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giovedì 20 febbraio 2020

Relazioni fra lo Studium di Napoli ed il sostrato notarile-giuridico ad esso precedente - Parte V

Conclusioni

Come abbiamo potuto osservare, lo ius romanorum e lo ius langobardorum influenzarono a lungo gli usi e le consuetudini meridionali sino a divenire strumento per i sovrani normanno-svevi nella loro lotta contro il baronato. Queste due forme di diritto furono dunque essenziali per la nascita di quella forma statale accentratrice che fu il Regnum di Federico II e, persino quando quest’ultimo passò sotto la dominazione angioina, non persero mai in utilità in quanto fondamento dell’intero mondo giuridico meridionale.

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Fonti:
  • G. H. Pertz - G. Waitz - W. Wattenbach, Monumenta Germaniae Historica, die Konstitutionen Friedrichs II, dal sito internet: https://www.dmgh.de
  • F. delle Donne, Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum, Bari, 2009, Ed. Adda 

Bibliografia:
  • F. Senatore, Medioevo. Istruzioni per l’uso, Milano, 2008, Ed. Mondadori
  • G. Musca, Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo, Bari, 1989, Ed. Dedalo
  • G. Barone, L. Capo, S. Gasparri, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, Roma, 2001, Ed. Viella
  • T. Massa, Le consuetudini della Città di Bari, Bari, 1903, Ed. Vecchi
  • M. Caravale, Diritto senza legge, Torino, 2013, Ed. Giappichelli
  • Voci da ‘Enciclopedia italiana Treccani’

Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Storia Medievale III (2019 - 2020) tenuto dalla professoressa Lidia Capo, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

Relazioni fra lo Studium di Napoli ed il sostrato notarile-giuridico ad esso precedente - Parte IV


2.2 Le Costituzioni Melfitane
È dunque palese come le Constitutiones Melfitane fossero un ulteriore strumento per la lotta al baronato.
Il disegno di Federico II era chiaro, ossia favorire l'affermarsi di un ceto borghese che potesse bilanciare l'influenza baronale e dell'alto clero, organizzando una rete amministrativa diffusa ovunque sul territorio che non lasciasse spazio a centri di potere autonomo.
Le Costituzioni Melfitane rappresentano il fulcro di questo nuovo disegno. Redatte nell'Agosto del 1231 - seppur l'attività preparatoria fosse partita circa un anno prima con l'ordine esplicito, impartito da Federico II ai suoi giustizieri, di cercare delle sopravvivenze delle Assise dell'avo Ruggero II[12] e del cugino Guglielmo II - le Constitutiones Melfitane sono composte da tre libri, contenenti una totalità di duecentotrentacinque titoli. Il primo libro, di centosette titoli, si apre con le norme a difesa della fede cui seguivano quelle riguardanti la maiestas, la pace interna e l'ordine pubblico, quelle sulla giustizia, l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione finanziaria e dei castelli e quelle sul processo civile. Il secondo libro, di cinquantadue titoli, conteneva norme processuali, penali e sulle responsabilità dei judices. Il terzo libro, che era composto da novantaquattro titoli, riguardava i beni della Corona, la feudalità, le professioni ed i mestieri, l'ambiente, il commercio ed una varietà di reati a questi connesse.
Nonostante il fatto che le Costituzioni Melfitane fossero di poco posteriori alla fondazione dello Studium di Napoli, in esse non vi è alcun accenno a quest’ultimo né “a scuole di diritto, nonostante [vi] si tratti di giudici, notai e avvocati e si prescrive per essi un esame da parte di funzionari pubblici” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, nota 20, p. 35 ). La ragione di questo silenzio è da ricercarsi nel fatto che nel 1231 lo Studium partenopeo fosse allora in un uno stato misero, o forse addirittura chiuso.
Poco tempo dopo la loro promulgazione, le Costituzioni Melfitane vennero glossate dai maestri dello Studium di Napoli.
Alla stregua dei contenuti della scienza universitaria che veniva insegnata nello Studium, basata sullo ius romanorum come anche sullo ius langobardorum, le stesse Costituzioni Melfitane presentavano al loro interno norme che facevano riferimento al diritto romano ed a quello longobardo; esempio di ciò è una delle costituzioni del libro II, la trentatreesima, riguardante la cosiddetta monomachia, que vulgariter duellum dicitur, dove appunto si fa riferimento sia al diritto romano che a quello longobardo[13].
Centrale, per poter cogliere il ruolo svolto dallo ius romanorum e da quello langobardorum all’interno delle Costituzioni Melfitane, è lo studio di quella costituzione del libro I che inizia con la parola Puritatem (I 62.1). Essa disponeva che camerari[14] e baiuli[15] regi prompto zelo iustitiam ministrabunt, et quod secundum constitutiones nostras et in defectu earum secundum consuetudines adprobatas ac demum secundum iura communia, Langobardorum videlicet et Romanorum, prout qualitas litigantium exiget, iudicabunt ( v. Pertz-Waitz-Wattenbach, Monumenta Germaniae Historica, die Konstitutionen Friedrichs II, pp. 227-228 ). La gerarchia delle fonti indicata da Federico II ai suoi magistrati provinciali prevedeva innanzitutto il ricorso alle constitutiones nostras ( i.e. “costituzioni regie” ), in loro mancanza alle consuetudines adprobatas ( i.e. “consuetudini approvate” ) ed infine, nel caso in cui anche quest’ultima fonte di diritto si fosse dimostrata mancante, al diritto longobardo ed al diritto romano, entrambi indicati con la qualifica di ius commune. Come già in precedenza ricordato, nella dottrina meridionale il diritto romano era visto come quel diritto razionale che era strettamente connesso alla res publica. Nonostante la caduta della Pars Occidentis dell’Impero, questo patrimonio giuridico si era conservato e su di esso si erano costruite quelle consuetudini riguardanti la res publica delle varie comunità urbano-meridionali. “Il diritto romano, fondato sui libri legales commentati ed insegnati nello Studio napoletano, costituiva, dunque, la matrice delle consuetudini locali che si rifacevano […] ad una legittima ed equa tradizione risalente all’antico dominio di Roma” ( v. Mario Caravale, Diritto senza legge, p. 112 ). Nella Lombarda dei Libri Legales vi era riportato quel diritto longobardo che, in concomitanza con il diritto romano, aveva condizionato nel profondo gli usi e le consuetudini del meridione.
Lo stesso Federico II, alla stregua della maggioranza dei giuristi medievali del meridione, riconobbe la legittimità della natura di diritto comune anche per il diritto longobardo e lo pose dunque sullo stesso piano di quello romano, in quanto entrambi i diritti “costituivano le matrici comuni di tutti gli usi osservati dalle comunità del Regno” ( v. Mario Caravale, Diritto senza legge, p. 113 ).


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  • [12] Con le Assise di Ariano, redatte fra il 1140 ed il 1142, Ruggero II, alla stregua di Federico II, aveva cercato, fra le altre cose, di limitare il potere ed il numero dei vassalli, per la maggior parte baroni normanni; questi erano soliti ritenersi per lignaggio alla stregua della famiglia reale degli Altavilla ( non è un caso che nell'Assise XIX, nota come De nova militia, Ruggero II avesse deliberato che solo la nobiltà, previa approvazione del re, potesse accedere al cavalierato; in questo lo scopo era di legittimare le passate assegnazioni di feudi centrali fatte dal re ai suoi parenti più stretti, come in precedenza aveva fatto lo stesso Ruggero I il Granconte ). Secondo il manoscritto Vaticano Latino 8782, le Assise si aprono appunto con l'espressione “Legum auctoritatem per ispsius [Dei] gratiam optinemus” volta a legittimare erga omnes il potere di Ruggero II di fare leggi, aggiungendo poi nell'Assise XXVII “ad curam regni pertinet leges condere”.
  • [13] Attamen si accusator in crimine prius offerat se probare per testes et si in eorum probatione deficiat, tunc inquisitionis et pugne probatione minime locum habente reus, qui nocens non convincitur et presumitur innocens, absolvatur, quod ius inter omnes tam Francos quam Longobardos et in causis omnibus volumus esse commune ( v. Pertz-Waitz-Wattenbach, Monumenta Germaniae Historica, die Konstitutionen Friedrichs II, pp. 340-341 ).
  • [14] Dalla voce Cameràrio in ‘Enciclopedia italiana Treccani’ : Termine che, nel Medioevo, designava in genere la persona addetta alla custodia del tesoro, all'amministrazione dei beni del sovrano, di una comunità civile o religiosa, ecc. (detto anche camerlengo); nella costituzione comunale era il tesoriere del comune. Nella monarchia normanna e sveva, il gran c. era l'ufficiale preposto alla camera o fisco regio: riceveva il denaro che a questa si versava, aveva cura della persona del re, sopraintendeva a tutti i tesorieri del regno, presiedeva il tribunale supremo delle finanze: col tempo diventò ufficio onorifico.
  • [15] Dalla voce Bàiulo in ‘Enciclopedia italiana Treccani’ : Dal lat. baiŭlus «portatore»; v. balio. Balivo, s.m. nelle varie accezioni storico-amministrative.

Note:
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Relazioni fra lo Studium di Napoli ed il sostrato notarile-giuridico ad esso precedente - Parte III

Francesco Jerace
frontone dell'Università Federico II di Napoli
Foto tratta da: http://www.farodiroma.it/federico-ii-inaugurata-la-nuova-triennale-di-biologia/

Capitolo 2: Federico II

2.1 Lo Studium di Napoli

“Con il secolo XIII finiscono un po’ ovunque quei movimenti spontanei che, per assestamenti e migrazioni, avevano fatto nascere dal basso gli Studia [del secolo XII]” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, p. 49 ). Quest’ultimi erano caratterizzati da un'ampia autonomia potenziale che dovette essere normata, tramite statuti richiesti a e/o concessi da poteri esterni, in un sistema organico di autodifesa noto come Universitas, termine dello ius romanorum che designa un insieme di cose e/o di persone strette da particolari rapporti giuridici. Il termine Universitas, subendo una traslazione semantica, venne utilizzato per designare quelle “associazioni costitutive e condizionanti [di quegli Studia altomedievali spontanei di cui Bologna è esempio perfetto]” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, nota 17, p. 32 ).
In un documento del 1225, dunque posteriore di un anno alla circolare salernitana che ne sancì la fondazione, Federico II scelse ripetutamente il termine ‘Studium’ per definire Napoli, rifiutandosi di utilizzare il termine ‘Universitas’. La nascita dello Studium di Napoli, fondazione statale, non ebbe infatti carattere spontaneo come invece era accaduto in precedenza per Bologna, Parigi, Oxford. È dunque naturale che Napoli non riprenda aspetto alcuno delle caratteristiche formali ed organizzative dell’università bolognese. Gli unici elementi comuni sia a Napoli che a Bologna furono i contenuti ed i metodi della scienza universitaria che vi veniva insegnata: i Libri Legales[9] oggetto di studio e di insegnamento a Napoli come a Bologna ( v. Mario Caravale, Diritto senza legge, pp. 112-113 ). “La mancanza di originalità dell'Università di Napoli, dove non si studiava niente di diverso rispetto a Bologna, ... è certo intenzionale” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, nota 13, p. 30 ); lo scopo di Federico II era quello di accogliere le richieste dei sudditi del Regnum offrendogli quanto do
vevano prima cercarsi fuori, soddisfandone così le aspettative[10]. Con lo Studium di Napoli, Federico II venne a creare in territorio partenopeo la versione regnicola di Bologna, caratterizzata da un rapporto gerarchico-piramidale con lo Stato ed il sovrano che ne era il fondatore. Le ragioni più evidenti, già per altro presentate in precedenza in questo testo, poste alla base di una simile fondazione universitaria in un meridione che da poco, grazie alla dominazione normanna, aveva conosciuto il feudalesimo di stampo franco, erano la costruzione di un nuovo ceto di giuristi competenti ed la volontà di soddisfare una giusta richiesta sociale ma, riprendendo le tesi del Colliva, “lo scopo primario nel riprodurre il modello bolognese [nei contenuti e nel metodo della scienza universitaria era] piuttosto quello di sfruttarne le potenzialità antifeudali date dallo studio congiunto del diritto romano e quello longobardo” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, nota 14, p. 31 ). Mentre il primo era utile nel regolare la sfera pubblica, quest'ultimo poteva essere utilizzato in ambito feudale contro il diritto franco su cui si fondava il baronato, nocivo all'autorità regia[11]. I baroni vennero infatti esclusi da molte cariche pubbliche, che furono affidate a giuristi e funzionari legati allo Studium partenopeo, pur mantenendo, per volere esplicito del sovrano, un ruolo militare di prim'ordine, campo nel quale eccellevano. Non è infatti un caso che a Napoli, come già accennato in precedenza, quel diritto afferente al mondo longobardo e raccolto dopo la Lombarda nei Libri Legales ( v. nota 9 ) fosse oggetto di studio e di insegnamento. “Lo Studium non poteva che riuscire utile in questa linea di intervento: […] doveva diffondere una competenza giuridica basata sul sistema romano, utile soprattutto per la coscienza di regno dei funzionari, appunto perché «sistema», unitario concettualmente e ancorato in modo organico a un ordinamento monarchico e non feudale” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, nota 14, pp. 31-32 ). Le potenzialità antifeudali del diritto romano e di quello longobardo si ritrovano poi nelle Constitutiones Melfitane, dove lo ius romanorum fu applicato massimamente nel campo del pubblico mentre quello longobardo nel campo del diritto privato.

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  • [9] Dalla voce Libri Legales in ‘Enciclopedia italiana Treccani’ : Testi di diritto che formavano oggetto di studio e d'insegnamento nelle scuole civilistiche all'epoca del diritto comune. Un noto passo dell'Ostiense (Henricus a Segusio, morto nel 1271) li elencava così: "Et ut breviter comprehendam, in 50 libris Pandectarum, 4 Institutionum, 12 Codicis, 9 Collationibus Authenticorum, Novella, Lombarda, et Constitutionibus feudorum, consistit legalis sapientia" (Summa, proem., § 7). I Digesti eran divisi in tre parti: la prima, detta Digestum Vetus, comprendeva i libri I-XXIV tit. 2; la seconda, Dig. Infortiatum, i libri XXIV tit. 3-XXXVIII; la terza, Dig. Novum, i libri XXXIX-L. Anche il codice era diviso in due parti: la prima, libr. I-IX, formava il vol. che seguiva ai tre del Digesto; gli ultimi tre libri, detti appunto Tres Libri, facevano parte invece del quinto vol., detto semplicemente volumen, insieme con i quattro libri delle Istituzioni e con i nove gruppi (collationes) nei quali furono divise le 97 Novelle che i glossatori scelsero dalle 134 di Giustiniano, e che formavano nell'insieme il così detto Liber Authenticorum, o Authenticum. Questi cinque volumi costituirono quello che i glossatori per primi chiamarono Corpus iuris civilis. Le altre fonti della legalis sapientia erano del tutto estranee alla tradizione romanistica: e cioè, la Lombarda, e le Consuetudines (o Liber) feudorum, raccolta sistematica, fatta da privati giuristi, di testi di diritto feudale d'origine consuetudinaria o giudiziaria o legislativa: la quale raccolta, nella redazione vulgata o accursiana fu glossata nella scuola di Bologna e accolta nel Volumen in appendice all'Authenticum come decima collatioBibl.: F. C. Savigny, Storia del dir. rom. nel Medioevo, trad. E. Bollati, I, Torino 1954, p. 668 segg.; F. Patetta, Sulla introduzione del Digesto a Bologna e sulla divisione bolognese in quattro parti, in Riv. ital. per le scienze gurid., XIV (1892); id., I libri legali e il corredo di un giudice bolognese nell'anno 1211, in Atti dell'Accad. di Torino, L (1914); H. Kantorowicz, Ueber die Entstehung der Digesten vulgate, Weimar 1910; B. Brugi, I libri di studio dei nostri antichi scolari, nel vol. Per la storia della giurispr. e delle Università italiane (nuovi saggi), Torino 1921; E. Besta, Fonti, nella Storia del dir. ital., diretta da P. Del Giudice, parte 1ª, Milano 1923 p. 785 segg. )
  • [10] Hilares igitur et prompti satis ad professiones quas scolares desiderant animentur ( in Fulvio delle Donne, Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum, p. 165 )
  • [11] Per buona parte degli esponenti del baronato, il sovrano non era altro che un primus inter pares.

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Relazioni fra lo Studium di Napoli ed il sostrato notarile-giuridico ad esso precedente - Parte II

Corte del katepánō, Bari
Foto di Angelo D'Ambra

1.2 Giudici e notai nella Bari del tardo secolo XII
Alla stregua di quanto detto per i notai, anche per i giudici la conoscenza delle consuetudini locali era un elemento indispensabile nella loro formazione; a queste si aggiungeva lo ius langobardorum dacché, come già in precedenza ricordato, aveva un ruolo di primaria importanza nella vita giuridica di molte parti del meridione[7], tanto da arrivare a fondersi con le consuetudini locali e da rendere la sua conservazione specchio del mantenimento stesso delle autonomie locali. Esempio di ciò sono i baresi Andrea e Sparano, due figure che a buon diritto possono essere definite come giuristi ante litteram dacché autori del Corpus consuetudinum Civitatis Barii[8], opera di trascrizione e rielaborazione delle consuetudini della loro città, basate sul diritto romano e su quello longobardo, e dunque opera pratica e dottrinaria al tempo stesso.
Andrea ( notaio, avvocato della chiesa metropolitana di Bari nel 1202, iudex regalis nel 1208, iudex barensis e magister iustitiarius magne curie tra il 1202 ed il 1210, forse logoteta dal 1211 al 1238 e docente presso lo Studium di Napoli fondato da Federico II ) raccolse gli usi di tradizione latina in un impianto da cui emerge l’approfondita conoscenza del diritto comune, romano e canonico. Sparano ( iudex imperialis nel 1197, sapiens civitatis a capo della curia barese ) compì la stessa operazione sulle consuetudini di origine longobarda pur dimostrando una non trascurabile conoscenza dello ius romanorum.
In una tale fabbrica del diritto, quale era il meridione dell’epoca, la fondazione dello Studium partenopeo da parte di Federico II funse da contenitore per coloro che, fra i periti di diritto, erano forse più sensibili e certamente più lungimiranti nel vedere nel titolo dottorale un’ulteriore occasione per consolidare le proprie posizioni di prestigio, prestigio che però poteva trovare espressione massima esclusivamente all’interno dei ranghi dell’amministrazione statale. 
Non è un caso che nello Studium partenopeo fosse preponderante “lo studio romanistico, in quanto metteva in grado di meglio comprendere, applicare e eventualmente integrare qualsiasi sistema normativo: e questo appare anche nel caso dei maestri di Napoli, che insegnano il Corpus Iuris, e poi glossano il Liber Augustalis, cioè le leggi del regno” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, nota 13, pp. 30-31 ). Non è un caso che la nomina alla carica di magister fosse strettamente condizionata dall’approvazione del sovrano come pure non è un caso che lo stesso Andrea da Bari, forte della sua conoscenza del diritto canonico e di quello civile ( i.e. romano e comune ), diverrà poi magister nello Studium di Napoli.

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  • [7] Si pensi alle città di Bari, Benevento, Salerno, Conversano ed al fatto che sin dai primi anni del secolo XIII nel mezzogiorno fosse attiva una scuola longobardistica ( v. Giosuè Musca, Condizione umana e ruoli sociali nel Mezzogiorno normanno-svevo, nota 121, p. 385 ).
  • [8] La natura del Corpus delle Consuetudini Baresi, messe per iscritto sul finire del secolo XII ma di più remota formazione, è strettamente legata alla storia di Bari, baluardo strategico per i Romei, che sino al 690 era riuscito a resistere agli attacchi longobardi, salvo una breve occupazione ad opera dei beneventani avvenuta all’incirca nel 670. Con il 690 la città entrò a far parte del gastaldato di Canosa dal quale si staccò solo nei primi anni del secolo IX, divenendo così gastaldato autonomo. Bari rimase sotto il principato longobardo di Benevento sino all’847 quando venne presa dai saraceni e divenne capitale di un emirato che resistette sino all’871, quando fu liberata grazie all'intervento dell'imperatore franco Ludovico II coadiuvato dai longobardi beneventani. Tornata nuovamente gastaldato longobardo sotto il principato di Benevento se ne allontanò nuovamente nel Dicembre 876 quando, spinta dalle crescenti incursioni saracene, decise di passare sotto la protezione bizantina, divenendo capoluogo del neonato θέμα di Longobardia e dunque sede dello strategós e, dal 975, del katepánō ( i.e. alto ufficiale bizantino, governatore militare e civile che in questo caso era a capo dell’intera Italia bizantina. L’uso del titolo di katepánō sopravvisse al dominio bizantino dacché fu conservato dai normanni ). “Bari rimase dunque sotto il dominio bizantino per quasi due secoli, sino alla definitiva conquista normanna del 1071” ( v. Francesco Tateo, Storia di Bari dalla preistoria al mille, p. 305 ). La città di Bari è esempio perfetto di quella pluralità di iura tipica del meridione. Seppur tornata sotto l’impero dei Romei con volontaria sottomissione essa non dimenticò le leggi longobarde che, anzi, posero le basi per la sua autonomia. “La città [era] governata da funzionari militari insigniti di vari titoli ma la città non [era] più bizantina: è un possesso, non una parte dell’Impero e questo deve sopportare ciò che era frutto del dominio longobardo.” ( v. Teodoro Massa, Le consuetudini della Città di Bari, p.10 ) I magistrati imperiali erano soliti giudicare secondo lo ius langobardorum solo quei cittadini che fossero di stirpe longobarda mentre la parte della popolazione che viveva secundum legem romanam era giudicata sulla base di questa. Una simile ripartizione amministrativa richiedeva una presenza maggiore rispetto al solo tribunale ecclesiastico vescovile, presenza che venne colmata da un tribunale istituito attorno al katepánō, i cui giudici per necessità pratiche erano edotti sia nel diritto romeo che in quello edittale. Non sorprende dunque come da un simile humus siano potute germinare quella serie di norme consuetudinarie, legate al diritto romano come a quello longobardo, che andarono a formare il corpo delle consuetudini baresi. Quest’ultime sono il principio del moto autonomista che più in là porterà la città di Bari ad acquisire una forma proto-comunale già dal 1113, anno di redazione di un documento nel quale è attestato che a capo della città si trova il vescovo, attorniato da un consiglio totius civitatis. ( v. Teodoro Massa, Le consuetudini della Città di Bari, p.15 ) La stesura delle consuetudini da parte di Andrea e Sparano di Bari presenta al suo interno un elevato grado di fusione fra ius langobardorum e ius romanorum. Soggetti e titolari del diritto erano tutti quei cittadini di fede cristiana che avessero compiuto la maggiore età, identificata da Sparano con la soglia dei quattordici anni per gli uomini e dei tredici per le donne secondo una consuetudine che è, con buone probabilità, da ascrivere all’uso longobardo. Il nucleo di base della civitas era dunque la famiglia, la quale presentava caratteristiche romano-longobarde; al suo vertice vi era il pater familias che esercitava però una paternitas di stampo longobardo in quanto la sua prole femminile era soggetta alla sua autorità anche dopo la maggiore età. È questo un esplicito richiamo al mundio ( v. nota 6 ) che in questo particolare caso risultava moderato dalla natura di domina che lo ius romanorum riconosceva alle maggiorenni; infatti le donne baresi, pur rimanendo legate al suddetto institutum longobardo, godevano di una serie di autonomie fra cui quella di poter scegliere il proprio mundualdo dinanzi al giudice, o di poter nominare in piena libertà i propri esecutori testamentari. Così come nell’ambito del diritto familiare, anche nell’ambito matrimoniale si riscontra una fusione fra ius langobardorum e ius romanorum. Il matrimonio era a tutti gli effetti un contratto con regole patrimoniali ben determinate che venivano sottoscritte dalle famiglie dinanzi a dei testimoni e, soprattutto, dinanzi a dei giudici ( e.g. il meffio, dono che il padre della sposa riceve dal genero in cambio della dote della figlia, il faderfio, lett. “danaro del padre” ossia l'insieme dei beni che il padre assegnava alla figlia in occasione del matrimonio e che appartenevano giuridicamente alla donna, il morgengabe, lett. “dono del mattino” che lo sposo consegnava alla sposa dopo la prima notte di nozze. Son questi, termini dal chiaro etimo longobardo, delle regole patrimoniali che vennero stabilite dall’editto di Rotari del 643 ed in seguito istituzionalizzate nelle Leges di Liutprando ). Non è un caso che il morgengabe fosse, nelle consuetudini baresi, assimilato all’assecuratio dotis di origine giustinianea tipica dello ius romanorum. Essendo le consuetudini delle norme riguardanti il privato, le figure che spiccano nei documenti in cui le consuetudini vennero esplicitate sono il notaio, il giudice ed il katepánō ( i.e. nel periodo della dominazione bizantina spesso queste due ultime figure si sovrapponevano dacché al katepánō spettava anche l’attività giudiziaria che esercitava per delega con l’aiuto di assesores o judices, scelti fra i baresi ed aventi giurisdizione sulla città ); proprio quest’ultima figura perse nel tempo d’importanza divenendo semplice titolo onorifico, interpretazione normanna del ruolo della figura imperiale del katepánō.

Note:
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    Relazioni fra lo Studium di Napoli ed il sostrato notarile-giuridico ad esso precedente - Parte I

    da: https://www.lacooltura.com/2018/12/rinascita-culturale-federico-ii/federico-ii-exultet/

    La scelta di Napoli come sede dello Studium di diritto che Federico II fondò nel 1224, come testimoniato dalla circolare salernitana del Giugno dello stesso anno, fu dettata da ragioni politiche e logistiche ben precise[1].
    Il neonato Studium fu così posto al centro di una zona dove la tradizione notarile-giuridica dei secoli XI e XII aveva favorito la gemmazione spontanea di scholæ di retorica e di diritto.


    Capitolo 1: Antefatto

    1.1 Amalfi, Salerno ed i notai del secolo XI
    Afferenti alla zona di cui si accennava nell’introduzione, Amalfi e Salerno si presentano come esempio perfetto di quella pluralità di iura che è alla base della tradizione notarile-giuridica del Meridione.
    Prima della conquista normanna, avvenuta nel 1073 e che apporterà numerose novità in ambito giuridico[2], il ducato di Amalfi era un minuscolo stato costiero resosi indipendente nel 957 quando Mastalo II, conte di Amalfi dal 953 per nomina bizantina, si intitolò duca. Nel 1034 medio mense februario indictione secunda ( v. Francesco Senatore, Medioevo. Istruzioni per l’uso, p. 85 ) lo scriba[3] Giovanni del ducato di Amalfi rogò una permuta tra due soggetti privati con cui una certa Maria cede al padre Giovanni la sua quota d’usufrutto di un mulino ad acqua in cambio di uno scibrum ( i.e. “cassettone” ) e di una lena villutata ( i.e. “coperta in lana” ). Il documento in questione è redatto da un notaio, dunque da un professionista della scrittura che, sulla base dell’auctoritas che gli viene riconosciuta dal pubblico che assiste alla stesura dell’atto e che egli traduce nel testo attraverso una serie di forme e di stilemi propri del mondo notarile[4], è in grado di dare validità allo scritto. Figura centrale per tutto ciò che riguardasse la sfera privata del diritto altomedievale è appunto il notaio, custode primo delle consuetudini locali; proprio su queste si costruiva il diritto privato altomedievale che può essere dunque inteso come prodotto della società stessa in cui esso vige e con la quale si trasforma. Solamente nel 1231 con le Costituzioni Melfitane di Federico II, che annullavano le leggi e le consuetudini precedenti in contrasto con le “nuove” disposizioni, si viene in parte a perdere quella germinazione spontanea del diritto che è tipicamente altomedievale.
    Torniamo ora al documento dello scriba Giovanni. Da esso traspare lo ius al quale il ceto notarile e dunque la popolazione di Amalfi si rifaceva; il fatto che Maria compia la permuta in tutta libertà è indice del fatto che le fosse riconosciuta la stessa capacità giuridica di un uomo, caratteristica propria dello ius romanorum per il quale la donna era domina ( i.e. “padrona di sé stessa” ). Contemporaneamente, in quel principato di Salerno, che fu ultima roccaforte longobarda a piegarsi ai normanni[5], vigeva lo ius langobardorum per il quale le donne non potevano compiere transazioni economiche senza la presenza del mundualdo[6].
    Lungi dal voler negare, con quanto sinora detto, l’effettiva compenetrazione fra ius romanorum e ius langobardorum che era alla base delle consuetudini locali, i due esempi qui presentati offrono uno scorcio sul quadro generale della tradizione giuridica del meridione pre-normanno e dunque pre-feudale.

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    • [1] Nella circolare del 5 Giugno 1224, oltre ad essere ben manifesto che la fondazione dello Studium di Napoli riguardava soprattutto il regno ed i regnicoli, viene posto l’accento sulla posizione favorevole di Napoli, città ubi rerum copia, ubi ample domus et spatiose satis et ubi mores civium sunt benigni; ubi etiam necessaria vite hominum per terras et maritimas facile transvehuntur ( v. Fulvio delle Donne, Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum, pp. 165-166 ). Oltre alla felice collocazione di Napoli in quella zona del regno, la Campania, che era la più urbanizzata e vivace, bisogna soprattutto tener in conto la plausibilità che Federico II, nel tentativo di creare un monopolio accademico statale slegato dall’influenza papale, vedesse nella scelta della città di Napoli un vantaggio politico rispetto agli altri poli culturali della Campania quali erano Benevento, città da sempre contesa con il papato, e Capua, città che per posizione geografica era troppo vicina ai domini papali.
    • [2] Si intendono quelle norme emanate da Ruggero II di Sicilia e promulgate nelle Assise di Ariano fra il 1140 ed il 1142. Di queste leggi, che avranno fondamentale importanza per la redazione delle Costituzioni Melfitane sotto Federico II, si parlerà più dettagliatamente in seguito.
    • [3] Nel ducato di Amalfi i notai erano detti scribi ( dall’etimologia incerta, forse derivante dal greco skebríon e dunque sopravvivenza della precedente dominazione bizantina o dal latino scribere ); dalla seconda metà del secolo XI assunsero invece l’appellativo di curiali.
    • [4] e.g. la scrittura con cui viene vergato il testo ( in questo caso la curiale amalfitana ) oppure formule del testo ( in questo caso la sanctio che chiude il corpo della permuta, volutamente sproporzionata rispetto al reale valore dei beni oggetto di scambio): tutti strumenti volti a formalizzare l’atto.
    • [5] Sotto il principato di Gisulfo II, la città longobarda di Salerno fu assediata e conquistata nel 1076 da Roberto il Guiscardo. In seguito alla capitolazione di Gisulfo II, avvenuta nel 1077 nella rocca sul monte Bonadies dove egli si era asserragliato, il principato longobardo di Salerno cadde in mano ai normanni. Come per il ducato di Amalfi, la dominazione normanna condizionerà la tradizione notarile-giuridica del principato di Salerno.
    • [6] Il mundualdo è il titolare del mundio ( i.e. dal sostantivo proto-germanico *mundō, ossia “mano, protezione” ), termine che nel diritto germanico va ad indicare nei rapporti interni al nucleo familiare la potestà assoluta esercitata dal capofamiglia sui rimanenti membri previa garanzia di protezione.

    Note:
    Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Storia Medievale III (2019 - 2020) tenuto dalla professoressa Lidia Capo, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

    domenica 16 febbraio 2020

    Parentalia

    Come già detto Februarius è il mese delle purificazioni, l'ultimo prima dell'inizio dell'anno sacro e del ritorno di Marte.

    In questo mese le giornate si allungano visibilmente e la Luce torna a splendere ma il freddo, i malanni possono ancora tornare e tentano l'ultimo, decisivo, assalto all'Ordine.

    In un piccolo ciclo (l'anno solare) simpatetico, simboleggiante la Creazione,  il Caos precede il Solco.


    Le Parentalia erano feste private,dedicate ai defunti, tra il 13° e il 21° di Februarius per la durata di nove giorni.

    In questi giorni i templi venivano chiusi, spenti i fuochi sacri, non è propizio celebrare matrimoni e tutti devono dedicarsi al culto dei propri morti. 

    Perché il Velo fra i mondi è di nuovo labile.

    Le manifestazioni di Dèi, Geni e Demoni sono più frequenti e con esse quelle degli Dèi Mani, i nostri buoni defunti recenti, che seguono in Processione Diana e le Lase, in attesa di una nuova vita o dell'apoteosi nel Fuoco sempiterno dei Lares eroici.


    Le festività dei Parentalia si svolgevano direttamente nei cimiteri, nei quali i romani si recavano portando cibarie e offerte semplici, accendevano luci e portavano fiori, banchettando nei giardini circostanti le tombe.


    Nel corteo funebre si indossavano le maschere (appese agli alberi precedentemente durante i Paganalia e le Ferie Sementive di Gennaio) dette Oscilla, così chiamate perché oscillavano al vento fra le fronde e per questo era possibile, secondo il volere di Faunus, trarne auspici.

    Indossando le maschere si esorcizzava, attraverso una catarsi dionisiaca, la morte e si spaventavano gli spiriti maligni oltre che incarnare le sembianze di Avi illustri passati a miglior vita.


    L'associazione tra la risata anche nevrotica, in quanto arma apotropaica potentissima, e il raccapriccio della morte è ancestrale

    E dimostrata anche dalla figura primordiale e beffarda di Phersu, ritratta  con un cane e un bastone in diverse tombe etrusche e intenta a torturare oppure a giocare col defunto. 

    Un etrusco antenato di Hellequin(Arlecchino) e Pulcinella.


    Articolo di Gianluca Vannucci, su gentile concessione 

    Affrontare l’età del lupo

    L’età del lupo, l’età del ferro, il Kali Yuga, vi sono molti nomi per descrivere l’epoca che stiamo vivendo e che, se davvero siamo animati da sentimenti alti, dobbiamo affrontare, nomi creati da popoli con una concezione del sacro assai più alta di quella attuale ed una consapevolezza del funzionamento dei cicli delle ere assai più profonda.
    La nostra è un’era oscura, nella quale le forze del Caos tendono a predominare degradando, rovinando e corrompendo tutto ciò che riescono a toccare. Una opposizione è però ancora possibile, e numerosi sono gli esempi luminosi che la punteggiano: Greci, Romani, Germani, Indiani e ancora Macedoni e Persiani, solo per rimanere in ambito indoeuropeo, furono tutti in grado di costruire società sane e saldi e di opporre un saldo argine al dilagare delle forse del Caos, fintanto che mantennero salde la propria etica e la propria spiritualità, almeno. 
    È sintomo dell’età del lupo infatti la degradazione di queste sue qualità, che nel caso specifico dei popoli indoeuropei coincidono in quanto etica e religione sono un tutt’uno. 
    Quando una società sana si degrada il Caos fa nuovamente la sua apparizione e con esso le sue piaghe fatte di materialismo, corruzione e conflitti sanguinosi e senza sacralità (e quindi senso) alcuna. 
    Le guerre diventano territoriali, gli stati, da organizzazioni strutturate sui valori di fedeltà e reciproca assistenza, divengono nazionali e slegati da qualunque ottica che non sia burocratica od economica. 
    Si passa quindi da una società organica, di tipo capillare, che come il corpo umano funziona in maniera simbiotica, ad una dis-organica, basata sul semplice dominio della ricchezza e della burocrazia atta a garantire il potere a chi gestisce la stessa. 
    Eppure, come insegna il mito, è ancora possibile reagire e costruire strutture più salde, l’esempio più luminoso, che permise il ritorno di una, seppur breve, età dell’oro viene dagli eroi e dall’età che è loro dedicata. 
    Vi fu infatti un tempo in cui una stirpe bronzea (ovvero relativa all’età del bronzo) riuscì ad elevarsi e guadagnare per il proprio tempo l’appellativo di “piccola età dell’oro”. 

    Essi, semi Dèi, hanno dato a noi figli degli uomini un esempio luminoso, in grado di travalicare i tempi, capace di scuotere dal torpore e far tendere nuovamente a qualcosa di più alto.
    Tramite l’ideale eroico è possibile infatti ricreare un ordine sacro, a gloria degli Dèi immortali e della nostra gente. 
    Esso deve quindi essere trasmesso, narrato e preservato anche in tempi come i nostri, sopratutto in tempi come i nostri nei quali ogni barlume di onore, forza e genuina esaltazione sembra essere spazzata via dalla fangosa melma uniformante della modernità universalista. 
    Questo è il nostro compito, e la nostra lotta, siatene più che mai consapevoli.

    martedì 11 febbraio 2020

    Gli anelli del potere pdf

    Bentornati a tutti voi, vi presentiamo, raccolto in un unico testo, il trattato di Fabrizio Bandini dedicato all'universo, fantastico ma ben più "vero" di quanto non sembri, creato dallo scritto JRR Tolkien.

    Buona lettura.

    https://drive.google.com/open?id=1dKbUk9AiMaUN3GDukzQqBkzTWBN67NIb

    Educazione al mito

    Il ruolo del mito nelle società arcaiche era tutto fuorché meramente narrativo, dimensione questa nella quale noi contemporanei, a partire dalla cristianizzazione e dalla successiva, se non proprio conseguente, laicizzazione, lo abbiamo confinato.

    Il mito, rappresentazione simbolica della verità arcaica, in una società sana vive di forza propria, esso è libero di espletare completamente ed efficacemente il proprio ruolo, che è spirituale ed educativo. 

    Tramite il mito e la sua reinterpretazione un giovane ha modo di entrare in contatto con gli eroi dei tempi passati, di trovare una chiave di lettura del mistero della vita e della morte per tramite degli Dèi immortali.


    Achille, Beowulf, Perseo, Sigurd… non sono solo asettici personaggi creati dalla fantasia di uno scrittore, essi sono eroi, potenze di altissimo valore spirituale alle quali tributare culto e onori e a cui interfacciarsi il prima possibile, ed in ogni modo. 
    Per questo è necessario che i nostri tempi riscoprano la centralità del mito, che ne facciano non solo un esempio ma il fulcro di tutto il nostro sistema sociale ed educativo poiché in essi vi sono istruzione e guida, principi sacri ed eterni per la formazione dell’uomo che verrà.

    Il racconto orale, in quanto di comunicazione forma più pura, rappresenta la via privilegiata per la trasmissione di questa sapienza, in esso vivono e vibrano le voce dei nostri antenati, che tramite questo mezzo hanno trasmesso per centinaia di migliaia di anni conoscenze e saggezza. 

    Imparate a narrare, onorate gli Dèi immortali e lottate per una nuova ed eterna età dell’oro. 

     

    domenica 2 febbraio 2020

    Muro di scudi

    Ovvero dell’importanza della comunità nella vita e formazione dell’uomo.


    Fra i molti inganni a cui sono sottoposti di questi tempi malati i figli degli uomini ve n’è uno che, più di ogni altro, risalta agli occhi di un osservatore attento: l’atomizzazione della nostra società, sempre più composta da individui isolati, persi in sé e nella proiezione del sé, svincolati da ogni legami duraturo. 

    Il ritratto di questi vagabondi 2.0 è però assai desolante: uomini deboli, persi in vizi e perversioni, incapaci di controllarsi e preda di ogni moda effimera. Uomini sradicati, quindi, privi di guida e scopo, soli e pronti a piegarsi ad ogni capriccio dei padroni del vapore di turno. 

    Ma è l’unica scelta possibile? No, non lo è. Fra i molti insegnamenti che la storia dei nostri antenati vi ha dato vi è quello relativo alle formazioni militari, dalla falange greca al muro di scudi germanico l’insegnamento che si può trarre è uno: l’uomo solo cade, la formazione resiste. 

    Anche spiritualmente la questione non è diversa, a tutti noi, alla maggior parte di noi in realtà, è capitato di cominciare la pratica di fede in maniera solitaria, seguendo un impulso sano teso a qualcosa di più alto della mera dimensione umana, chiamati dagli Dèi all scoperta degli antichi misteri. È normale che sia così, di questi tempi, questo però non deve convincerci che non vi sia alternativa alla pratica individuale. Non è certo facile, ma sta a noi ricostruire ogni cosa, siamo la prima generazione ad avere mezzi ed opportuni per restaurare la dimensione comunitaria e pubblica della nostra fede, è una responsabilità che può essere solo ed esclusivamente nostra. 

    Rinunciare a farlo significa lasciare questa dimensione nelle mani di mercanti di anime, monolatri o meno che siano, e questo rappresenta una colpa nei confronti degli Dèi e del culto. 

    Fate la vostra parte, lottate come potete, ed il culto degli Dèi immortali tornerà a fiorire in questa terra di mezzo. 


    Hailaz Wodanaz!