un tribunale speciale che condannò a morte di Boezio con le accuse di tradimento, spiritismo e magia; questi venne rinchiuso in carcere dove scrisse la sua più celebre opera che fu letta da Dante Alighieri quasi otto secoli più tardi, la “Consolatio Philosophiæ”. Boezio fu poi giustiziato il 23 ottobre del 524 assieme a Simmaco il quale aveva cercato di difenderlo dalle accuse di Albino segnando così la sua condanna.

Nel 523 il figlio di Cassiodoro III, Flavio Cassiodoro, venne nominato ‘magister officiorum’ negli ultimi anni di regno di Teodorico succedendo così a Boezio; questi oltre a rimanere a capo dell’amministrazione gotica in Italia per ben quarant’anni fu anche un grande storico noto per vari scritti quali le “Variæ” (i.e. raccolta di documenti ufficiali redatti fra il 522 ed il 538) sui quali è stato possibile basare la ricostruzione delle strutture amministrative del regno gotico in Italia come pure la sua storia.

Alla stregua di ciò che accadde sotto Flavio Odoacre, negli anni in cui regnò Teodorico la Chiesa di Roma non venne perseguitata; questi garantì la libertà di culto seppur tolse al clero molte immunità.

I rapporti con la Chiesa di Oriente e con l’imperatore Giustino I si incrinarono quando quest’ultimo, fervente niceano, dopo aver abrogato l’Henoticon di Zenone promulgò un editto contro l’arianesimo del quale Teodorico era fervente seguace; questi, piccatosi per l’affronto subito, ordinò al papa Giovanni I di recarsi a Costantinopoli con lo scopo di convincere Giustino I a ritirare il suddetto editto.Non contento dell’esito dell’ambasceria, Teodorico decise di imprigionare il pontefice che morì in catene nel 526. 

Non fu però questo il primo screzio fra Teodorico e Bisanzio. Nel 504 i Lepidi della Pannonia rappresentavano una grave minaccia per la Pars Orientis e per questa ragione Teodorico inviò truppe ostrogote le quali, dopo aver scacciato i Lepidi e fortificato la regione, ricevettero l’ordine da Costantinopoli di abbandonare la Pannonia. La crescente tensione fra goti e bizantini sfociò nel sangue quando un contingente composto da Eruli, Goti ed Unni invase la Mesia; ad Horrea Margi vi fu uno scontro con le truppe bulgare capitanate dal magister equitum Sabiniano; questi venne sconfitto e preso prigioniero - secondo altre fonti riuscì a fuggire.


Teodorico negli ultimi anni di vita trasferì la sua residenza a Pavia e fu proprio lì che in punto di morte, non avendo figli maschi, nominò suo successore il nipote Atalarico, figlio di Amalasunta.
Teodorico morì il 30 Agosto 526; Amalasunta assunse la reggenza dacché il figlio era ancora minorenne.
La romanizzazione dei goti e la cattiva educazione impartita al giovane sovrano scatenarono una serie di assassinii; si aprì così una nuova stagione di guerre e complotti che caratterizzarono il panorama italiano durante il Medioevo tutto, a riprova della veridicità del detto "individui fragili e deboli creano tempi avversi".

domenica 2 dicembre 2018

Teodorico, parte III

Nel 494 la conquista gotica della penisola italiana era oramai consolidata ma dei 250.000 uomini con cui Teodorico valicò le Alpi Giulie non ne restavano più di 200.000. Per via delle enormi differenze culturali e religiose la convivenza fra gli ostrogoti e gli autoctoni si paventava tutt’altro che semplice; già nell’epoca tardo imperiale gli stessi governanti romani facevano fatica a venire a patti con la popolazione.

Negli anni di poco successivi al 494 venne approvato un ‘istitutum’ legislativo dai caratteri tipicamente germanici che permetteva ai contadini vittima di schiavismo di uccidere il proprietario terriero come atto di legittima difesa; numerosi furono i casi ingiusti di assassinii nei confronti dei proprietari latini che una volta deceduti perdevano i loro terreni che andavano a finire nelle mani di goti o di loschi figuri che si erano resi “complici” del malfatto.
Crisi e carestie successive non favorirono la distensione fra occupati ed occupanti accrescendone di molto il malumore; solo un sovrano di un certo livello avrebbe potuto adempire al compito che il fato gli aveva assegnato senza incorrere nel rischio di una guerra civile.


Teodorico non cambiò l’amministrazione statale romana né il sistema di gestione della burocrazia.
- La penisola rimase divisa in diciassette province sotto l’occhio attento altrettanti presidi che dipendevano dal Prefetto del pretorio che risiedeva a Ravenna, capitale del regno, il quale faceva rapporto direttamente al re.
- Le province di frontiera vennero affidate a generali goti che si erano distinti durante la guerra, i quali assunsero il titolo di ‘comites’ (i.e. “conti”). I loro compiti non erano solamente militari ma anche civili e giudiziari.

- Il senato subì una drastica riduzione di personale ed venne posto, come gli stessi funzionari della città di Roma, sotto il controllo del prefetto dell’Urbe che era solito dirigere l’amministrazione e la giustizia nella città.
- La figura del capo dell’esercito andò a coincidere con la figura del sovrano e gote divennero le sue guardie del corpo come pure gli alti funzionari militari.


A guerra finita i militi ostrogoti ottennero dei campi da coltivare; si allontanarono così sempre di più dalla vita nomadica sino a divenire agricoltori come i legionari romani di un tempo.
Ciò dipese dalla riforma del Prefetto del pretorio Felice Liberio che all’epoca ricopriva il ruolo di Ministro delle Finanze; la riforma inizialmente assegnò un terzo delle terre confiscate ai soldati di Odoacre ai goti, successivamente nel computo delle terre rientrarono anche quelle dei privati romani.

Questi cambiamenti radicali accrebbero la diffidenza fra i due popoli; da una parte vi erano i vincitori che reclamavano la terra conquistata e dall’altra i vinti, personificazione vivente dell’epoca passata e di quell’idea di Impero di cui sia i barbari che i latini volevano farsi continuatori.

sabato 1 dicembre 2018

Teodorico, parte II

Gli Ostrogoti avevano un continuo bisogno di spazio ed essendo pastori nomadi dotati di poche nozioni di agricoltura la vita sedentaria non faceva per loro; quando l’imperatore della Pars Orentis ammassò il grosso del suo esercito ad Oriente trascurando però la Macedonia, Teodorico ne approfittò e colte di sorpresa le poche truppe bizantine lì stanziate le travolse occupandone il territorio.
L’imperatore Zenone Flavio che nel 474, anno della morte di Teodemiro, succedette a Leone I il Trace decise di trattare con gli ostrogoti i quali in cambio del possesso della Macedonia deposero le armi sino al 478 anno in cui invasero la Scizia.

I comportamenti ambigui e imprevedibili spinsero l’imperatore a nominare nel 484 Teodorico console nella speranza di placare la sua sete di conquista; fu però un fallimento politico dacché solo due anni dopo gli ostrogoti guidati dal loro re invasero la Tracia ed assediarono senza risultati la stessa Bisanzio. A quel punto Zenone invitò Teodorico ad occupare la penisola italiana governata dal generale Odoacre, inviso alla corte di Bisanzio per il forte consenso che aveva racimolato fra le fila del senato romano e fra un'ampia fetta della popolazione tanto da ricevere il titolo di ‘rex gentium’ (i.e. “sovrano delle genti”); lo scopo era quello di indebolire in un sol colpo le due più grandi minacce che gravavano sulla corte di Bisanzio, Teodorico ed Odoacre. Teodorico accettò volentieri e nel 488 un intero popolo composto da 250.000 persone di cui 50.000 mila in assetto da guerra emigrò verso la penisola italiana con qualche mercenario greco di rinforzo per conquistarla e crearsi un nuovo futuro.
Giunto ai confini della Dacia Teodorico chiese il permesso di transito ai Gepidi ma questi si opposero fermamente; dopo il loro rifiuto li sconfisse, distrusse i loro accampamenti e arruolò fra i suoi ranghi i pochi superstiti.

L’anno seguente valicò le Alpi Giulie e giunse finalmente in Italia dove Odoacre non si lasciò trovare impreparato; egli aveva costruito preventivamente fortificazioni e scavato trincee sulle rive dell’Isonzo. Il 28 Agosto 489 gli ostrogoti si scontrarono con l’esercito nemico asserraglia sull’Isonzo e lì lo sconfissero; la battaglia di Verona del 30 Settembre 489 si risolse con il medesimo epilogo.
Odoacre spaventato dall’esito delle ultime battaglie si dette alla fuga; optò in un primo momento per Roma ma dovette rinunciarvi data la cattiva fama che aveva tra i romani che lo detestavano. Dopo aver devastato il Lazio Odoacre si rifugiò a Ravenna.
Teodorico a quel punto occupò Milano dove le retrovie avversarie avevano trovato riparo e lì i seguaci di Odoacre vennero fatti prigionieri. Curioso è il caso del generale delle truppe nemiche Tufa che chiese di essere arruolato fra i ranghi ostrogoti; una volta a capo di quel contingente gotico che aveva il compito di assediare Ravenna, Tufa si rimise agli ordini di Odoacre causando la morte e la cattura di molti dei suoi soldati e facendo vacillare le sorti del conflitto.

A quel punto Teodorico lasciò Milano e partì per finire il compito dell’impostore; ammassò le truppe in un ampio fossato intorno alle mura di Ravenna che sembravano imprendibili e lì attese. Con l’assedio di Ravenna ancora in corso, Teodorico partì per Roma, la città eterna, dove venne accolto
come liberatore, per poi continuare verso il Mezzogiorno che pacificamente gli si sottomise.
 Dopo quasi tre anni di scontri, con il suo porto ostruito da un blocco navale, divorata dalla fame Ravenna capitolò il 25 Febbraio 493. Venne firmata la pace e Odoacre invocò clemenza e consegnò il proprio figlio Telano come ostaggio.

Il 5 Marzo 493 Teodorico, nuovo regnante di ciò che rimaneva della Pars Occidentis dell'Impero, sfilò a cavallo in città tra il popolo entusiasta; ci furono festeggiamenti ed un banchetto in onore dello stesso Odoacre che terminò con l’uccisione di quest’ultimo e dei i suoi parenti. Secondo alcuni cronachisti a lui coevi, Odoacre venne ucciso perché cercò di corrompere i luogotenenti gotici mentre stando a quanto scrisse Procopio perché propose a Teodorico di governare insieme a lui.
In ogni caso ciò dimostra che la sfacciataggine non paga.