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giovedì 28 febbraio 2019

I boschi sacri e l'albero cosmico- prima parte

I boschi sacri nella Tradizione Indoeuropea vengono visti come templi naturali da tempi arcaici e primordiali.

Questa concezione si ravvisa dall’Islanda all’India, poli opposti, ad ovest e ad est della grande espansione dei popoli Indoeuropei.

L’Europa stessa era una terra ricoperta da folte foreste, come ricorda Frazer: “Agli albori della storia, infatti, l’Europa era ammantata di gigantesche foreste primordiali, le cui poche radure dovevano apparire come isolotti in un oceano di verde. Fino al I secolo a. C. la Selva Ercina partiva dal Reno estendendosi verso est, per una distanza immensa e sconosciuta; i Germani, ai quali Cesare si rivolse per averne notizie, avevano viaggiato per due mesi attraverso quella selva, senza vederne la fine. Quattro secoli dopo l’imperatore Giuliano si recò a visitarla e la solitudine, la cupezza, e il silenzio di quella foresta, lasciarono una profonda impressione nella sua natura sensibile, tanto da fargli dichiarare che nulla di simile esisteva, secondo lui, nell’impero romano” (1).

Fra le popolazioni germaniche, importante ramo degli Indoeuropei, la concezione del bosco sacro come tempio naturale è particolarmente evidente.

Tacito scrive nel De Germania a proposito delle popolazioni teutoniche: “Non ritengono inoltre, conforme alla maestà degli Dèi il racchiuderli fra pareti, né il ritrarli in alcuna forma che ricordi l’immagine umana; consacrano alle divinità boschi e selve e danno nome di Dio a quell’essenza misteriosa, che solo un senso religioso fa loro intuire” (2).

Quando i Romani e i Greci già avevano innalzato templi e raffigurato gli Dèi con statue e dipinti, i popoli germanici erano legati ancora in larga parte all’usanza arcaica di non raffigurarli e di considerare templi, spazi sacri, alcuni boschi, con i loro alberi e le loro pietre, altari naturali.

Solo in epoca più tarda sorgeranno numerosi templi agli Dèi, come quello celebre di Gamla Uppsala (Vecchia Uppsala), con le tre statue di Þórr, Óðinn e Freyr, come narra Adamo da Brema nella sua Gesta Hammaburgensis Ecclesiae Pontificum (3).

Accanto al tempio di Uppsala sorgeva fra l’altro un bosco sacro in cui venivano compiuti copiosi sacrifici agli Dèi, come racconta lo stesso Adamo da Brema.

Chiesa Isnardi afferma: “Secondo una credenza diffusa tra tutte le tribù germaniche il bosco è luogo sacro in cui dimorano e si manifestano le potenze sovrannaturali. Per questo i rituali dei Germani ebbero luogo nei boschetti sacri, prima che nei templi” (4).

E ancora: “La diffusione del concetto del bosco come luogo sacro e sede di sacrificio è testimoniata inoltre dai numerosi toponimi i cui compare il termine per ‹‹bosco››: soprattutto lundr (m.), ma talora anche viðr (m.). In molti di essi è facilmente riconoscibile il nome d’una divinità che in quel luogo doveva essere adorata” (5).

Turville Petre scrive: “È notevole che le parole usate in lingue germaniche per luogo di culto o tempio, avessero spesso il significato di ‹‹bosco››. L’antico alto tedesco harug è reso in latino con fanum, lucus, nemus, ed il corrispondente antico inglese hearg, comunemente usato per ‹‹tempio›› o ‹‹idolo›› aveva pure il significato di ‹‹bosco››. L’antico inglese bearu e parole in relazione a esso variano alternativamente significati come ‹‹foresta, bosco sacro, tempio››. Il gotico alhs (tempio) è messo in relazione a parole che significano ‹‹bosco sacro››” (6).

Tacito narra inoltre: “I Senoni sono considerati come i più antichi e nobili dei Suebi; la prova di questa loro antichità è confermata da un rito religioso. In un’epoca determinata si raccolgono, per mezzo di delegati, in una foresta sacra per i riti degli avi e per vetusto e religioso terrore, i popoli dello stesso nome e della medesima stirpe” (7).

In quel bosco si facevano sacrifici al Dio supremo (regnator omnium deus), che è da identificarsi con tutta probabilità con Wotan, e il rito vorrebbe rappresentare “che di là ebbe principio la stirpe, che là risiede il dio che regna sovrano e che tutto il resto è suddito a lui e gli obbedisce” (8).

Il bosco sacro è quindi sede degli Dèi, luogo di sacrificio, ed è anche luogo iniziatico per eccellenza, dove si devono affrontare dure prove e forze pericolose.

Note:

1. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton 1992, p. 139

2. P. C. Tacito, La Germania, 9, Bur 1998, p. 211 s.

3. G. Dumézil, Gli Dèi dei Germani, Adelphi 1994

4. G. Chiesa Isnardi, I Miti Nordici, Euroclub 1996, p. 482 s.

5. Ibid., p. 483

6. E.O.G. Turville Petre, Gli Dèi Vichinghi, Ghibli 2016, p. 313

7. P. C. Tacito, La Germania, 39, ed. cit., p. 275 s.

8. Ibid., p. 277

- Articolo di Fabrizio Bandini, che ringraziamo sentitamente per averci permesso di pubblicarlo 

domenica 24 febbraio 2019

“Gl Cierv” di Castelnuovo, mito arcaico di morte e rigenerazione -Parte quinta

L’eterno grido de “Gl Cierv”

Il Cervo ancestrale, lo sciamano dei tempi remoti “parente” di quello della grotta di Ariege, il rito magico di caccia e di esorcizzazione del capro espiatorio, si sono evidentemente ammantati, per sopravvivere, della celebrazione carnevalesca e di questa Morte del Carnevale con connotazioni più popolari ma ugualmente evocative. Questa proposta di una possibile traiettoria evolutiva del rito lascia il campo a doverosi e ulteriori approfondimenti, ma appunto traccia una possibile strada diacronica per una più completa decifrazione del rito de “Gl Cierv” di Castelnuovo. Restano ancora tante considerazioni da fare. L’UomoCervo, attraverso queste lenti interpretative, ci si presenta spoglio di ogni mantello, ancorato ad un tempo arcaico senza storia, vivo nei mondi del mito e per nulla scalfito dalla modernità, pronto a incarnare, in ultima analisi, un puro e primigenio simbolo della eterna e ciclica rigenerazione della natura: una vera e propria celebrazione di questo aspetto rigenerativo e magico, che fa incontrare sullo stesso piano la furia dell’inverno, le potenze ancestrali e caotiche della natura, i riti più antichi dei popoli cacciatori e il soffio magico sciamanico, che connette l’uomo al tutto che lo circonda, gli ridona ciclicamente il suo ruolo, lo pone parte e partecipe della magia eterna della rigenerazione.

Articolo a cura di Massimiliano Palmesano, dalla pagina Facebook “Janara”, pubblicato previa permesso.
Un suo precedente ed interessantissimo scritto può essere trovato sulla sua pagina o in questo blog ricercando “Janara” nel motore di ricerca interno.

sabato 23 febbraio 2019

“Gl Cierv” di Castelnuovo, mito arcaico di morte e rigenerazione -Parte quarta

“Gl Cierv” capro espiatorio e Morte del Carnevale

E’ su questo nocciolo ancestrale che si è poi man mano costruito nel tempo il mito così come lo conosciamo oggi, è a partire da questo tipo di pratiche e di forme di ritualità, che gli esseri umani praticano da tempi immemori, da questa spiritualità che è profondamente diversa dal concetto di spiritualità dell’uomo contemporaneo, che ha preso piede la lunghissima storia dell’UomoCervo. A questo nocciolo, dicevamo, si sono poi “attaccate” nel tempo altre forme di ritualità, altri elementi cultuali, a volte sincretizzandosi, altre volte celandosi, e permettendo, grazie a questi fenomeni di mimesi cultuale, di far resistere il rito dagli attacchi portati dalla “de-paganizzazione” avvenuta a partire dall’era cristiana, su tutti i miti relativi al capro espiatorio e alla cosiddetta Morte del Carnevale.

Il cosiddetto capro espiatorio è una pratica cultuale, anch’essa antichissima che serviva in un certo qual modo ad esorcizzare e scacciare via le energie negative dall’interno del cerchio comunitario, celebrato di solito in periodi di passaggio come la fine dell’inverno, proprio come nel nostro caso, e proprio come nel caso di un antico capro espiatorio dell’antica Roma e cioè la figura di Mamurio Veturio. “Ogni anno, il 14 marzo, un uomo vestito di pelli veniva condotto per le strade di Roma, percosso con lunghe pertiche bianche, e cacciato dall’Urbe. Lo si chiamava Mamurio Veturio, cioè, <il vecchio Marte>; e, poichè la cerimonia aveva luogo il giorno precedente al primo plenilunio dell’antico anno romano (che iniziava il primo marzo), l’uomo coperto di pelli doveva rappresentare il Marte dell’anno precedente, scacciato all’inizio di quello nuovo.” (6) Ancora una volta quindi una strettarelazione con quella che è la cultualità espressa nel rito dell’UomoCervo, il travestimento con le pelli, la cacciata simbolica per la relativa rinascita, il riferimento a Marte come nume della vegetazione primaverile, tutti elementi che indicano nel Cervo di Castelnuovo un potentissimo simbolo, che è quindi insieme capro espiatorio e simbolo di rigenerazione. Proprio rispetto alla concezione spirituale che sta alla base della tradizione del capro espiatorio è possibile ipotizzare un innesto in epoca molto più recente della cosiddetta Morte del Carnevale: in definitiva questa esigenza spirituale collettiva espressa nel rito sarebbe riuscita a sopravvivere innestando all’interno della cerimonia antica, quella che è una vera e propria Morte del Carnevale, simile a quelle che avvengono in tutta Europa. Non a caso il rito de “Gl Cierv” si rinnova ogni ultima domenica di Carnevale.

Note:

- (6) James Frazer, Il Ramo d’Oro, Newton Compton

Articolo a cura di Massimiliano Palmesano, dalla pagina Facebook “Janara”, pubblicato previa permesso.
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venerdì 22 febbraio 2019

“Gl Cierv” di Castelnuovo, mito arcaico di morte e rigenerazione -Parte terza

“Gl Cierv” rito di caccia

Mito teriomorfo dunque ma non solo. Altrettanto antica all’interno del mito dell’UomoCervo, è la conpresenza inequivocabile del rito di caccia, altra prerogativa che rafforza l’ipotesi di una radice arcaica de “Gl Cierv” di Castelnuovo. In particolare tale tipo di ritualità è incarnata dagli altri due personaggi che prendono parte alla pantomima fin dai tempi più remoti: Martino e il Cacciatore.

Su Martino è necessario soffermarci, è lui infatti che riesce, in seguito a una vera e propria danza rituale, a imbrigliare il cervo con la sua corda, in una scena carica di significati magico-simbolici. In primis il colore: Martino è completamente bianco, candido, colore della luce e delle forze della primavera ventura che riescono, dopo una cruenta lotta, a legare il cervo; la corda e il cappio sono altri elementi di forte valenza magica che rimandano ad alcune particolari pratiche sciamaniche e alla cosiddetta magia dei nodi e dei legamenti. Il cappello bianco e a punta completa la figura, quasi una candela, la cui luce illumina il buio inverno della piazzetta di Castelnuovo; ma la cosa più interessante è la connessione, indicata da molti studi, di Martino con la figura di Pulcinella. Anzi, Martino viene addirittura indicato come il “Pulcinella molisano”, e l’accostamento non è per nulla improbabile. Pulcinella infatti ha un antenato altrettanto illustre di quelli dell’UomoCervo ed è il Kikirrus della commedia Atellana, forma teatrale in cui veniva utilizzata la lingua osca improvvisando su dei canovacci per lo più licenziosi. Kikirrus, il gallo (ancora oggi in Campania una particolare specie di galletti sono chiamati chicchinielli, con evidente omofonia), è l’unica maschera teriomorfa (torna il teriomorfismo) della commedia Atellana e la stessa etimologia del termine Pulcinella, ci riporta al pulcino, cioè a un piccolo gallo. Ora, il gallo, non solo è simbolo del grano e delle messi, ma è soprattutto uno dei più potenti archetipi del mattino, “matui” in osco, forma da cui è con tutta probabilità derivato il teonimo Matuta: la Mater Matuta venerata dalle genti di lingua osca, era la dea del mattino, delle nascite, ma soprattutto della rinascita e dell’eterna ciclica rigenerazione tenebre/luce. Proprio per questa sua connotazione il gallo è un simbolo antichissimo, una reminescenza viva di forme di cultualità pre-indoeuropee legate alla figura della cosiddetta Grande Madre, la stessa Mater Matuta fa parte di quel tipo di reminescenza mitica e cultuale, e il gallo lo ritroviamo, simbolo di ricchezza e prosperità, su numerose monete campane, soprattutto da Cales e Suessa.

Infine, anche il nome, Martino, risulta essere un chiarissimo riferimento al dio Marte e “originariamente, Marte non era il dio della guerra bensì della vegetazione. A Marte infatti si rivolgeva il contadino, pregando per la prosperità del suo grano e delle sue vigne, dei suoi alberi da frutto e dei suoi boschi.” (4) Un ulteriore elemento, dunque, che vede in Martino un protettore della natura primaverile e portatore di luce.

Ma torniamo al rito di caccia e soprattutto alla figura del cacciatore che, oggi con un fucile, nei tempi remoti forse con una lancia o con arco e frecce, riesce ad uccidere il Cervo e la Cerva, salvo poi, assumendo una prerogativa del tutto sciamanica (ed utilizzando una tecnica del tutto sciamanica), avvicinarsi ai due animali che giacciono esanimi a terra, soffiare loro nelle orecchie, ridargli magicamente la vita. La scena non avrebbe bisogno di commenti: il rituale ancestrale, magico e sciamanico esce fuori in tutta la sua potenza, il soffio vitale - e intriso di potenza magica- è un elemento che richiama a tempi remoti e a forme di profondo rispetto tra l’uomo e l’animale, la stessa forma di “premura” che troviamo nella figura del cacciatore il quale,dopo aver in un certo senso “domato” la furia dell’inverno incarnata dall’animale, tributa allo stesso una forma di rispetto massima, facendo scendere in campo le imperscrutabili forze della magia per farlo tornare in vita. E’ in questo istante particolare della pantomina che avviene la celebrazione della rigenerazione, all’interno di un momento rituale in cui non è centrale soltanto la figura dell’UomoCervo ma tutto l’insieme della scena. Sempre mutuando un bellissimo passo di Eveline Lot-Falck: “Che cosa pensa l’uomo degli animali, questi esseri misteriosi accanto ai quali si trova a vivere? Li vede solo come una preda, un mezzo per garantirsi la sussistenza? Certamente no. Una simile concezione materialistica è affatto estranea alla mentalità primitiva, che si muove in un mondo intriso di religiosità, in cui niente è inanimato, in cui tutto, perfino le pietre, è dotato, se non di un’anima in senso stretto, perlomeno di vita. Il primitivo non fa classificazioni, non ordina esseri e cose in categorie. Nulla è mai acquisito, definitivo. Conformemente alla concezione ciclica del tempo, il passato è sempre attuale, il divenire è un eterno inizio. [..] In questo universo mutevole non sono ancora state erette barriere tra i regni animale, vegetale, persino minerale; non vi sono che aspetti differenti, apparenze cangianti. [..] Tutto ciò che esiste vive, tutto ciò che vive è unito da forti legami di solidarietà. […] Presso i popoli cacciatori, come i siberiani, l’uomo si sente intimamente legato agli animali. Tra specie umana e specie animale non è questione di superiorità, non c’è alcuna differenza essenziale. Il cacciatore considera l’animale almeno come un suo pari.[…] Nella sfera della magia, attribuisce all’animale un potere non inferiore al suo. D’altra parte, l’animale è superiore all’uomo sotto uno o più aspetti: per forza fisica, agilità, finezza dell’udito e dell’olfatto, tutte qualità apprezzate dal cacciatore. Questi attribuirà un valore ancora maggiore ai poteri spirituali associati a quelle doti fisiche. Al pari dell’uomo, l’animale possiede una o più anime e un linguaggio. Di più: spesso comprende il linguaggio umano, mentre il contrario è vero solo per gli sciamani.”(5). Questo lungo passaggio di Lot-Falck, seppur con un campo di indagine diverso, sembra parlarci dello stesso tipo di ritualità, ma soprattutto di spiritualità, che è alla base del rito de “Gl Cierv”, proprio nel momento in cui c’è l’incontro/scontro e rigenerazione finale tra il cervo e il cacciatore. Questi tre personaggi: UomoCervo, Martino e Cacciatore sono, a parere unanime, la radice essenziale e più arcaica del rito de “Gl Cierv”, gli elementi che lasciano più che aperte le congetture relative a una fondazione antichissima del rito.

Note:

- (4) James Frazer, Il Ramo d’Oro, Newton Compton

- (5) Eveline Lot-Falck, I riti di caccia dei popoli siberiani, Adelphi

Articolo a cura di Massimiliano Palmesano, dalla pagina Facebook “Janara”, pubblicato previa permesso.
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giovedì 21 febbraio 2019

“Gl Cierv” di Castelnuovo, mito arcaico di morte e rigenerazione -Parte seconda

“Gl Cierv” mito teriomorfo


L’immagine più antica che possiamo trovare relativa a un vero e proprio uomo-cervo, è il cosiddetto Stregone di Ariege nelle Caverne des Trois Freres in Francia, che risale a circa 13000 anni prima dell’era cristiana: “Il dipinto raffigura un uomo rivestito di una pelle di cervo e col capo sormontato dalle corna ramificate del cervo. La pelle dell’animale ricopre tutto il corpo dell’uomo, ma le mani e i piedi sono stati dipinti come se si vedessero attraverso un tessuto trasparente; in tal modo si vuole suggerire a chi guarda il dipinto che vi è raffigurato un essere umano travestito. […] A quanto pare la cerimonia consiste in una danza che comporta movimenti dei piedi e delle mani”(2). Murray ipotizza un travestimento, ma la scena, che rappresenta appunto una danza alla presenza di numerosi animali, suggerisce piuttosto un mito teriomorfo: lo Stregone è travestito, o si è temporaneamente mutato in cervo acquisendone tutte le caratteristiche magiche? E’ riscontrabile un teriomorfismo chiaro che pone la figura in netta relazione con il mondo animale, una vera e propria mutazione quindi, non un uomo travestito o anche un animale antropomorfo, bensí un UomoCervo.


Un essere del tutto simile a “Gl Cierv” di Castelnuovo, che, all’interno di uno spazio rituale magico, smette temporaneamente di essere uomo, per assurgere a simbolo del furore del cervo e dell’inverno che sta per cessare, un essere mitico intriso delle prerogative più profonde del ciclico processo di rigenerazione della natura. La pratica di cucire al momento l’abito di pelli addosso a chi interpretava l’UomoCervo in uso fino agli anni ’60 del ‘900, tramanda una forma di ritualità ancestrale e magica, in cui non si cerca di infondere nell’uomo il potere dell’animale, bensì si pone un procedimento di tipo magico atto alla creazione di un EssereAltro, si cerca di stabilire in questo modo un collegamento materiale e palpabile con l’imperituro mondo del mito. E’ in questo tipo di miti teriomorfi che va ricercata la radice più antica e vera del rito de “Gl Cierv” di Castelnuovo, in forme di religiosità arcaiche e con profonde connotazioni sciamaniche: l’UomoCervo, durante la sua “trance”, abita entrambe le dimensioni, quella della piazzetta di Castelnuovo e quella del mondo degli spiriti e delle magiche forze della natura, le fa incontrare in un “frame” fuori dal tempo e fuori dallo spazio, nulla più e nulla meno di quello che tramandano le tradizioni sciamaniche di ogni luogo e tempo.


“Nell’età del mito, - scrive Eveline Lot-Falck, in un passaggio pregnante per il nostro caso - che i popoli del Nord-Est chiamano il tempo del Grande Corvo, gli uomini erano capaci di trasformarsi in animali da vivi. Trasformazione è un termine improprio. In realtà, benché vi sia passaggio da un mondo all’altro, tra uomini e animali non c’è distinzione. La frase: < Essi divennero demoni della foresta o del mare o “uomini” delle montagne >, frequente nei racconti dei ghiliachi, non implica l’idea di metamorfosi, ma quella di un passaggio nel mondo degli esseri soprannaturali. Più precisamente, vi è coesistenza di forme. L’essere si proietta simultaneamente nei due mondi, qui nel suo aspetto antropomorfo, lì in quello zoomorfo. Nessuna delle due personalità precede l’altra: sono entrambe autentiche e simultanee” (3)


Note:

- (2) Margaret A. Murray, Il Dio delle Streghe, Ubaldini Editore


- (3) Eveline Lot-Falck, I riti di caccia dei popoli siberiani, Adelphi


Articolo a cura di Massimiliano Palmesano, dalla pagina Facebook “Janara”, pubblicato previa permesso. 

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mercoledì 20 febbraio 2019

“Gl Cierv” di Castelnuovo, mito arcaico di morte e rigenerazione -Parte prima

La ricerca nei territori del mondo magico delle Janare ci ha portati alla scoperta del rito dell’UomoCervo di Castelnuovo al Volturno (1), rito che si rinnova ogni anno l’ultima domenica di Carnevale e che porta con sé bisogni e credenze delle comunità agricolo-pastorali arcaiche dell’Appennino molisano. “Gl Cierv” (Il Cervo) di Castelnuovo incarna, all’interno di quella che viene definita una “pantomima”, la ritualità e la spiritualità di un mondo extrastorico ed extratemporale: il rito, anzi, sta a rappresentare (e a invocare) l’eterno rinnovamento della natura, che dal freddo dei mesi invernali si accinge ad accogliere la primavera e il suo risveglio, o meglio ancora, il suo potere rigenerativo.

“Gl Cierv” tra ipotesi e “parenti illustri”

Indubbiamente il rito dell’UomoCervo comunica quanto appena detto ed esorcizza il prolungarsi del gelo invocando il Sole, di cui il cervo, entità maschile e cornuta, é un inequivocabile simbolo. Così anche come per la magica e ciclica rigenerazione del suo palco di corna, che si rinnova ogni anno, quasi un archetipo del ciclo continuo delle stagioni e della ruota dell’anno, fenomeno che avrà sicuramente “affascinato” (nell’accezione magica del termine) la psiche e di conseguenza la visione spirituale e simbolica degli antichi europei.

E’ indubbio anche che il rito possa avere delle connessioni più o meno verificabili con i festeggiamenti dei Lupercalia romani, ipotesi che a nostro avviso risulta tuttavia debole. Certamente i Lupercalia e “Gl Cierv” hanno alla base lo stesso “sentimento spirituale”, le stesse paure da esorcizzare, gli stessi demoni da scacciare, si pongono quindi, sul piano mitogonico, su territori più che contigui. Ci sono delle isomorfie evidenti: a partire dal travestimento con pelli di capra e la corsa selvaggia e furente, il fatto che si rinnovano ciclicamente nel medesimo periodo dell’anno; è altresì probabile che le celebrazioni dei Lupercalia dei tempi remoti avessero ancora più similitudini con quelle dell’UomoCervo, ma questo non basta a stabilire connessioni dirette tra i due fenomeni. Non possiamo di certo stabilire con certezza se si tratti di un mito autoctono o sia arrivato da fuori, ma un dato è certo: la simbologia espressa nel rito dell’UomoCervo è antica, antichissima e ha “parenti” di grande prestigio: lo Stregone di Ariege, Atteone, Sarasvati che assume la forma di Rohit, Cernunno e decine di esseri e divinità cornute in giro per il globo.

Note:

- (1) La magia delle Mainarde: sulle tracce ancestrali e sciamaniche delle Janare e dell’Uomo Cervo – di Massimiliano Palmesano per Janara (https://www.facebook.com/notes/janara/la-magia-delle-mainarde-sulle-tracce-ancestrali-e-sciamaniche-delle-janare-e-del/1383273381805964/ )

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martedì 19 febbraio 2019

La spada, anima del guerriero

Simbolo per eccellenza di un immaginario cavalleresco fatto di onore e combattimenti, la spada ha rappresentato l’aristocrazia e l’alto rango non solo nei campi di battaglia ma anche nella vita civile; essa è arma del sovrano, del condottiero in guerra e del gentiluomo che mai rifiuta un duello per non infangare il prestigio del nome che porta.
È stata uno strumento di iniziazione, bastava che un cavaliere toccasse con essa la spalla o la nuca di un altro uomo per ammetterlo, dopo un apposito rito, nella confraternita.
Dal punto di vista familiare era tradizione che al concepimento di un bambino gliene venisse regalata una e giunto il momento, dopo aver versato sangue e sudore esercitandosi con alcune più leggere per essere in grado di impugnarla senza fatica, poteva considerarsi realmente degno di tale dono e entrare nella società come guerriero; in altri casi non veniva data una spada nuova ma una vecchia o un frammento come artefatto delle guerre combattute in passato dagli antenati. Era consuetudine per un signore feudale donarne una a un vassallo in segno di riconoscenza per la fedeltà e gli onori che aveva dimostrato.

La spada è famosa per le numerosissime opere in cui compare e ne si può riscontrare una forte presenza nella cultura germanica; la troviamo sia nel 'Nibelungslied' (i.e. "Il canto dei Nibelunghi") che nell’Edda di Snorri ed è impugnata dall'Ase Týr, dio della guerra e della giustizia - nell’immaginario cristiano essa simboleggia la giustizia che difende i giusti ed meritevoli e punisce i malvagi ed accompagna insieme allo scettro ogni grande sovrano.
Molte spade hanno varcato il mito con gli eroi che le impugnavano partecipando insieme a loro a imprese leggendarie; una di queste è Gramr, la spada conficcata in un albero da Odino, liberata da Sigmund e usata dal figlio Sigfrido per uccidere il nano trasformato in drago Fáfnir. Altre sono Hrunting e Nægling usate dall’eroe anglosassone Beowulf.
Importantissimo per la storia e l’identità europea è poi il topos della spada nella roccia al quale spesso viene erroneamente collegata la famosissima spada forgiata da Wieland, fabbro degli dei, che nel ciclo bretone ha nome 'Excalibur' - il nome originale nella tradizione celtica era 'Caledfwlch' (i.e. "dal duro taglio"); fu donata al futuro sovrano britanno Artù dallo stregone Merlino e fece ritorno alla legittima proprietaria Viviana con l'uccisione di Artù per mano di Mordred - suo figlio illegittimo e acerrimo nemico - armato di Clarent, altra spada del padre.

Con la stessa maestria di un antico fabbro dei tempi che furono noi dobbiamo modellare la nostra vita e perfezionarla alla stregua del metallo grezzo con il quale una spada viene forgiata; solo dopo moltissime lavorazioni e perfezionamenti, in un equilibrio di potenza e maneggevolezza, la spada divenne la regina delle battaglie per secoli.

Riccardo Ghergia

sabato 16 febbraio 2019

Di donne, cacciatori e guerrieri

Le credenze circa l’influenza infausta delle donne, sulla caccia e sulla pesca ha una vastissima diffusione. Si incontra nelle regione dell’Europa settentrionale e occidentale, in scozia ed in Svezia (se la donna scavalca la lenza, la rende inutilizzabile), nelle isole Fær Øer, durante la pesca al delfino, nessuna donna era ammessa sulla riva della spiaggia.

La preparazione prima della caccia, l’essere “puro” (L’essere in stato di “grazia”), è una condizione fondamentale per gli uomini che si apprestano ad andare a caccia o a pesca. La caccia non è meno importante della guerra ed Il cacciatore, è considerato importante tanto quanto il guerriero, nonché soggetto agli stessi obblighi, doveri “onori”. Prima di partire il cacciatore deve prendere, al pari del guerriero, tutte le precauzioni necessarie a passare dalla vita ordinaria, alla vita extra-ordinaria (durante la caccia, nulla doveva far riferimento alla vita ordinaria, spesso anche la lingua nativa dei cacciatori cambiava, comunicando con un nuovo linguaggio totalmente inventato per il cerchio ristretto di cacciatori).

La yassa di Genghis Khan assimila il cacciatore negligente, al soldato/guerriero negligente, e prevede sanzione contro l’uno e contro l’altro. Tra braccare ed “abbattere” una preda umana o animale, non c’è grande differenza, e la tecnica è pressappoco la stessa. Il furto di attrezzature per la guerra o per la caccia, è punito allo stesso modo e l’ammenda è calcolata in capi di bestiame fino ad arrivare a recitare le novene per i furti più consistenti – Riasanovsky, fundamental principles.

In alcune società di balenieri, come gli eschimesi di tigara, vengono frequentati corsi fin da bambini per entrare in contatto con il soprannaturale e vengono iniziati da un cacciatore. Alcune società hanno addirittura riti cerimoniali da compiere per la prima caccia. Altre tribù di cacciatori si astengono addirittura dall’avere qualsiasi contatto con la donna, il giorno prima della caccia (altri invece non hanno questa usanza).

Fonti – i riti di caccia dei popoli Siberiani. Per altre fonti consultare il libro stesso.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz, dal gruppo Facebook Yggdrasill- Stregoneria, Sciamanesimo, Esoterismo, Mitologia e folklore, che consigliamo senza riserve

venerdì 15 febbraio 2019

Cultura dell'agire non della carta

Dovessimo affidarci ciecamente alla seconda, i popoli nordici prima della conversione al cristianesimo non sarebbero altro che analfabeti, i cosacchi dei semplici briganti e ladri di vacche ed i dialetti vili variazioni di quello che spesso viene chiamato “italiano corretto”.

Spetta a noi, antica nuova gente, insegnare in questo mondo ai vecchi librari imbecilli che cultura non è certo imparare da un vecchio tanto quanto bugiardo “libraccio” bensì provare, questionare, dubitare con ragionevolezza, non smettere di domandare e mai accontentarsi di ciò che si è letto!

Spetta a noi, antica nuova gente, agire feroci contro l'ignobile libraio che nulla è se non che uomo di carta, plastica e pavidità.
Non scoraggiamoci, ricordiamoci invece di come Roma non cadde in un giorno; forse la nostra vittoria non sarà immediata ma non c'è di che disperare.
Gli Dèi sono con noi ed il vento gonfia le vele del nostro fato verso terre lontane ma prospere.
Liberi ed intrepidi torneranno gli uomini di questa terra e cara essa tornerà ai loro cuori; birra, mjöd e vino scorreranno a fiumi nelle aule degli Jarl e degli Atamani e canzoni verranno cantate da Bardi e Skáldi.

Nel presente siamo qui circondati da imbelli, ‘cantastoriacci’, serpi ed idioti di ogni sorta pronti ad ingannarci ad ogni rima, ad ogni rigo, ad ogni parola.
La nostra risposta a tutto ciò sarà una ed una sola: la cultura guerriera!

F. Eldvindur

mercoledì 13 febbraio 2019

La società tribale, locale e rurale ed il centralismo

La storia dei popoli indoeuropei, da quando ne abbiamo notizia ad oggi, ha sempre seguito tre fasi distinte, questo ovunque vi sia stato stanziamento degli stessi.

Prima fase: tribalismo.

Organizzazione stanziale, agraria e incentrata su piccole comunità rurali autonome, guerre numerose ma limitate nel loro potenziale distruttivo, fatte al più di razzie e schermaglie ma non onnipresenti nella vita degli individui.
Questa fase è caratterizzata da un forte radicamento e da una sana resistenza ad ogni genere di cambiamento, sia esso religioso o sociale.
È in questa fase che l’uomo valoroso può espletare al meglio i propri doveri innanzi agli Dèi e alla propria gente ed è in essa che si può garantire una vera continuità rituale e sacrale.

Seconda fase: centralismo.

La crescita di un potere centrale minaccia le comunità locali, questo processo è spesso accompagnato (e causato) da influenze esterne ed estranee alla natura dei popoli indoeuropei (si veda l’influsso etrusco sui latini, o quello cristiano/francone sui germani settentrionali).
Prima con blandizie e inganni poi, una volta indebolita la struttura della società, con la forza il potere centrale si impone e tenta di distruggere quanto vi era prima di lui.
Al sacro culto degli Dèi, degli antenati e degli spiriti si sostituisce una statolatria innaturale e profondamente contraria alla natura umana, la fede si indebolisce ed inizia un processo di secolarizzazione che conduce al nichilismo e ad una crisi spirituale diffusa e tangibile.
L’uomo si allontana dagli Dèi, questa lontananza genera mostruosità di ogni genere.

Terza fase: decadenza.

La perdita di valori di cui sopra porta alla rovina di quanto vi sia di più sacro e vero, l’uomo non chiede più istruzione e guida agli Dèi immortali ma, tronfio ed incapace di comprendere ciò che lo circonda come una gallina dopo un pasto, ritiene di poter bastare a se stesso e di poter rispondere autonomamente alle domande che la vita gli pone.
Si tratta, ovviamente, di illusioni, nemmeno troppo pie, il risultato è ovviamente disastroso e si rivela in tutta la sua pochezza: essere perduti, senza guida ne saldezza, che si attaccano a piaceri effimeri e ad ogni genere di bassezze pur di non pensare alla propria, inevitabile, fine.
Tremebondi e imbelli si attaccano a tutto ciò che può dare loro una illusione di salvezza, si tratti di mercanti d’anime orientali o venditori di spiritualità un tanto alla lira.

Allo stesso modo, e per le stesse motivazioni, diventano tolleranti, pronti ad asservirsi al primo straniero che passa, tutto pur di poter mantenere le proprie confortanti visioni di un mondo buono, pacifico e coccoloso.
Negare la realtà, o maneggiarla a proprio uso e consumo, diventa la norma, almeno per quel tanto o poco che questa società dura.
Segue quindi la caduta e sarà tra le rovine che nasceranno nuovamente uomini degni.

Per questo abbiamo bisogno di una tribù, tutti noi. Abbiamo bisogno di confronto fra pari, in assemblea e sul campo, di discussioni e bevute, di lavoro e collaborazione.
È solo nella comunità rurale che è possibile trovare ciò di cui davvero abbiamo bisogno.

Lo stato non è una risposta, o meglio, è una risposta farfugliata data ad una domanda tremebonda.
Noi non vogliamo rispondere alla decadenza con una realtà ugualmente destinata a cadere, vogliamo lottare per ciò che realmente vi è di sacro ed eterno.

Serviamo gli Dèi, la nostra tribù e la nostra famiglia, nient’altro.

venerdì 8 febbraio 2019

La fede dei primordi- terza parte

Passiamo ora al Paleolitico superiore, epoca a noi più vicina durante la quale le sepolture con Ocra rossa e decorazioni ai defunti si moltiplicano. L’uso dell’ocra, in particolare, conosce un picco vertiginoso, la sua presenza in caverne ed habitat è tale da far ipotizzare un suo uso continuo e regolare per ogni genere di ritualità.
Visto il suo colore rosso (che poteva comunque essere adattato in un giallo o un viola tramite abbrustolimento) è lecito ipotizzare che essa fosse legata, a livello simbolico al sangue e più generalmente al fluire della vita e che quindi venisse utilizzata per cerimonie religiose quali offerte agli Dèi o agli spiriti, funerali, iniziazioni e riti propiziatori prima di una caccia.
Sono state anche ritrovate “palle” di ocra rossa, delle dimensioni di un pugno, contenenti pietre, fossili e, in alcuni casi, lame di selce, si potrebbe trattare di offerte rituali, magari, nell’ultimo caso, ad una divinità guerriera (l’offerta di armi, del resto, è pratica ben nota e documentata in quasi ogni popolo).
Questo fa, senza dubbio alcuno, dell’ocra di gran lunga il colore sacro più antico a noi conosciuto.

Al paleolitico superiore è da ascriverai uno dei ritrovamenti più significativi per la ricostruzione della spiritualità preistorica, quello delle pitture rupestri della grotta di Trois Frères, detta anche “il santuario”, fra le figure raffigurate spicca quella di una figura umanoide con corna di cervo e corpo umano, che si pensa essere una rappresentazione teriomorfa di uno stregone o di un Dio (inevitabili, in questo caso, i richiamo a Cernunnos, Dio cornuto venerato dai celti).

Ciò che possiamo riconoscere, già a partire dal paleolitico, è che i nostri antenati possedevano una propria cosmogonia con la quale interpretavano ciò che li circondava e che tramite questa conoscenza si rapportavano a ciò che non è sempre visibile, agli Dèi, agli antenati e agli spiriti di ogni luogo.

Finisce qui il primo approfondimento legato a questa tematica sulla quale, ad ogni modo, contiamo di ritornare in futuro.

Che gli Dèi vi guidino!

giovedì 7 febbraio 2019

La fede dei primordi- seconda parte

Ritrovamento importantissimo, sugli usi cultuali di questi nostri antenati, è quello della grotta del Circeo, nella quale è stato trovato un cranio scarnificato, posto all’interno di un circolo di pietre.

Ad esso, in tutta probabilità era tributato un culto legato agli antenati (o agli eroi, è lecito presupporre).
Sempre riguardo alla possibilità di un “culto del cranio”, inteso probabilmente come sede dello spirito di un defunto illustre, è importantissimo citare il ritrovamento di Le Mas-D’Azil, un cranio femminile posto insieme ad un corno sopra una mascella bovina in cima ad una pila di detriti pietrosi, completa il ritrovamento un palco di renna, al quale è lecito attribuire, vista la ricchezza di ritrovamenti in inumazioni, un significato spirituale, forse legato a pratiche di tipo sciamanico.

Lo sciamanesimo, del resto, altro non è che la religione dei primordi, di esso si possono trovare tracce nei tempi più remoti, oltre che nelle società più naturali che sopravvivono ancora oggi.

Altro ritrovamento Neanderthal degno di menzione è quello relativo ad una sepoltura di un uomo insieme ad un orso, anche se non ci è dato sapere se esso avesse valenza totemica, come sarebbe più che ovvio ipotizzare, o se si trattasse di un riconoscimento al morto, seppellito con la sua ultima preda (o con chi aveva provocato la sua dipartita). Quale che sia la storia è evidente la ritualità dietro la sepoltura, anche se essa è un ulteriore tassello a favore della tesi, ancora non completamente dimostrabile, di un “culto dell’orso” preistorico.
Discorso a parte merita l’uso di fossili e oggetti di forme particolari da parte di questo antico abitante d’Eurasia, probabilmente in funzioni magica e/o estetica (ammesso e non concesso che per l’epoca le due concezioni potessero ritenersi separate).

mercoledì 6 febbraio 2019

La fede dei primordi- prima parte

Articolo primo di una serie dedicata alla spiritualità preistorica e a quanto ci è dato sapere della via antica nel Paleolitico

Parlare della religiosità umana è sempre complicato, specialmente quando si parla delle religioni arcaiche, le più antiche e vere, farlo al riguardo del paleolitico, però, lo è ancora di più perché di questa fase pre-istorica sappiamo relativamente poco, essendo la stessa dominata da una cultura orale che, pur essendo per sua intrinseca natura superiore ad ogni cultura scritta, non ci ha lasciato che echi nel mito e ritrovamenti archeologici.
In questo articolo, primo di una serie che verrà redatta in futuro, cercherò di darvi una visione il più possibile completa di quanto sappiamo sulla fede dei nostri antenati più lontani e di come essi si rapportassero al sacro e agli Dèi.

Sappiamo per certo che, almeno a partire dal medio paleolitico, ma in tutta probabilità fin dalle sue origini, l’uomo ha cercato di comprendere lo spirito oltre che la carne, e di rapportarsi con il divino, seppur legate a realtà locali, come è giusto che sia in ogni realtà sana e tribale, è possibile riscontrare una ritualità nei comportamenti religiosi.

Partiamo da un chiarimento, probabilmente ridicolo per molti di voi ma necessario a spazzare via decenni, se non secoli, di mistificazione e cattiva informazione in merito: il cannibalismo rituale nel Paleolitico non è mai esistito se non nella testa di qualche studioso ottocentesco in cerca di fama, non ci sono, molto semplicemente, prove in merito, neanche mezza, né da parte dei Neanderthal, né da parte dei Cro Magnon/Sapiens Sapiens.
Non neghiamo la possibilità che questo tipo di alimentazione possa aver avuto luogo, magari in situazioni/casi limite ma da qui al definire pratica comune, e rituale, la stessa ne passa come dall’alba al tramonto.
Sappiamo per certo che già i Neanderthal solevano seppellire i propri morti, ricoprendone talvolta il corpo con fiori e monili, e attuando sistemi di inumazione complessi, comprendenti oggetti rituali quali palchi di renna, utensili ed utilizzo di ocra rossa.
Proprio questo pigmento, già presente in alcune sepolture Neanderthal ed onnipresente a partire dal Paleolitico superiore non solo nelle sepolture ma anche negli habitat, rappresenta di gran lunga il colore sacro più antico di cui si abbia notizia.

sabato 2 febbraio 2019

Eir

Non ci è dato sapere molto di questa Dea ma, data la sua importanza nella vita di tutti i giorni, è buona cosa parlare anche di questo poco.

Dea della medicina e della speranza, a lei è concesso di resuscitare i morti, ruolo che svolge come Valchiria sui campi di battaglia.

Dea prettamente femminile, essa è amica e consigliera di Frigg (Frea in lingua longobarda) sposa del padre del tutto e patrona del matrimonio e delle partorienti.
Ad essa occorre rivolgersi per richiedere aiuto e protezione quando si teme per la propria o altrui salute.
La sua dimora è Lyfjaberg, il cui significato è probabilmente “collina della guarigione” o “collina salutare”, un luogo altamente sacro nel quale è possibile ritrovare ristoro e cura.

Viene generalmente accostata alla Dea greca Igea, figlia di Asclepio, ma noi, in quanti sostenitori del tribalismo spirituale come disciplina sana per il rapportarsi agli Dèi immortali, consigliamo sempre di trattare ogni divinità (o, a seconda della propria interpretazione, ogni manifestazione della stessa) singolarmente, senza sovrapporre forzatamente una Dea ad un’altra, rischiando inutilmente di non dedicare ad una di esse il giusto tributo.

venerdì 1 febbraio 2019

Tribalismo e barbarie

“La nostra Europa ha 5000 anni, la loro 50” 

Quante volte avete sentito, o letto, questa frase, magari detta da un qualche simpatizzante di un’area politica in opposizione ad un’altra?
Moltissime, sicuramente, almeno quanto avete sentito l’altra parte ergersi a paladina di qualcosa, qualsiasi cosa, per poi sostenere che chiunque vi si opponga rappresenti il male, in conformità alla ben nota dicotomia “socialismo o barbarie”.

Inutile dire che queste manfrine, tutte, non ci appartengono, nemmeno per gioco.
Non è da noi che sentirete pipponi sulla Tradizione con la T maiuscola carpiata con genuflessione sulle ceneri di Evola, proprio no, così come non è da noi che sentirete proporre modernismi vari da poveri di spirito.

Noi non sosteniamo la continuità di una non meglio specificata tradizione che andrebbe dalla Grecia arcaica al cristianesimo, anzi, rigettiamoci il secondo come un corpo estraneo che ha interferito, senza riuscire ad impedire, nella preservazione delle tradizioni.
In un rito campestre, in un fuoco notturno, in un mito locale vi è molta più verità che in tutta la letteratura cristiana.
Un euroasiatico può imparare molto di più da uno sciamano siberiano che da un qualunque prete del Dio del deserto, così come un contadino realmente ancorato agli usi delle proprie terre è assai più savio del più grande teologo della religione di cui sopra.

La loro Europa ha 50 anni.
La loro Europa ha 2000 anni.
La loro Europa ha 5000 anni.

La nostra Eurasia ne ha 2 milioni e ancora vive e pulsa, fra tamburi di pelle di renna e scintille nella notte.