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lunedì 27 maggio 2019

Speciale divinità germaniche

Il mio benvenuto a tutti voi, eccovi il nostro nuovo pdf stampabile dedicato alle divinità proprie delle genti germaniche.
Che gli Dèi vi guidino.

Hailaz Wodanaz!

https://drive.google.com/file/d/1ItVE74faV5b3GZZ3IShzsgT5rU8MPEJK/view?usp=sharing

venerdì 24 maggio 2019

Il sacro-popolare e militare nel Giappone Feudale, parte III

I monaci contadino-guerrieri non si limitarono però ovviamente al perseguimento della terra pura nella prossima reincarnazione ma combatterono con estrema violenza affinché il loro Giappone martoriato dalla guerra e dallo strapotere della classe aristocratica potesse diventare esso stesso una terra pura, e furono ben lungi (come già premesso più volte) dall’essere una macchietta o uno strambo risultato di quei tempi turbolenti.

Nel 1488 riuscirono a ottenere il controllo dell’intera provincia di Kaga, nel 1528 inferociti più che mai decisero di marciare direttamente verso la capitale, Kyoto. Durante questa marcia la loro visione fu cosi terrificante che come ci racconta il famoso storico Stephen Turnbull “La presenza dell’armata di difesa della capitale non fu sufficiente per contenere lo Shogun, che preferì la fuga”. Dopo una successione di scontri, sconfitte e vittorie militari nei 50 anni successivi la setta, grazie al fanatismo estremo, al totale disprezzo della vita in battaglia e alla retorica dedicata ai più svantaggiati diventò una potenza affermata e temibile, che preoccupava seriamente i signori della guerra.
Uno tra tutti, figura famosissima in Giappone (ma grazie all’industria videoludica anche in occidente) fu Oda Nobunaga, il Re demone, che giurò di massacrare i fanatici dello Jōdo Shinshū ovunque essi si trovassero. E fu proprio lui a dare il colpo di grazia alle aspirazioni sovversive e rivoluzionarie della setta. Dopo 10 anni di continue battaglie (la famosa guerra di Ishiyama Hongan-ji) e con l’obbiettivo dichiarato di distruggere le reti economiche e di potere che tanto fastidio stavano arrecando alle aspirazioni di Oda, lo stesso riuscì ad indebolire/ distruggere gli alleati e le aspirazioni espansive della setta, assediando le due fortezze principali degli stessi, Ishiyama Hongan-ji e Nagashima. Fu proprio dalle manifestazioni di violenza che il Daimyō utilizzò contro i monaci che ottenne il soprannome di Re-Demone, si calcola infatti che non ebbe il minimo timore di massacrare i monaci e di bruciare i loro templi con grandi esibizionidi crudeltà (la più famosa fu sicuramente compiuta nell’assedio del Monte Hiei).
Ridotti allo stremo, senza più alleati ed incapaci di poter rispondere militarmente allo strapotere di Oda (pur riuscendo ad opporre una violentissima resistenza nel corso della loro storia) la setta fu costretta a capitolare nel 1580. La strada per la riunificazione del Giappone era di nuovo aperta.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

giovedì 23 maggio 2019

Il sacro-popolare e militare nel Giappone Feudale, parte II

Non sappiamo precisamente il perché gli Yamabushi unissero a queste pratiche anche quella militare (buyu) anche se possiamo dedurre che venissero svolte come protezione dai samurai e dalle varie bande criminali che infestavano quelle zone. Per quanto abili in varie tipologie di armi come per esempio l’arco, spade e pugnali la loro arma preferita (proprio come sarà per i Sōhei) fu la naginata, un’arma che ricorda i falcioni europei e il Guan-Dao/Dadao cinese.

È importante sottolineare, a scanso di equivoci, come gli Yamabushi non furono una massa di pseudo-santoni resi aggressivi dal clima del tempo, ma spesso di distinsero in battaglia come (se non meglio) i veri e proprio guerrieri professionali. Ricordiamo per esempio L’abate Soshin e per la sua abilità tattico-militare e l’abate Sessai Choro che fu insegnante del futuro unificatore nazionale Tokugawa Ieyasu e aiutò sempre a livello militare Imigawa Yoshimoto.

Per quanto riguarda la rivolta degli Ikkō-Ikki dobbiamo invece notare come la loro origine possa essere fatta risalire alle prime rivolte popolari contro lo Shogunato Ashigaka. Già in questa prima serie di rivolte si inizierà a dimostrare la forza militare dei contadini inferociti che spesso riuscirono ad evitare, grazie alla forza dei loro eserciti “improvvisati” la riscossione delle tasse da parte degli esattori imperiali, nonostante le scorte armate al seguito degli stessi. Anche i più piccoli e modesti villaggi riuscivano a volte a difendersi e a contrattaccare le forze imperiali: ricordiamo infatti quando nel 1428 e nel 1485 gli anziani a capo dei villaggi nelle province di Omi e Yamashito furono a capo di rivolte contadine contro il già citato Shogunato Ashigaka, reo di non essere in grado di proteggerli dalle incursioni ed ebbero successo per più di 7 anni. Possiamo inoltre ricordare l’eroica resistenza dei contadini nella rivolta della provincia di Echizen contro le armate del nobile Asakura, dove i buke, ossia i guerrieri professionali inviati dal nobile, ebbero non poche difficoltà nel reprimere quella che doveva inizialmente essere una semplice seccatura. La figura principale messa a capo degli Ikkō-ikki fu il monaco Rennyo, capo della setta Jōdo Shinshū.

Gli Ikkō-ikki seguivano in modo fanatico e violento il Buddhismo della terra pura (la setta con più fedeli al mondo fra l’altro, più di 200 milioni, soprattutto in Cina), un enorme ramo del Buddhismo Mahāyāna, che prevedeva la venerazione e l’invocazione della figura del Buddha Amida (o Amitābha) come principio del Buddha eterno, ossia della natura di Buddha stessa.
La caratteristica principale di questa corrente è la poca enfasi che viene data, a differenza per esempio della scuola Theravada, alla realizzazione e all’esercizio personale nella via spirituale, i buddhisti della terra pura credono infatti (in un modo che può ricordare alla lontana il nostro Cristianesimo) che l’invocazione del mantra “Namu Amida Butsu” recitato con puro spirito di devozione li porterà una volta morti alla rinascita in una delle numerosissime terre pure esistenti ed abitate da Buddha e Bodhisattva illuminati, dove potranno ricevere i preziosi insegnamenti degli stessi e dove potranno finalmente raggiungere il Nirvana supremo. 
Narra infatti il sutra della vita infinita che lo stesso Buddha Amida fece questo supremo voto: 

«Se, quando otterrò la buddhità, gli esseri senzienti nelle terre delle dieci direzioni che sinceramente e pieni di gioia si affidano a me, desiderano di rinascere nella mia terra, e chiamano il mio nome, almeno dieci volte, non rinasceranno nella mia terra, io non voglio ottenere la perfetta illuminazione.»

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

mercoledì 22 maggio 2019

Il sacro-popolare e militare nel Giappone Feudale, parte I

Tra l’inizio e la fine di quel periodo di violentissima guerra totale nel quale sprofondò il Giappone (il famoso periodo Sengoku o periodo degli stati belligeranti) avvenne nello stesso un fenomeno del tutto nuovo nella terra del Sol Levante e che porterà non pochi problemi alle ambizioni della classe guerriera-aristocratica guidata dai Daimyō.

Il clima di estrema violenza infatti fece si che scoppiassero delle rivolte intente a minare il tradizionale ordine sociale Giapponese; queste rivolte (poi unitesi in un'unica fazione chiamata “Ikkō-ikki”) furono l’unione di due istanze separate: quella dei Samurai poveri e provenienti dalle campagne (I Jizamurai) che nel XIII sec. formarono la loro lega (Ikki appunto) per la difesa dei propri interessi economico-sociali minacciati dalla classe urbana e aristocratica e quella del clero militante incarnato principalmente nella setta “Ikkō-shū”.

La figura del monaco-guerriero, molto cara all’occidente con i famosissimi ordini cavalleresco-religiosi (impersonati principalmente nella cultura generale dall’ordine dei cavalieri Templari, cavalieri Ospitalieri e dai minacciosi cavalieri Teutonici) non fu però un’esclusiva dei popoli Europei ma prese piede anche nella terra del Sol Levante con due tipi principali di monaci-militanti: gli Yamabushi (colui che si nasconde nelle montagne) e dai Sōhei (monaco-guerriero).

La leggendaria figura dello Yamabushi (o Yamaoshi) è sicuramente una delle più interessanti nel panorama bellico Giapponese, gli stessi infatti erano costituiti da un insieme di monaci eremiti che viveva nelle montagne in cerca di poteri mistico-sovrannaturali attraverso la dottrina dello Shugendō e di varie pratiche ascetiche (possiamo ipotizzare una quasi certa derivazione asiatico-sciamanica e tantrica). La loro ricerca (shu) del potere (ken) venne a fondersi in una via Dō) che verrà poi rinominata Shugendō (la via ai poteri sovrannaturali). Questa pratica esoterica non ha un fondatore storicamente accertato ma lo stesso viene fatto ricadere sulla mitica figura di En no Gyōja, simile al nostro mago Merlino appartenente al ciclo Arturiano.

Si pensa che visse all’incirca nella seconda metà del settimo secolo, che fosse un laico Buddhista e che praticasse la magia; i suoi servigi e quelli dei suoi discepoli (kenja o kenza, traducibile come “maghi”) erano molto richiesti e rispettati e venivano interpellati per questioni relative alle guarigioni, predizioni del futuro e come medianisti (miko).

La loro dottrina quindi era un sincretismo tra la fede Shintoista e il Buddhismo esoterico(Shingon) o della scuola Tendai. Queste due dottrine infatti prevedevano la solitudine e la pratica di discipline esoteriche (mykkio), nel Tendai solitamente più lunghe mentre nello Shingon più veloci ed immediate come nel Buddhismo Tibetano o Vajrayāna, per cercare di arrivare all’illuminazione in questa stessa vita. Entrambe le sette consideravano la montagna come il luogo migliore per l’attuazione di queste pratiche ed è così che gli Yamabushi vennero spesso ad unirsi e ad associarsi agli stessi monaci Buddhisti locali.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

giovedì 16 maggio 2019

Su Roma

Siamo stati accusati in diverse occasioni di essere anti-romani, anti-italici, traditori della patria ed altri simili amenità.
Lungi da noi schierarci su posizioni simili, questo nostro scritto vogliamo fare chiarezza su questo punto che, abbiamo notato, è spesso stato equivocato da molti.

Noi non siamo, e non saremo mai, contro nessun popolo italico o indoeuropeo.
Mai.

Noi ci schieriamo contro una certa visione del mondo, che è quella mercantilista, utilitarista ed uniformante, nemica delle specificità di ogni popolo.
Apprezziamo e, nel caso di chi vi scrive, ammiriamo, le caratteristiche guerriere e morali che hanno caratterizzato la Roma monarchica e repubblicana fino alla conquista di Cartagine e del suo impero commerciale, ciò che non apprezziamo è ciò che ha caratterizzato nei tempi successivi la società romana ovvero un imperialismo di tipo mercantile e commerciale, che sul lungo periodo corrose la penisola togliendo ai valori virili e guerrieri il ruolo centrale che avevano ricoperto dalla notte dei tempi.
Ciò che noi sosteniamo è che un mercante non sarà mai pari o superiore ad un valoroso e che il coraggio e l’abnegazione abbiano un valore ben superiore a quello di tutto l’oro di questo mondo.
In questo quindi noi ci opponiamo alla visione pan-mediterranea di un impero mercantile basato sull’appiattimento delle identità e delle patrie a favore di un’unica realtà assimilatrice.
Noi siamo longobardi, siamo sanniti, insubri, umbri, romani e greci.
Ciò che non saremo mai è essere uguali.
Noi vogliamo marciare insieme, fianco a fianco, consci delle nostre radici e delle nostre identità contro tutti coloro che ci vorrebbero eguali, piegati innanzi ad unica società o un unico Dio.

Figli dì Wodanaz, di Cernunno o di Marte, ognuno con la sua storia e i suoi culti ma tutti uniti in un’unica lotta.

mercoledì 15 maggio 2019

Monachesimo innaturale, parte V

Bernardo di Clairvaux

“Gualtiero, conte di Nevers, morì alla Certosa, e lì venne sepolto. Bernardo accorse allora al sepolcro e poiché era rimasto a lungo prostrato a pregare, il priore lo pregò di andare a pranzare dato che era l’ora. Bernardo gli rispose: Non mi smuoverò da qui finché frate Gualtiero non mi parlerà. Ed esclamò a voce alta: Gualtiero, vieni fuori! Ma Gualtiero, che non sentiva la voce di Gesù, non ebbe le orecchie di Lazzaro e non uscì.”
- Walter Map, Svaghi di Corte

Bernardo di Fontaines (o ‘di Clairvaux’) fu il campione della riforma cistercense nel secolo XII.

Nato a Fontaine-lès-Dijon nel 1090, otto anni prima della fondazione di Cîteaux ad opera di Roberto di Molesme, vi entrò come novizio ventidue anni più tardi assieme ad una schiera di giovani cavalieri da lui convinti ad intraprendere la carriera monastica. Alla stregua di questi giovani anch'egli proveniva da una famiglia di nobili cavalieri e non dimenticò certo lo spirito che animava la cavalleria.

Per questo egli contribuì a creare assieme al cugino Ugo di Payns che ne divenne primo maestro l'ordine religioso cavalleresco dei ‘Pauperes commilitones Christi templique Salomonis' (i.e. “Poveri compagni d'armi di Cristo e del tempio di Salomone”), una nobiltà monastica votata alla lotta per Cristo che divenne poi nota con il nome di Templari. Nello scrivere ‘'Ad Milites Templi de laude novæ militiæ’ (i.e. “Sui cavalieri del Tempio, in lode della nuova milizia”) Bernardo, nel voler propagandare questo suo ideale cavalleresco, definì con un gioco di somiglianze lessicali la milizia secolare (quella laica per intenderci) come ‘malitia’ (i.e. “malignità”) dacché a detta sua favoriva il crescere della violenza, dell'orgoglio, della vanità e della sensualità. Bernardo contrappose poi alla milizia secolare l'ordine templare da lui definito come ‘summa militia’ (i.e. “suprema milizia”); mentre i membri della prima nell'uccidere il proprio nemico peccavano mortalmente dacché si macchiavano di omicidio violando così il quinto dei dieci comandamenti, i membri della seconda commettevano un “malicidio” ossia estirpavano il male pagano (nel secolo XII tutti i non cristiani erano apostrofati con il termine ‘pagano’) facendo dunque la volontà del Cristo. Partendo dal sentimentalismo allegorico che permeava l'uomo medievale - ben diverso dal sensazionalismo dell'epoca contemporanea, in quanto incentrato sul simbolo e l'allegoria - e facendo leva sul peccare dell'uomo nella vita terrena e sulla punizione in quella ultraterrena, Bernardo riuscì a riformare gli ideali della cavalleria ed a metterla al servizio dell'ideale cristiano.

Nacque così una vera e propria ‘militia Christi’ (i.e. “milizia di/per Cristo”) in difesa della religione cristiana e dei suoi seguaci, in concomitanza con la conquista portata avanti dai turchi Selgiuchidi di fede sunnita ai danni dei territori mediorientali. Sul finire del secolo XI i Selgiuchidi intensificarono i loro attacchi alle carovane di pellegrini che viaggiavano verso la terra santa rendendo così necessaria da parte di Urbano II la proclamazione al Concilio di Clermont del Settembre 1095 di un pellegrinaggio armato alla volta di Gerusalemme; ebbero così inizio le crociate.

Torniamo però a Bernardo ed ai cistercensi. Come già ricordato in precedenza molti dei monaci di Cîteaux e di Clairvaux sua prima abbazia figlia fondata da Bernardo erano stati cavalieri, addestrati alle armi, versati nella letteratura cortese e fini conoscitori dei romanzi cavallereschi. Il diffuso interesse per questo genere letterario fra i monaci dell'epoca emerge con tutta la sua prepotenza in uno stratagemma narrato da Cesario di Heisterbach ed usato da un abate cistercense per riottenere l'attenzione dei suoi monaci; segue ora il passo in questione:

“In una certa festa, durante la predica che l'abate Gervadus teneva nel Capitolo, avendo egli visto che molti, soprattutto fra i conversi, sonnecchiavano e alcuni addirittura russavano, esclamò: << Ascoltate, fratelli, ascoltate, vi racconterò ora una cosa nuova e interessante. Vi fu una volta un re, di nome Artù >> Detto questo, non andò più oltre, ma disse: << Vedete, fratelli che cosa miserevole. Quando parlavo di dio, dormivate; appena ho incominciato a parlare di cose divertenti, svegliandovi, con le orecchie ben aperte, avete cominciato ad ascoltare >> Io sono stato presente a questo sermone. Il diavolo non tenta solo gli individui spirituali ma anche i secolari con la sonnolenza.”

Non è forse questo massimo segno di come l'immaginario guerresco fosse ancora radicato fra i monaci? Esso era parte della naturale essenza dell'uomo che Bernardo cercò di mutare utilizzando ripetutamente nei suoi scritti metafore e vocaboli dell'ambito militare trasfigurandoli nel campo del divino. Nelle otto parabole di Bernardo ricorrono termini militareschi quali "spada", "freccia", "lancia" e così via, segno che persino Bernardo, campione della riforma cistercense e monaco votato al rigorismo, non riuscì a distaccarsi da quel mondo secolare della 'malitia' che tanto disprezzava ma dal quale proveniva e che tanto affascinava i contemporanei suoi.

Fonti:
- I monaci e l'amore nella Francia del XII secolo, Jean Leclercq
- Storia del monachesimo medievale, Anna M. Rapetti

martedì 14 maggio 2019

Monachesimo innaturale, parte IV

Le grange cistercensi

Nel 1098 Roberto, abate di Molesme e membro quindi dell’ordine cluniacense, giunse nei pressi di Digione ed a Cîteaux fondò assieme ad altri suoi compagni un cenobio grazie alla donazione di un nobile locale il quale alienò dal suo patrimonio un appezzamento di terra sito un’area boscosa rendendolo ‘res sacra’ (i.e. “cosa sacra”) e permettendo così la costruzione del primitivo edifico monastico dell’ordine cistercense.
Sin da subito i cistercensi mostrarono una forte ispirazione eremitica ed una forte propensione all’esagerazione; scelsero un’area in cui le condizioni di vita erano sì severe ma non tanto quanto riportato negli scritti cistercensi in quanto a Cîteaux vi era anche un piccolo villaggio con alcuni servi che vennero donati all’ordine insieme alle terre.
Come Regola scelsero quella benedettina originaria, sfrondata dalle modifiche apportate da Benedetto di Aniane ad Aachen nel IX secolo dacché intendevano seguirla ‘stricte et arctius’ (i.e. “strettamente e rigidamente”) rifiutando il possesso di rendite e diritti signorili su cose e persone.
Era questo un chiaro segno di opposizione al vetusto ordine cluniacense, il quale seguiva la regola benedettina riformata ad Aachen. Anche la scelta del proprio colore, il bianco, era ostentazione di piena opposizione all’ordine cluniacense dacché i membri di quest’ultimo da sempre si vestivano di sai neri. Nonostante le critiche che sin dall’inizio si levarono fra i cistercensi ai danni dei cluniacensi, Roberto abbandonò la comunità per tornare a fare l’abate a Molesme dove morì da cluniacense.

Come abate e guida del cenobio venne scelto l’inglese Stefano Harding il quale consolidò la comunità donandole le sue prime norme, nucleo primordiale di quella ‘Charta caritatis’ (i.e. “Carta di carità”) che venne presentata a papa Callisto II nel 1119 per la necessaria approvazione. Nel mentre, fra il 1113 ed il 1116, sorsero le prime quattro abbazie legate a Cîteaux che ne divenne abbazia madre. Dalle quattro abbazie di La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond si crearono per filiazione quattro linee generative, ognuna delle quali diede vita a nuovi cenobi o ne incorporò di già esistenti.
La novità più significativa dell’apparato strutturale cistercense fu quello di permettere a ciascuna delle abbazie figlie di eleggere un proprio abate e quindi di godere di una completa autonomia e di avere la stessa della casa madre; quello cluniacense aveva invece una struttura gerarchico piramidale con a capo l’abate di Cluny e le cellæ - gemmazioni di quest’ultima - erano poste sotto la guida di un priore.
Per ovviare al sorgere di una condizione di ingovernabilità legata all’assenza di una figura centrale, i cistercensi istituirono un’assemblea che annualmente riuniva gli abati di tutte le abbazie figlie e che aveva funzioni legislativo giudiziarie, il cosiddetto capitolo generale. Lì i vari abati giuravano assoluta fedeltà ai precetti dell’ordine secondo il principio della ‘unanimitas’. Altro strumento di governo fu la visita annuale che ogni abate padre doveva compiere nelle abbazie figlie; entrambi questi ‘instrumenta’ vennero adottati da Cluny sotto l’abate Pietro il Venerabile il quale ne riconobbe la validità. Colui che davvero fece risplendere di gloria Cîteaux fu Berardo di Fontaines (o ‘di Clairvaux’), fondatore ed abate della sua prima figlia ‘Clairvaux’ (i.e. “Chiaravalle”); di lui parleremo poi in altro luogo.

Altra caratteristica dei monaci bianchi fu quella di accogliere massicciamente nelle loro abbazie i conversi (i.e. laici religiosi i quali erano soliti svolgere lavori e mansioni del quotidiano per i confratelli del cenobio e comuni a tutti gli ordini monastici occidentali). I conversi cistercensi dovevano portare la barba al fine di distinguersi dai monaci - da qui il soprannome di ‘fratres barbati’ - ed avevano come compito principale l’amministrazione delle grange.
Il loro responsabile era sempre un converso che assumeva il titolo di ‘magister grangiæ’ o ‘grangerius’ il quale dirigeva non solo i conversi impegnati nei lavori agricoli ma anche i molti braccianti e salariati che collaboravano agli sforzi agricoli; i monaci raramente lavoravano nei campi dacché il lavoro manuale nella vita monastica medievale ebbe un’importanza più che limitata dacché fonte costante di distrazione del monaco dall’itinerario di ascesi verso Dio nonostante volessero seguire ‘stricte et arctius’ la regola benedettina che prevedeva oltre alla preghiera una minima dose di lavoro quotidiano.
All’ipocrisia testé dimostrata si aggiunge poi quella che per fare il verso al buon Bernardo di Fontaines potremmo definire, a buon diritto, vera e propria ‘malizia’.
Fondamento dell’inusitato potere economico dell’ordine cistercense fu il possesso della terra; le grange non erano appezzamenti di terra da coltivare per il sostentamento delle abbazie bensì erano vere e proprie aziende fondiarie votate alla produzione massiccia, garanzia dunque di elevati introiti monetari per l’ordine cistercense.
Per questa ragione i cistercensi furono proprietari fondiari insaziabili, mai paghi di quel che possedevano; non per nulla si guadagnarono la fama di ‘depopulatores’ ossia di distruttori di villaggi e di collettività rurali. Walter Map, intellettuale della corte inglese di Enrico II Plantageneto, nel ‘De nugis curialium’ (i.e. “Delle inezie dei cortegiani” o “Svaghi di corte”) scrisse una violenta requisitoria contro i cistercensi di cui qui riportiamo uno stralcio:

“È per loro regola abitare luoghi deserti, ed essi, se non li trovano così, li fanno diventare, per cui in qualunque luogo li chiami, scoraggiano l’afflusso di uomini e con la forza li riducono a pochi [...] e poiché secondo la Regola non possono governare i parrocchiani, distruggono villaggi, [...] non si fanno scrupolo di spianare tutto aprendo la strada al vomere.”

Il modello della grangia scardinava letteralmente l’assetto economico e sociale delle campagne circostanti dacché presupponeva l’allontanamento coatto degli antichi proprietari e lo spostamento ma più frequentemente la diretta eliminazione di tutti quegli sventurati villaggi che si fossero trovati sul suolo della stessa come accadde nei dintorni di Milano quando nel 1136 venne fondata su spinta di Bernardo di Fontaines la grande abbazia di Chiaravalle Milanese.

Fonti:
- Storia del monachesimo medievale, Anna M. Rapetti
- Svaghi di corte, Walter Map

lunedì 13 maggio 2019

Monachesimo innaturale, parte III

Evangelizzazioni forzose

Con l’avvento nell’universo monastico europeo della ‘Sancta Regula’ (i.e. regola benedettina) dettata da Benedetto da Norcia nel 534, fondamento principe della vita monacale divenne il principio della ‘stabilitas loci’ (latino per “permanenza in un luogo”) andando così a colpire quella serie di movimenti girovaghi che imperversavano in occidente.
La ‘Sancta Regula’ si diffuse in tutto l’occidente sotto l’accezione di “regola romana” arrivando a toccare l’isola dell’Irlanda la quale divenne centro di irraggiamento della vita monastica di tipo irlandese. Alla base di questo monachesimo “celtico” che nel sinodo di Withby del 664 si scontrò con quello “romano” e dunque benedettino sulla questione della datazione della Pasqua vi era la ‘peregrinatio pro amore Christi’ ossia l’evangelizzazione di genti lontane per amore di Cristo.
Fu così che nella metà del VI secolo dei monaci irlandesi fondarono il monastero di Iona sull’omonima isola di fronte alle coste occidentali della Scozia. Da lì partirono varie missioni con lo scopo di evangelizzare Pitti, Scoti ed i regni dell’eptarchia anglosassone; alcune di queste verso il 635 raggiunsero il regno di Northumbria e con l’appoggio del sovrano Oswald fondarono su un’isola della costa nord orientale il monastero di Lindisfarne, gemello di Iona.
Verso il VII secolo la confessione in forma privata - un tempo appannaggio dei soli membri dei cenobi - andò a sostituirsi a quella in forma pubblica tipica del continente su ispirazione di un sistema penitenziale del tutto nuovo proveniente dall’Irlanda alla cui base vi erano i cosiddetti libri penitenziali, opere ispirate ai codici giuridici incentrati sul principio dell’arbitrato e della compensazione. Ai penitenziali i cenobi irlandesi facevano riferimento per la confessione dei propri confratelli ed ad ogni violazione (e.g. infrangere la regola del silenzio durante i pasti, sorridere durante il servizio divino, usare le parole “mio” e “tuo”, contraddire un confratello etc.) corrispondeva una severa penitenza. Il fine di questa durissima disciplina era quella di arrivare a soffocare l’orgoglio e la sensualità per conseguire il pieno controllo di sé e la sottomissione della volontà all’unione con Dio. Fu questo il maggior contributo del monachesimo “celtico” alla diffusione del Cristianesimo.
Sempre in quegli anni, fra la fine del VII secolo e gli inizi del secolo VIII, il monachesimo dei regni merovingici, plasmato sull’esempio del monastero di Luxeuil fondato dall’irlandese Colombano, si rese protagonista di quella prima stagione d’evangelizzazione che colpì le regioni immediatamente ad est del regno franco; a differenza di quanto sostengono per ovvie ragioni propagandistiche le fonti dell’epoca le popolazioni che lì vivevano già erano entrate in contatto con il Cristianesimo date le numerose testimonianze archeologiche.
Il principale protagonista di questa operazione fu l’anglosassone Wynfrith; monaco animato da una assoluta devozione alla chiesa di Roma ed alla regola benedettina si recò a Roma nel 719 per ricevere dal pontefice Gregorio II istruzioni e sostegno per la missione evangelizzatrice in Frisia, in Turingia e negli altri territori ad est del Reno quali ad esempio l’Assia. Nel 722 venne consacrato vescovo di Germania e ribattezzato dallo stesso pontefice con il nome di Bonifacio. Nel 725, tornato in Assia con il nome di Bonifacio, fece abbattere a Geismar quella quercia che era stata consacrata a Donar. Nell’ultimo dei suoi viaggi missionari in Frisia venne giustiziato dagli autoctoni assieme ai suoi cinquanta compagni sul fiume Borne nei pressi di Dokkum il 5 Giugno 754 per i vari soprusi e le vessazioni perpetrate ai danni dei seguaci dell’antica via. Il suo operato ricevette il beneplacito dei sovrani merovingi il cui ultimo esponente, Childerico III, fu deposto nel 751 per opera del ‘maior domus’ Pipino il Breve; questi riconfermò l’appoggio della corona franca alle missioni di evangelizzazione ad est con il duplice scopo di accattivarsi il favore del pontefice e di ottenere tramite la fondazione in quelle terre tedesche ancora da conquistare di grandi cenobi (e.g. Reichenau, Echternacht e la stessa Fulda fondata dallo stesso Bonifacio), vere e proprie teste di ponte per le future conquiste.
Fra il 772 ed l’804 la Sassonia fu conquistata ed evangelizzata con la forza sotto la guida di Karolus Magnus, primo sovrano carolingio. Esemplare fu l’abbattimento nel 773 ad opera dei monaci al seguito delle armate carolingie dell’albero sacro Irminsul ed il massacro del 782 di quattromilacinquecento prigionieri sassoni nei pressi di Verden.

Fonti:
- Storia del monachesimo medievale, Anna M. Rapetti
- Manuale di storia medievale, Andrea Zorzi

domenica 12 maggio 2019

Monachesimo innaturale, parte II

Monachesimo occidentale

Quando le Regole di Pacomio e di Basilio di Cesarea vennero introdotte in occidente assieme con la ‘Vita Antonii' ed attraverso le traduzioni in latino portate avanti da personalità nell'universo cristiano che avevano conoscenza diretta delle esperienze monastiche orientali, i testi originari subirono una reinterpretazione in chiave occidentale donando così al nascente monachesimo della Pars Occidentis dell'Impero dei caratteri nuovi. A differenza del monachesimo orientale dove oramai lo strumento normativo della Regola si era da tempo affermato, il monachesimo occidentale dei primordi presentava un'estrema fluidità di forme; mentre in oriente il monachesimo aveva attecchito fra le classi meno abbienti e più rissose - basti pensare ai monaci ‘parabolani' di Alessandria d'Egitto, vera e propria milizia armata di estrazione popolare creata dal vescovo Cirillo, che nel 415 si lasciò andare a soprusi e violenze fra le quali l'uccisione di Ipazia - in occidente il fenomeno sembrò riguardare membri dell'aristocrazia senatoria, dapprima le donne poi in seguito anche molti uomini.
Le prime aree dell'occidente in cui il monachesimo germinò furono l'Italia e la Gallia meridionale in quanto quest'ultime erano le regioni più cosmopolite della Pars Occidentis dell'Impero. Tra il 350 ed il 370 tre nobili vedove romane - Marcella, Paola e Melania - decisero di tramutare le loro case in una sorta di monasteri domestici dove si dedicavano al digiuno, alla preghiera ed allo studio attività che di norma erano precluse alle donne per le quali la vedovanza era solitamente condizione temporanea in vista di un nuovo matrimonio che potesse ristabilire l'ordine familiare e che potesse offrire al nucleo familiare un nuovo amministratore dei beni materiali. Ecco che l'ascesi andava così a configurarsi come perfetta via di fuga dai vincoli e dagli obblighi familiari per queste nobili vedove, le quali davano scandalo dacché spezzavano l'asse patrimoniale alienando i beni della famiglia a favore dei poveri in una forma malsana di evergetismo. Attorno al 370 sulla scia di questa prima esperienza un gruppo di giovani donne fra le quali vi era anche la figlia di Paola, spinte dal vescovo Ambrogio, decisero di rinunciare al matrimonio e di dedicarsi ad una vita di castità scatenando la riprovazione dei loro stessi familiari i quali si videro mancare da un giorno all'altro un anello importante sul quale l'ordine familiare si basava.
In questo panorama fu Gerolamo, colui che tradusse nel 404 la Regola di Pacomio, il più acceso propugnatore della verginità femminile come condizione prossima alla perfezione minando così il fondamento stesso dell'essere umano, il nucleo familiare. In una lettera del 384 indirizzata alla figlia di Paola, Gerolamo dichiarò con freddo cipiglio calcolatore che nell'aldilà la ricompensa delle vergini sarebbe stata di cento beatitudini, quella delle vedove settanta, delle maritate soltanto trenta.
Uno dei primo casi documentati di comunità maschile in forma cenobitica fu quella di Martino, ufficiale dell'esercito imperiale sul Reno che una volta divenuto vescovo della diocesi di Tours in Gallia fondò un monastero a Marmoutier. Lì attorno a lui si radunarono uomini di buona famiglia e di cospicue fortune la cui ansia di mortificazione della carne li spinse acriticamente a spendere una mole ingente di denaro per l'importazione dal lontano Egitto di abiti rigorosamente in lana di cammello dacché la lana locale era per questi signori evidentemente tropo poco mortificante; invece di concentrarsi sulla sostanza essi si concentrarono sulla forma rifiutando di svolgere lavori agricoli i quali vennero affidati a contadini e braccianti.
Nella ‘Vita Martinii' scritta nel 396 da Sulpicio Severo si narra poi di come Martino si diede ad un'intensa opera di conversione forzosa ai danni dei seguaci degli antichi culti, spinto da proprietari terrieri i quali volevano ampliare la loro sfera di influenza socio - economica; molti templi e santuari vennero rasi al suolo per mano di Martino primo monaco nella Pars Occidentis ad essere nominato vescovo per i suoi “meriti”.
L'esperienza del cenobio di Marmoutier fu lodata da Gerolamo e dallo stesso Sulpicio Severo i quali si resero vessillo vivente di quell'uso che presto divenne tradizione ben radicata secondo il quale il monaco doveva rifiutare qualsiasi tipo di lavoro, soprattutto se manuale, per potersi dedicare interamente alle lodi del Padre che “nutre gli uccelli del cielo i quali non seminano, non mietono, non raccolgono in granai; non valete voi molto più di loro?” (Matteo 6, 26).

Fonti:
- Storia del monachesimo medievale, Anna M. Rapetti

sabato 11 maggio 2019

Monachesimo innaturale, parte I

I primordi

“L'isola è in squallore, per piena di uomini che fuggono la luce. Da sé si definiscono, con nome greco, monaci per voler vivere soli, senza testimoni. Della fortuna, se temono i colpi, paventano i doni. Si fa qualcuno da sé infelice per non esserlo? Che pazza furia di un cervello sconvolto è mai questa: temendo i mali, non sopportare i beni?”

Sono queste le parole con le quali il prefetto di Roma Rutilio Namaziano nel 414 descrisse quegli asceti che vivevano sull'isola di Capraia nell'arcipelago dell'Elba; così come gli altri intellettuali della classe aristocratico - senatoria che erano rimasti legati agli antichi dei di Roma anche Namaziano guardava a questa nuova dimensione della vita religiosa cristiana con riprovazione e naturale disgusto.
Sin dal 270, anno in cui un ricco contadino egiziano di nome Antonio fece della anacoresi (da ἀναχώρησις greco per “ritirarsi”) nel deserto la sua vocazione, l’ideale del perfetto cristiano mutò. L’età delle persecuzioni ai danni dei cristiani condotte per ordine delle alte autorità romane era oramai prossima al termine; tre soli anni separavano il 310, anno del ritorno dell'eremita Antonio alla vita secolare, da quel rescritto di Costantino che fece del Cristianesimo ‘religio licita' (i.e. “religione tollerata”) ed alla figura del ‘martyrus' (“testimone” dal greco) sino ad allora incarnazione dell'ideale del perfetto cristiano ma ora non più conciliabile con i tempi mutati si venne a sostituire quella dell'anacoreta grazie anche alla diffusione virale della ‘Vita Antonii' unica biografia di quell'Antonio di cui si era parlato in precedenza, scritta dal suo seguace Atanasio.
Dalle prime esperienze proto cenobitiche (da κοινός βίος greco per “vita comune”) delle laure (da Λαύρα greco per “cammino stretto” / “grotta”, colonie di anacoreti che vivevano in grotte / capanne collegate fra loro da edifici di uso comune sotto l'auctoritas di un superiore) protagoniste indiscusse del cosiddetto “turismo monastico” ne scaturì il monachesimo regolare su impronta cenobitica; basti pensare a Pacomio e a Basilio di Cesarea i quali tramite la stesura delle prime norme di carattere organizzativo dette ‘Regole' - da qui il termine “monachesimo regolare” - per le comunità da loro fondate diedero origine alla vita cenobitica strutturata, ponendo quest'ultima in netta opposizione con la vita non regolare del clero secolare.
La Regola di Basilio di Cesarea pur non essendo propriamente un testo normativo in quanto raccolta di precetti ed esortazioni rivolte ai suoi confratelli del cenobio da lui fondato a Cesarea è importante per comprendere la portata di questo fenomeno religioso. Affianco all'obbligo del lavoro per sostenere la comunità, all'attività caritativa, all'obbedienza assoluta al superiore Basilio definì i rapporti fra ecclesia e cenobio; centrale era la sottomissione del cenobio al vescovo della diocesi in cui il cenobio era sorto.
Quel complesso sistema di valori naturali che sino ad allora aveva definito l'individuo del mondo antico venne visto da questi nuovi asceti della solitudine come l'ostacolo principale al cammino di perfezionamento di sé; è questa la cosiddetta ‘fuga mundi' (latino per “fuga dal mondo”) ossia il distacco completo del monaco dalla famiglia e dalla società. Per questo sin dai primordi gli scrittori cristiani esaltarono il celibato come condizione indispensabile alla vita monastica, vita che doveva essere libera da cure e preoccupazioni proprie della vita secolare al fine di potersi occupare solamente delle cose di Dio. Ecco che qui si palesa il secondo pilastro della manifestazione ascetico - monacale, il ‘contemptus mundi' (latino per “disprezzo del mondo”) ossia il rifiuto categorico di seguire l'ordine naturale delle cose che spinge a ritenere aberrante una possibile vita familiare.

Fonti:
- Il cammino di Cristo nell'Impero romano, Paolo Siniscalco
- Storia del monachesimo medievale, Anna M. Rapetti

venerdì 10 maggio 2019

Il selvatico dentro di noi

“Ego sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura” (Sono un uomo selvatico per natura, a chi mi offende faccio paura) frase in dialetto orobico presente in un affresco su un edificio del XV secolo situato a Sacco di Cosio Valtellino raffigurante, appunto, un uomo selvatico.

Il progresso ha portato vantaggi in moltissimi aspetti della vita. Senza di esso non potrei scrivere questo articolo, sarebbe difficile comunicare con persone lontane, ora c’è la possibilità di cercare ciò che si vuole con un semplice “click” (ma anche di finire per il medesimo motivo vittima di ciarlatani presenti nel web) e con il passare del tempo la medicina ha fatto passi da gigante migliorando la condizione di vita di ognuno di noi.
Da una parte abbiamo malattie debellate e l’alfabetizzazione in netto aumento (basti pensare ad un confronto con gli inizi del secolo scorso) ma dall’altro lato vi è il rovescio della medaglia: patologie prima quasi inesistenti, una di queste la depressione, sono protagoniste della società occidentale sempre più frenetica e infantile, L’ omologazione culturale con la conseguente distruzione di quel ricco bagaglio storico che ogni nazione, ogni singola città e quindi ogni singolo cittadino si porta dietro. Vi è poi la perdita di contatto con la terra e con i relativi benefici che da essa si possono trarre, completa delegazione del lavoro alle macchine e mentalità industriale con sprechi annessi (non mi sorprende se un bambino pensasse che il cibo sulla tavola venga “creato” direttamente in un supermarket e non dal sudore di un allevatore o un contadino).
Questa vita comoda va a creare una mentalità che rigetta qualsiasi cosa non venga ritenuta giusta, spesso perché presenta retaggi antichi o va semplicemente al di fuori della bolla di sapone fatta di una finta bontà e di uno sterile e incoerente pacifismo. È così che i benpensanti, vera milizia pezzente dei nostri tempi, condannano alla gogna mediatica ogni forma di dissenso che possa scuotere le loro esistenze vacue.
Con il passare del tempo sembra che gli umani abbiano dovuto indossare una maschera per essere eticamente accettati dagli altri, rinnegando ciò che c’è più di naturale in questa terra di mezzo, come il farsi una famiglia, essere attaccati al suolo o semplicemente a un’idea che non riguarda puramente qualcosa di materiale ed essere di conseguenza definiti degli esaltati.
A tutto ciò si contrappone l’uomo selvatico che in misura più o meno grande è presente in tutti noi.
L’uomo selvatico nel medioevo era descritto come un uomo molto peloso che viveva emarginato dalla civiltà (spesso per scelta propria), dotato di conoscenze che gli consentivano di vivere in natura e usufruire dei prodotti della terra cosa che era difficile per i civili.
I contadini e i pastori imparavano molti segreti ma quando era in procinto di svelargli quelli più importanti diventava vittima di qualche scherzo e preso in giro faceva ritorno alla sua vita solitaria.

Condurre uno stile di vita del genere è improponibile, a meno di non voler rigettare completamente la civitas, ma ciò che voglio evidenziare e come l’essere umano sia stato sempre trascinato da due correnti opposte, da un lato avevamo lui con i suoi segreti e la caverna in cui abitava, dall’altro i suntuosi castelli e gli affreschi; ciò spiega il fascino che ognuno di noi prova nello stare in un bosco o vedere una cascata e allo stesso tempo coltivare passioni del tutto diverse come quella automobilistica per esempio.
Non si tratta di fare una scelta tra le due vie, occorre vivere del proprio secolo, ma di conciliarle nel rispetto di entrambe creando un equilibrio dove possono dare il loro massimo.
È in questo, anche in questo, che rinasce lo spirito tribale.

Fonti: Medioevo misterioso n.7 pp 71-75.

sabato 4 maggio 2019

Lupi/guerrieri lupo (Úlfheðnar), parte III

Altro metodo di trasformazione sta nell'utilizzare oggetti particolari (una pelle di lupo che fa perdere la ragione). Nella saga dei Volsungar (opera in prosa scritta in Islanda nel tardo XIII secolo, un classico dell’epoca germanica) Sinfjotli e il padre Sigmund trovano due pelli di lupo in una casa in mezzo alla foresta, le indossano e diventano lupi per dieci giorni, correndo e parlando proprio come lupi. Per fortuna, allo scadere del decimo giorno, il maleficio si esaurisce e recuperano forma umana, bruciando le pelli e interrompendo la maledizione.
Olaus Magnus compì un lungo viaggio (1518), come legato pontificio, nel Nord della Svezia, in visita alle esigue comunità cristiane dell'epoca, immerse in un ambiente ancora essenzialmente pagano. Come Arcivescovo di Uppsala, scrisse che i licantropi della Livonia diventassero tali dopo aver bevuto un preparato speciale a base di birra e aver pronunciato un incantesimo specifico (“Historia de gentibus septentrionalibus" - 1533).

[…]la notte medesima con meravigliosa ferocità incrudeliscono, e contro la generatione humana, e contro a gl’altri animali, che non son di feroce natura, che gl’habitatori di quelle regioni patiscono molto più danno da costoro, che da quei che naturali Lupi sono, non fanno. Percioche, come s’è trovato, impugnano con meravigliosa ferocità a le case de gl’huomini, che stanno nelle selve, e sforzansi di romperle le porte, per poter consumare gl’uomini e le bestie che vi son dentro[…].
(traduzione dal latino di Remigio Fiorentino, Venezia, 1561) E' interessante notare come la trasformazione volontaria è innescata anche senza luna piena.
Quando l’intervento non è divino e non legato alla figura negativa del lupo e ad una maledizione, troviamo l’intervento degli sciamani e il grande rispetto che hanno per questo animale totemico e le radici profonde per cui è venerato e ammirato.
Gli uomini-lupo rivestono grande importanza nella mitologia e nella cultura germanico scandinava. È necessario rimarcare la differenza tra licantropi in senso stretto (ossia uomini che, come Licaone, mutano il proprio corpo fino a divenire lupi), in norreno noti come vargulfr (varulfur-Licantropo), e gli ulfhednar, che, nonostante l’atteggiamento aggressivo e bestiale che li domina, rimangono comunque uomini.
Nella saga di Egill (XIII sec.) e nel Landnámabók (manoscritto sulla colonizzazione islandese) troviamo, Kveldulfr (“lupo della sera”), un personaggio noto e ricorrente in altre saghe islandesi. La sera si incupiva sempre ed andava a letto presto; venne così considerato un mutaforma.
È interessante notare che l’attivazione della trasformazione è dovuta a stregoneria (la saga dei Volsungar) o all'indossare delle pelli di lupo, un chiaro riferimento agli ulfhednar, il cui nome significa proprio “casacche di lupo”(G.C. Isnardi: “corto capo di vestiario senza maniche con cappuccio di pelle”), un clan di guerrieri che, che riprende antiche pratiche sciamaniche diffuse nelle società di caccia e raccolta. La connotazione negativa della trasformazione in lupo, con tutte le efferatezze compiute dall'animale, risente delle politiche missionarie messe in atto dal Cristianesimo per convertire i nordici pagani, deridendo, infamando e criticando le loro tradizioni giudicate barbare.
Vedi anche la piastra di bronzo, che probabilmente decorava un elmo, rinvenuta a Torslunda in Oland (Svezia), risalente al V-VI secolo, dove è raffigurato un guerriero con un corpo umano su cui è innestata una testa di lupo.
L’indossare pelli di lupo non è prerogativa di questi gruppi guerrieri nordici, lo sappiamo. Basta ricordare Aita, Dio etrusco, i druidi, gli Hirpi Sorani o il troiano Dolone che, nell'Iliade, prima di un combattimento indossa la pelle di un lupo canuto, per assumere le caratteristiche dell’animale.
Ciò che è singolare, e unico di questi clan, è il livello di convinzione raggiunta, nonché l’efferatezza delle loro azioni, probabilmente indotta dalle bevande che assumevano e amplificata successivamente dalla letteratura cristiana.

Hrafnsmal, la ballata del corvo, antica saga del X secolo attribuita a Thorbjǫrn Hornklofi, li descrive così: Wolf-skinned they are called. In battle They bear bloody shields. Red with blood are their spears when they come to fight. They form a closed group.

(Estratto da “Chronicles of the Vikings”, di R.I.Page, Toronto, Canada: University of Toronto Press, 1999)

Le origini di questa classe di guerrieri-belva affondano nei loro antenati germani. Basta leggere un passo del De origine et situ Germanorum di Tacito (libro XLIII):
“Truci di aspetto, accrescono la loro naturale ferocia con l’arte e con la scelta del tempo. Hanno scudi neri, corpi tinti; per combattere scelgono le notti oscure; il solo orrore di questo esercito di fantasmi semina lo spavento, poiché non vi è nemico che sostenga il loro aspetto straordinario e quasi infernale.” (conosciuti anche come guerrieri ombra/fantasma).
Il passaggio dalla “Germania” alle terre nordiche è naturale, come la commistione a tradizioni sciamaniche di provenienza finnica. Giovanni Pagogna in un interessante articolo analizza la società finnica “ancora fortemente tribalizzata e legata alla natura da un rapporto simbiotico, dato che le difficili condizioni della loro terra ostacolavano l’agricoltura e spingevano a uno stile di vita basato su pastorizia nomade di renne e caccia, raccolta e baratto”, per cui gli sciamani “credevano infatti di potersi trasformare in orsi, lupi, renne o pesci, similmente a ciò che tramandano alcune saghe sui primi berserkir e ulfhednar, che combattevano sotto le sembianze del loro animale sacro”. Questo furore i romani lo battezzarono “furore teutonico” e lo disprezzavano, in quanto la furia era opposta all'insieme dei loro valori di disciplina, controllo di sé e impeccabilità. La furia rendeva gli uomini delle bestie, azzerando la loro dignità e sprofondandoli verso gli istinti più primordiali e incontrollati, anche grazie al loro addestramento psicofisico per resistere al dolore. La loro efferatezza dipendeva anche dalle capacità dello sciamano di istillare tale convinzione nella mente degli iniziati. Inizialmente questi clan erano guardati con ammirazione, quasi fossero i depositari della sapienza guerriera e del furore divino, poi con l’avvento del Cristianesimo le genti del nord mutarono il loro atteggiamento verso i “consacrati a Odino”, che vennero etichettati come pazzi indemoniati, malati di mente o addirittura servi del demonio. - Considerazioni finali La figura dell’uomo lupo e della sacralità che riveste l’animale totem per questi guerrieri è stata totalmente stravolta. L’evoluzione della società ha iniziato a demonizzare la figura del lupo non più ammirata ed imitata ma bensì scacciata, ed il cristianesimo ha finito per distruggere l’importanza che la figura del lupo ricopriva per le antiche popolazioni e tutti gli scritti che ci sono arrivati (vedi i nomi dei lupi di Odino) sono stati totalmente stravolti nel periodo in cui il cristianesimo si era affermato in quei territori.
L’uomo lupo nelle antiche popolazioni è molto più nobile di un cane rabbioso.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz




Nota dell'autore:

La parte da sottolineare, è il fatto che per essere affini allo spirito lupo - e non necessariamente guerriero nel vero senso della parola - non è obbligatorio uccidere un lupo ed indossare la pelle; ovviamente se ci si definisce guerriero, bisogna allenarsi come un guerriero.
Un individuo che pesa 300kg ed il massimo sforzo che riesce a compiere è quello di mangiare ciambelle sul divano, o è un lottatore di Sumo - ed anche se fosse un lottatore di Sumo, dubito che fisicamente potrebbe essere assimilato ad un lupo - o è un pagliaccio; stesso è il ragionamento da farsi se un individuo pesa 50kg bagnato.
Alcune cerimonie - anche moderne, ma che rimangono abbastanza segrete per evitare i curiosi, "per dirla in maniera gentile" - decretano il proprio spirito animale, a seguito di interventi dell'animale stesso o comportamenti anomali (e.g. la persona torna accompagnato per una parte di strada dall'animale, o viene aiutato a sopravvivere dall'animale - sottolineo sopravvivere nel vero senso della parola, poiché si sta nei boschi anche mesi - o in generale, c'è un forte intervento dell'animale stesso).
Quanto avete appena letto è ovviamente detto in modo semplicistico; non confondiamo simili manifestazioni con accadimenti del tutto banali che spingono ad un triviale logicismo (e.g. "il lupo al Bioparco mi ha guardato, allora sono un lupo").
Scrivo questo perchè è giusto comprendere che queste "regole" sono rigide ma al tempo stesso variabili e spero che le persone non le interpretino banalmente.

venerdì 3 maggio 2019

Lupi/guerrieri lupo (Úlfheðnar), parte II

Con l’avvento e la diffusione del cristianesimo, subiamo un'ulteriore accelerazione della caccia al lupo, poiché si vede l’unione tra uomo e lupo come sottomissione al demonio. Nella Bibbia i lupi vengono indicati come simboli di avarizia e distruzione, Gesù è il buon pastore che protegge il popolo/gregge dai lupi e che la letteratura cristiana successiva elabora questo passaggio dichiarando i lupi ostili e legati al demonio.
Proprio in questa fase la figura dello sciamano e la sua sapienza, vengono etichettate come magia/stregoneria e quindi condannata. Per estirpare tutto ciò la chiesa utilizza qualsiasi mezzo, dalla propaganda popolare all'istituzione di tribunali (e non solo), raggiungendo il culmine nei primi due secoli dell’era moderna (1492). Rintracciamo tutto ciò anche nel noto “malleus-maleficarum (1486)” che vede i lupi come emissari di satana. Questo ha dato inizio ad un vero e proprio massacro di tutti i lupi europei e delle streghe; Isteria di massa (Henry Boguet, giudice ben noto di Saint-Claude (1596-1616), condanna centinaia di uomini e donne accusandoli di poter mutare in lupi).
La fiaba “Le Petit Chaperon Rouge” di Charles Perrault, del 1697, segna la definitiva demonizzazione del lupo nell'immaginario popolare. (tralascio in questo post tutta la parte della cinematografia moderna, la quale ha inventato la creatura ibrida per maggiore spettacolarizzazione).

Da questo breve preambolo passiamo ora al vivo della questione "Úlfheðnar"
Gli Úlfheðnar (al singolare Úlfheðinn: letteralmente, «vestiti di lupo») erano guerrieri della mitologia nordico scandinava. Così come dice il nome, questi leggendari guerrieri si coprivano esclusivamente con la pelle del lupo da loro ucciso per ricevere tale nomenclatura (altre figure di lupi guerrieri non usano ricoprirsi con la pelle, ma con cinte di pelle di lupo). Sono diventati famosi grazie al loro impeto guerriero che, per la mitologia, veniva ceduto loro dal dio Odino e dall'animale totemico, il lupo. Questi guerrieri estatici, prima del combattimento, assumevano: birra, un estratto di amanita muscaria e digitale (ancora oggetto di studio e approfondimento). Questo mix dava loro allucinazioni, comportava anche aumento della temperatura corporea, del battito cardiaco e dell'adrenalina. Dopo aver assunto queste sostanze, festeggiavano sino allo stremo e da lì si lanciavano in battaglia. A differenza dei Berserkir, gli Úlfheðnar combattevano in gruppo (appunto essenziale per non definirli sciamani, se così fosse esisterebbero interi villaggi di sciamani), proprio come lupi.
Molti associano i due animali totemici di Odino (Geri e Freki dal nordico "avaro" e"ingordo") ed i loro nomi per descrivere questi nobili guerrieri e temibili e per tracciarne le caratteristiche.

È necessario ai fini della narrazione aprire una piccola parentesi che prenda in considerazione altri esempi sulla questione "uomini-lupo"
Esistono in molte culture gli uomini-lupo, e molto è scritto delle trasformazioni da uomo a lupo. Molte di queste trasformazioni vengono indotte da intervento divino che sovverte l’ordine naturale delle cose (in tutte le culture gli dei sono dei trasformisti). Pensiamo agli Dei d’Egitto, a quelli della Grecia - Zeus su tutti - ma anche a Odino. Il pastore viene mutato in lupo dalla Dea Ishtar, Licaone da Zeus.
A San Patrizio fu affidata da papa Celestino I l'evangelizzazione delle isole britanniche e specialmente dell'Irlanda. Nel 431-432 iniziò il suo apostolato in terre irlandesi, all'epoca quasi interamente pagane. A lui si deve la diffusione del Cristianesimo in Irlanda - seppur ispirato al paganesimo celtico- e maledice intere popolazioni pagane trasformando in lupi il re gallese Vereticus e i suoi seguaci. Sono trasformazioni non volute, scagliate come punizioni divine per comportamenti errati.
Erodoto (Storico greco nato nel 484 a.c. e già influenzato dalla figura negativa che il lupo aveva assunto) descrive il popolo di Neuri come stregoni che, una volta l’anno, diventano lupi, concetto ripetuto anche da Pomponio Mela. In Bisclavret, uno dei dodici Lais di Maria di Francia, il licantropo è intrappolato in forma lupesca dalla malvagità della moglie; nel Guillaume de Palerne (poema francese del XIII secolo), Alfonso è mutato in lupo per stregoneria. Assimilabile alla stregoneria è l’intervento del diavolo a cui, spesso, gli uomini si rivolgono per stringere patti a loro vantaggio, senza valutare bene i rischi dell’accordo.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

giovedì 2 maggio 2019

Lupi/guerrieri lupo (Úlfheðnar), parte I

Ricostruire ciò che il lupo rappresenta e rappresentava è molto lungo. Per cui mi limiterò a riportare le informazioni sostanziali che legano la figura del lupo all'uomo e all'evoluzione della società.
Il termine licantropo è di origine greca e significa “uomo-lupo”. È composto da lýkos (lupo) e ànthropos, (uomo). Lupo mannaro invece è un termine più tardo, che deriva dal latino volgare “lupus hominarius” (Lupo umano/Lupo mangiatori di uomini). Questo termine non denota un licantropo in senso stretto, il quale viene usato in riferimento a storie e leggende, spesso locali, di enormi lupi mangiatori di uomini, non necessariamente sovrannaturali.
Il licantropo, nell'immaginario collettivo, è un uomo che si trasforma nelle notti di luna piena (Eccezione è fatta per la tradizione popolare sarda, in cui troviamo L'erchitu. Un uomo che a causa di un maleficio, avvenuto per grave colpa, si trasforma in bue nelle notti di luna piena).

Interessante è come per la maggior parte delle popolazioni, geograficamente anche lontane, il lupo sia scelto come animale totemico. Questa scelta non è affatto casuale. Il lupo era l’animale più diffuso sia nel continente-Euroasiatico sia in America e viveva in stretto rapporto con l’uomo.
Nel saggio “Ecological and cultural diversities in the evolution of wolf-human relationships” di Luigi Boitani, viene ricostruito totalmente e fedelmente il rapporto tra lupo, uomo e società.

Le antiche comunità di uomini, vedevano il lupo con profonda ammirazione. Erano società di uomini dedite alla caccia ed alla raccolta, mentre quando si evolsero in società pastorali e dedite all'allevamento, venne cacciato e ripudiato.
Si delineano i primi aspetti di profonda ammirazione che l’uomo ha per il lupo, agli albori della civiltà dell’uomo. Uomo come cacciatore, costretto a procurarsi il cibo con le proprie forze, come un animale predatore. Nel farlo, il confronto con il lupo è inevitabile, un confronto da cui l’uomo esce sconfitto, inferiore rispetto all'animale in termini di velocità, scaltrezza, acutezza dei sensi e potenza. Il lupo è quindi il rivale eccellente/cacciatore visto con ammirazione e rispetto poiché possiede quelle caratteristiche che a lui mancavano, caratteristiche che doveva saper ricreare per essere alla pari. Ecco quindi l’intervento dello sciamano, finalizzato a realizzare questa fusione tra uomo e lupo tramite ben precisi rituali estatici, che permettono all'uomo di catturare lo spirito, l’essenza, del lupo e farlo proprio, indossandone la pelle (non solo e non limitato esclusivamente alla pelle) e identificandosi con lui.
Questo rapporto di venerazione e rispetto viene meno con l’evoluzione dell’uomo in una società diversa, più sviluppata e con il passaggio dalla società di caccia e raccolta a quella pastorale e, successivamente, a quella contadina. L’uomo, divenuto un allevatore, e poi un contadino, mal sopporta i continui interventi dei lupi, etichettando gli animali non più come rivali bensì come pericolo (Questa la prima demonizzazione). Nasce in questa fase il primo stereotipo di lupo cattivo, e di conseguenza il cacciatore di lupi (luparius).

Nelle scienze etno-antropologiche, si definiscono società di cacciatori-raccoglitori quelle popolazioni il cui sistema di sostentamento alimentare non si basa su alcuna forma di agricoltura o allevamento ma fa leva unicamente su acquisizione e prelievo di cibo e risorse alimentari dalla natura selvatica. Queste comunità si procurano il cibo cacciando animali e raccogliendo frutti selvatici, senza far ricorso, a fini alimentari, a specie domesticate vegetali o animali. Si tratta di una caratteristica tipica di società primitive, che non realizzano un sistema economico di produzione in senso stretto ma di sola acquisizione o di prelievo.
Nel ciclo epico Gilgamesh (incentrato sul re sumero di Uruk, composto tra il 2600 a.C. e il 2500 a.C.), la Dea Ishtar, Signora della Bellezza e della Fecondità, trasforma un pastore in lupo, mettendogli contro la propria famiglia e gli amici, al punto da essere cacciato dal suo stesso villaggio e dai suoi cani (un breve accenno per capire da quando è lontana la demonizzazione del lupo. Altre testimonianze di questo genere le abbiamo nella bibbia e nella cultura greca).

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

mercoledì 1 maggio 2019

Un anno de “Le vie di Wodanaz”

Oggi il nostro blog compie il suo primo anno di vita, da quel primo maggio di un anno fa la nostra redazione si è ampliata parecchio, così come le nostre collaborazioni.
Siamo riusciti, nonostante qualche difficoltà, specialmente agli inizi, a rimanere attivi ogni giorno, cercando sempre di offrire qualcosa in grado di stimolare anche solo una semplice riflessione.
Quello che inizialmente doveva essere un “semplice” blog di divulgazione si è poi evoluto in un progetto più articolato che, per quanto sia ancora in fase embrionale, inizia a dare qualche risultato concreto, ben oltre quanto immaginavamo quando ci siamo lanciati in questa avventura.
Riportare il culto arcaico fra campi e boschi, far rivivere nuovamente i valori tribali del confronto e della lealtà ai propri Dèi, alla propria gente e alla propria terra. Un’utopia, vista con gli occhi di un anno fa, un possibilità, per quanto vi sia ancora moltissima strada da fare, nel momento in cui vi scrivo.
Vi è poi il blog vero e proprio, il cui contenuto, sia qualitativo che quantitativo, ha superato le nostre più rosee aspettative:
Ad oggi abbiamo un archivio di più di duecentocinquanta articoli, tra nostri scritti e collaborazioni, e l’intenzione è quella di continuare su questo solco, aggiungendo sempre nuovi contenuti originali.
Questo progetto ci ha insegnato, e continua ad insegnarci, moltissimo, ci ha arricchito come persone e come fedeli della via antica dandoci la possibilità di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo e spronandoci ad essere sempre attivi e a cercare sempre nuovo materiale senza mai smettere di confrontarci, sia all’interno che all’esterno del nostro gruppo.

Brindiamo quindi a questo primo anno, ai nostri incontri e alle bevute che ci siamo fatti insieme, alle realtà che stiamo costruendo, e brindiamo anche a voi che ci seguite, uno dei motori di questa nostra minuscola, ma assai vitale, realtà.
Al primo di molti anniversari, Dèi volendo!

Hailaz Wodanaz!