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lunedì 30 settembre 2019

Letture consigliate- I Miti Nordici di Gianna Chiesa Isnardi





Lettura consigliatissima per chiunque voglia darsi una formazione basilare solida sulla tradizione germanica settentrionale. 

Scorrevole, nei limiti in cui un trattato può esserlo, ben illustrato, preciso e puntuale rappresenta, ad oggi, una lettura imprescindibile. 


La sua divisione per argomenti, coadiuvata da un ottimo indivie, permette di recuperare facilmente le informazioni necessarie al punto da renderlo una sorta di prontuario.


L’autrice è una accademica ed il suo punto di vista è prettamente intellettuale, il suo approccio è però rispettoso e, rispetto a molti altri, non esagera affatto con la storicizzazione dei miti, il che rende il suo approccio rispettoso e degno di ogni lode. 


Chi vi scrive ne possiede due copie, entrambe della Longanesi, rispettivamente del 1994 e del 2018, e non ha trovato sostanziali differenze fra le due.

giovedì 19 settembre 2019

Influenze turco euroasiatiche in Europa 2


Territorio degli Avari in blu scuro e territorio d'influenza avara-bulgara (questi ultimi tramite sacche nomadi unitesi ai Longobardi) circa tra il 600 e l'800 d.C.

Per influenza si intende toponomastica, distaccamenti militari ma anche influenza agricola, data l'introduzione di alcuni tipi di buoi e cavalli.
I bulgari di Alcek furono stanziati in parte fra Ravenna e Venezia, più in là in Molise.
Si ricorda anche il mitico attaccamento di Cangrande della Scala alle genti della Steppa. Esso volle far risalire la sua stirpe insediatasi in Verona ai grandi Khan degli Avari.
Gli Avari parteciparono con cavalieri e soldati appiedati alla conquista di Padova durante il regno di Agilulfo, citando Vincenzo D'Amico:

"Inoltre solo con l'aiuto degli Avari e degli Slavi valse a manovrare nei pantani, riuscendo a prendere Padova, Cremona e Mantova ed invadere il litorale istriano (40).
Precedentemente gli Avari (595) inseguendo i Boiari nelle Venezie, avevano introdotto fra noi cavalli selvatici e bufali, i soli bovini che posso vivere e lavorare negli acquitrini."

Leonardo Atli, Khan dei Dire Dogs

mercoledì 18 settembre 2019

Influenze turco euroasiatiche in Europa 1

In funzione di altri post che sto preparando riguardo la verità nuda e cruda sulle influenze delle multietniche tribù ''turco-euroasiatiche'' ( che vi piaccia o meno il nome ) in Europa e in Italia, una delucidazione sulla tanto dibattuta e turbolenta origine etnica degli Unni.

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- E' impossibile comprendere a pieno la politica delle Orde arrivate da oriente senza una nozione base sulla figura del Khan ( o proto-khan in questo caso). Esso è scelto e protetto da Tenri, il Cielo Eterno, terribile, distaccato e creatore, per il quale, solo le sue emanazioni (gli dei ) interagiscono con gli umani. Il Khan, o il Khagan ( Khan dei Khan), è il prescelto celeste, colui che è protetto da Tenri, colui che ha diritto divino di unificare le tribù.

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-Gli Unni erano dunque, inizialmente, una confederazione di genti guidate dalla tribù dominante, la tribù guida.

La confederazione prendeva il nome della tribù stessa, la quale poteva anche non avere alcun legame genetico-culturale con quelle sottomesse.

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- Erano dunque in origine un agglomerato di gruppi guidati da una o piu 'elites' di prevalenza linguista probabilmente turca,  poco dotati economicamente ma in grado, nel tempo, di sottomettere o semplicemente guidare altre tribù o confederazioni. 

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Tuttavia, in quanto nomadi guerrieri a cavallo, tendevano inizialmente a sottomettere e/o a guidare popolazioni dall'organizzazione simile o uguale alla loro, come Sciti e Sarmati. Quando gli Unni ''originali'' arrivarono alle porte dell'Europa, prima di sottomettere alcune tribù germaniche, erano dunque un'amalgama di tribù e confederazioni NOMADI di ceppo turco, euro-asiatico, iranico che si consideravano a tutti gli effetti, Unni.  Tra gli aplogruppi che spiccano tra le analisi di tombe Unne, Avare e Bulgare spiccano: Q, N, l'europeissimo R1a, ma anche j1 e J2, tra cui, tra i Bulgari ( che altro non sono che una confederazione nata grazie ad un prescelto dal Cielo, che unì le ultime bande di unni, sciti e kutriguri), anche j2b1 ( di cui io sono portatore ), probabilmente inglobati durante la loro avventura Iranica.


Fonti: v.Minorsky, Tracce Turche nell'Europa Medievale ( Cossuto ) I Signori del Danubio (cossuto) 

Y-chromosome haplogroups from Hun, Avar and conquering Hungarian period nomadic people of the Carpathian Basin

1: Department of Genetics; University of Szeged; Szeged, H-6726; Hungary

2: Department of Pediatrics and Pediatric Health Center; University of Szeged; Szeged,

 H-6720; Hungary

3: SeqOmics Biotechnology Ltd.; Mórahalom, H-6782; Hungary

4: Institute of Biochemistry; Biological Research Centre of the Hun. Acad. Sci: Szeged, H-6726; Hungary

5: Department of Anthropology; Hungarian Natural History Museum; Budapest, H-1083; Hungary

6: Department of Biological Anthropology; University of Szeged; Szeged, H-6726; Hungary

7: Department of Art History; Istanbul Medeniyet University; Istanbul, 34700; Turkey

8: Móra Ferenc Museum; Szeged, H-6720; Hungary

9: Mureş County Museum; Târgu Mureș, 540329 Romania

10: Department of Archaeology; Flóris Rómer Museum of Art and History, H-9024 Győr, Hungary

11: Katona József Museum; Kecskemét, H-6000, Hungary

12: Institute of Archaeology of the Center for Humanities of the Hun. Acad. Sci; Budapest

13: Institute of Genetics; Biological Research Centre of the Hun. Acad. Sci: Szeged, H-6726; Hungary

*: corresponding author e-mail: torokt@bio.u-szeged.hu 


(nella foto Khan Kubrat dell'Orda Bulgara)


Leonardo Atli, Khan dei Dire Dogs 





lunedì 16 settembre 2019

Giudizio e pregiudizio

Bisogna sempre guardare con sospetto ad ogni movimento di rottura, sia questo religioso, politico o ideologico. 

Nel momento in cui qualcuno dichiara che tutti coloro che l’hanno preceduto erano in errore e che la sua è l’unica vera via è lecito analizzare un attimo la cosa, e pensare cosa è più probabile: che fossero dei coglioni tutti gli antenati o che, molto semplicemente, sia colui che parla, ad esserlo. 

Questo vale per ogni ambito, sempre e comunque.

In questo vi è il valore incommensurabile del “pregiudizio”, tanto demonizzato nella nostra epoca malsana, la capacità di pre-giudicare un processo grazie alle conoscenze che ci sono state trasmesse e abbiamo fatto nostre. Tempi grassi tendono a creare un variopinto arsenale di tiepide illusioni, fra cui quella che la fiducia sia qualcosa da poter dare a prescindere, per pura bontà d’animo e senso di tolleranza. 

Non è così, la fiducia è un lusso che ci siamo potuti permettere grazie al sacrificio di coloro che ci hanno preceduto, coloro che hanno preso, tenuto e difeso contro tutti il pezzo di terra che abbiamo la fortuna di chiamare casa. 

Pensare che questo non sia più valido solo perché “siamo nel 2019” è, molto semplicemente, frutto di una delle illusioni di cui sopra. 


La verità è nei primordi, mai nel progresso. 

La notte atavica nella selva

Selvans o cernunnos, entita che stregano e terrorizzano le menti ed i cuori.

Spiriti dalla feroce bellezza, che vivono nel profondo degli uomini e si destano, quando il pensiero è sfiorato dalle paure arcaiche; paure che li rendono signori delle bestie e guardiani dei confini.


Nel sentire la loro presenza, veniamo trasportati lontano dal presente, in un tempo che nessun uomo vivente, può ricordare.

Nessuno ricorda il tempo della paura, quel tempo in cui i nostri antenati temevano tutto ciò che avevano intorno, un tempo in cui l’uomo era preda prediletta.


L'uomo ha dimenticato la vera notte! 

Ha dimenticato cosa significa aver paura quando non distingue le sagome nel buio.

Non ricorda come la sua vista si adatta al buio, e come ciò, lo rende capace di guardare ma non di distinguere, ed proprio mentre scrutava la notte, che si mostravano le divinità.

Per metà bestie e metà uomini, mai definite nelle forme e nei contorni, le entità mostrano il confine; quel confine di cui sono nume tutelare. 


L’uomo, nelle notti solitarie all'addiaccio, vive di nuovo le paure dei nostri antenati, quelle paure sepolte dalle luci e dal frastuono delle metropoli. 

Ciò che gli antenati temevano: si palesa.

Affiora di nuovo il ricordo dell'essere preda, lontano dalle leggi degli uomini e più vicino alle brutali leggi della natura.


La notte è dei predatori, la caccia inizia e giunge cosi al nostro cospetto, quell’istinto di sopravvivenza, tipico dell’uomo atavico, tipico della preda, accompagnato dalla paura e da un solo pensiero: fuggire o ripararsi.


L’uomo ricorda le atrocità subite da preda, la libertà negata e ricorda il più grande dono ereditato, che i nostri antenati hanno conquistato con il sacrificio e combattendo la paura: la facoltà di scegliere! 

Finalmente vede il confine! 

Finalmente comprende che può essere preda o predatore. 

Finalmente vede le mura delle città simili al recinto delle bestie addomesticate.


Può finalmente decidere se varcare quel confine tutelato dallo spirito delle selve o tornare in città, in entrambi i casi, sarà una vita di sacrifici, ma sul confine, al cospetto del dio, l'uomo decide quali sacrifici accettare e come vivere la sua vita: fiero predatore o preda sottomessa.


Culto dei silvani


Orlando di Raimo, in collaborazione con Le vie di Wodanaz 

martedì 10 settembre 2019

Il Bushidō - parte I

Il codice di condotta morale (anche se sarebbe meglio definirla la Via) del guerriero giapponese (Il Samurai) suscita da sempre una grande e giustificata attrattiva nei confronti dei popoli occidentali, percepita molto probabilmente con esotismo e come un ritorno alle qualità e alle virtù dei cavalieri medievali.
Per inquadrare in linee generali la questione sarà necessario fissare dei punti fermi etici, storici e terminologici: prima di tutto va sottolineato come nell’universo marziale giapponese sia impossibile dividere la pratica fattuale (Es: allenamento con la spada/arco) dalla sua controparte etica e spirituale; obbiettivo principale di ogni maestro di Bujutsu dovrebbe essere quello di formare il suo allievo in modo completo, maturo ed equilibrato dimostrando come la spada che toglie la vita sa anche come salvaguardarla, difenderla e restituirla.
La stessa terminologia del Bushidō starebbe a segnalare ciò: dividendo infatti la parola vediamo come Bushi significhi Guerriero e dō significhi Via, intesa però non come linea retta da percorrere in modo sterile ma come vera e propria fede, sentiero mistico, visione immanente che tutto pervade e tutto comprende.

Per dare un’idea generale a livello precettistico e sintetizzare brevemente la visione occidentale del Bushidō possiamo citare i 7 principi dello stesso cosi come riportati da Nitobe Inazo nel suo celebre best-seller internazionale “Bushidō: The Soul of Japan”:

1)GI: Onestà e Giustizia
2)Yu: Eroico Coraggio
3)Jin: Compassione
4)Rei: Gentile cortesia
5)Makoto: Completa sincerità
6)Meiyo: Onore
7)Chugi: Dovere e Lealtà

Ora, com’è evidente, questa lista di valori è più stereotipica che attuale.
Prima di tutto va sottolineato come il codice d’onore guerriero dei Samurai non era una rigida e codificata lista di regole secolarizzata e uniformemente rispettata in tutto il territorio nazionale Giapponese (anche per una semplice questione storica e politico-geografica); inoltre lo stesso subì nel corso della storia l’influsso di numerose dottrine filosofico-religiose che via via ne mutarono le caratteristiche e la prassi fino ad arrivare ai secoli di isolamento dovuti ai Tokugawa e alla celeberrima pubblicazione dell’Hagakure da parte di Yamamoto Tsunemoto, vera e propria summa in chiave di aforismi dell’epopea della casta guerriera Giapponese.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

lunedì 9 settembre 2019

Il Bushidō - parte IV

L’ultimo punto cardine che vorrei trattare in questa sintetica riflessione sul Bushidō è l’assoluta fedeltà del guerriero al suo Daimyō.
Il termine stesso (Samurai) deriva da Saburau, traducibile come servire.
Tutta la vita del guerriero era dedicata a una inflessibile e assolutamente inviolabile servitù nei confronti del Daimyō.
Questo fondamentale impegno veniva preso tramite una cerimonia con riti tipicamente Shintoisti, da sempre molto legati al culto degli antenati e al rispetto verso gli stessi; come ci descrisse il gesuita Caspar Vivela il rito prevedeva l’impegno scritto su di un rotolo (kishomon) con un pennello intinto nel sangue (keppan) del guerriero che veniva successivamente bruciato davanti agli altari delle divinità del clan, le ceneri venivano poi sciolte e inghiottite dal guerriero come controprova definitiva del suo impegno incondizionato (oltre ad una ovvia e meno spirituale trascrizione negli archivi).
Da quel momento in poi il Samurai era come morto, tutta la sua vita era dedicata alla difesa e salvaguardia del signore, della sua proprietà e del suo onore, null’altro contava e nulla poteva esimere il guerriero dal compiere il suo sacro dovere.

Il legame era così forte che non si limitava a inquadrare il singolo samurai ma anche tutta la sua famiglia che immediatamente iniziava a identificarsi con il volere del Signore e addirittura era solita seguirlo nella morte tramite suicidio rituale, il celebre seppuku (un po' come accadeva tra il Faraone dell’antico Egitto e i suoi servi fino alla creazione delle Ushabti).
La pratica autoimmolatoria, resa celebre anche dalla storia dei 47 ronin e chiamata Junshi, era solita indebolire i Clan e creare comprensibili disagi alla gestione dello stesso, cosa che portò al divieto (scarsamente ascoltato, tant’è che l’ultima Junshi venne effettuata nel 1912 dal generale Nogi Maresuke) della stessa con la minaccia di dure punizioni.
Concludiamo ricordando come questo codice di vita, guerra e soprattutto di morte fu una caratteristica essenziale dell’esercito nipponico anche e soprattutto nel XX secolo, gli usi dei giapponesi infatti apparvero ai soldati americani come folli, macabri e raccapriccianti proprio come inutilmente sadico e crudele apparve il trattamento dei prigionieri (considerati con il disonore più estremo possibile).

E proprio come disse uno degli ultimi Samurai:
“Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per esserne sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro”. Yukio Mishima

Il Bushidō - parte III

Tornando ora alle dottrine inizialmente citate possiamo notare come il Bushidō sia stato influenzato principalmente dal Confucianesimo, dal Taoismo, dallo Shintoismo e dal Buddhismo (soprattutto Zen).
Il taoismo arrivò probabilmente nel III sec a.C. ed ebbe un grande influsso sul Sol Levante anche e soprattutto nel corso dei secoli successivi; importantissima fu infatti l’influenza di classici militari e strategici come il noto “L’arte della guerra” di Sun Tzu.

Altra caratteristica cardine del Bushidō presa dal Taoismo fu l’adozione di una prassi il più possibile minimalista ed efficace, austera e pragmatica che andrà poi ad ovvie nozze con l’etica rinunciante del Buddhismo.
Sul rapporto tra la dottrina dell’Illuminato e i Samurai ci sarebbe troppo da scrivere, ma possiamo fare una piccola sintesi dell’avvenuta contaminazione e della presa di coscienza verso la stessa della maggior parte dei Samurai con le parole di Dickinson:

“L’influenza del Buddhismo è stata, per i giapponesi, più estetica che etica. Il feudalesimo giapponese convertì la dottrina della rinuncia del Buddha nello stoicismo del guerriero. Il samurai nipponico rinunciava al desiderio, non per poter entrare nel nirvana, ma per acquisire quel disprezzo della vita che avrebbe fatto di lui un guerriero perfetto”

Questa riflessione può essere condivisa in linea di massima (per quanto, come già trattato in questo blog, non siano mancate esperienze militari propriamente mistiche e strettamente collegate alla religione) ed è esemplificativa del noto disprezzo della vita dei Samurai.
Approfondendo leggermente questo nodo (assolutamente cruciale nell’architettura e nello stile di vita del samurai, vero e proprio marchio spirituale degli stessi) possiamo citare dei celebri passi dell’Hagakure riguardanti questo tema.
Tsunemoto è deciso e libero da ogni dubbio quando afferma che “la Via del Samurai va trovata nella morte” e prosegue:

“Incedere come folli accanto alla morte significa "diventare pazzi". Se nella Via del samurai si coltiva la capacità di giudizio, si verrà presto sconfitti.”

“L'essenza del Bushidō è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata. Quando un samurai è sempre pronto a morire padroneggia la via.”

“Il Codice del Samurai va cercato nella morte. Si mediti quotidianamente sulla sua ineluttabilità. Ogni giorno, quando nulla turba il nostro corpo e la nostra mente, dobbiamo immaginarci squarciati da frecce, fucili, lance e spade, travolti da onde impetuose, avvolti dalle fiamme in un immenso rogo, folgorati da una saetta, scossi da un terremoto che non lascia scampo, precipitati in un dirupo senza fine, agonizzanti per una malattia o pronti al suicidio per la morte del nostro signore. E ogni giorno, immancabilmente, dobbiamo considerarci morti. È questa l’essenza del Codice del Samurai.”

È assolutamente impossibile non vedere, soprattutto in questa ultima citazione, l’enorme influsso buddhista nella pratica del Samurai.
Questa prassi meditativa infatti, derivata dal Buddhismo Theravada e chiamata Maraṇasati è da sempre un metodo attraverso il quale i monaci sviluppano il giusto sentire nei confronti della vita e aiuta gli stessi a distaccarsi e a rinunciare (Nekkhamma) all’attaccamento corporeo.
Partendo da questi presupposti i Samurai erano soliti sfruttare questo distacco raggiunto attraverso la meditazione per donarsi senza alcun tipo di freno in caso di guerra al servizio del Daimyō, dimostrando davanti ai proprio commilitoni e al clan rivale il suo coraggio e il suo fervore marziale. (Oltre alla “contaminazione” Theravada invito tutti a rileggere la Bhagavad Gita e a notare le schiaccianti somiglianze tra la stessa e il Bushidō…ma questa è un’altra storia).

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

Il Bushidō - parte II

La stessa vita dei grandi Samurai giapponesi ci fa capire come questa via, pur mantenendo dei punti fissi, fosse applicabile in diversi modi filosofico-operativi dai guerrieri: il grande Musashi per esempio sviluppò una sua ricerca personale alla Via, sintetizzata nei 21 punti del Dokkōdō (Via della solitudine):

"Accettate tutto nel modo in cui esso è";
"Non cercate il piacere in sé e per sé";
"In nessun caso dipendete da una parziale sensazione";
"Pensate leggermente di voi e profondamente del mondo";
"Siatene staccati dal desiderio per tutta la durata della vostra vita";
"Non rammaricatevi di ciò che avete fatto";
"Non siate gelosi";
"Non fatevi rattristare da una separazione";
"Il risentimento ed il rimpianto non sono mai appropriati";
"Non lasciatevi guidare da un sentimento di amore o di lussuria";
"In tutte le cose non abbiate preferenze";
"Siate indifferenti a dove vivete.";
"Non ricercate il gusto della buona cucina";
"Non mantenete il possesso più di quanto sia necessario";
"Non agite seguendo le credenze comuni";
"Non collezionate armi né fate pratica con le armi al di là di ciò che è utile";
"Non temete la morte";
"Non cercate di possedere i beni o feudi in ragione della vostra vecchiaia";
"Rispettate il Buddha e gli dei senza contare sul loro aiuto.";
"Si può abbandonare il proprio corpo, ma è necessario preservare l'onore";
"Mai smarrire la Via".

Si evince un sentiero impervio, difficile, dedicato al distacco e alla ricerca dell’illuminazione attraverso un vero e proprio ascetismo militare che può senza dubbio ricordare la figura dello Yamabushi.
Tutt’altro percorso fu quello seguito da Yagyū Munenori, molto più tradizionale e vicino alla corte e agli ambienti di potere; invece che utilizzare la sua bravura con la spada (ricordiamo infatti che sarà lui a fondare a Edo la branca di una scuola di Kenjutsu, la Yagyū Shinkage-ryū) utilizzò principalmente la sua intelligenza e la sua abilità diplomatica fino a scalare i vertici sociali e diventare fidato consigliere dello Shogun e capo della sua polizia segreta.

Come ulteriore dimostrazione della poca aderenza di questa lista alla realtà, sappiamo benissimo che era usanza dei Samurai provare l’efficacia delle loro spade sui criminali ancora vivi (Tameshigiri) o di effettuare, a battaglia finita, la caccia alle teste (in assenza di queste anche di orecchie e nasi) soprattutto di membri di rilievo del clan avversario per poter essere pagati.
Possibile anche la menzione allo Tsujigiri ossia al diritto del Samurai di uccidere sul posto tutti coloro, di casta inferiore, che avessero potuto mancare di rispetto e offendere l’onore del nobile guerriero; inutile dire che in alcune situazioni la pratica degenerò costringendo l’unificatore del Giappone, Tokugawa, a bandire la pratica nel 1602.
Una casta di “barbari” quindi? Ovviamente no, veniva data un’enorme importanza all’onore e alla rettitudine, qualità fra l’altro necessarie per essere d’esempio ai membri delle classi inferiori e per mantenere l’ordine ma vogliamo solo scoraggiare apertamente qualsiasi visione troppo “delicata” o resa digeribile per il popolo occidentale odierno, ricordando come il dovere principale del guerriero fosse quello di servire il suo padrone e di eliminare i suoi nemici dimostrando fervore e spirito combattivo.
Lo stesso Tsunemoto, cercando molto probabilmente di evitare derive troppo “pacifiche” in un’epoca che non lo permetteva dirà:

“Fino all’età di quarant’anni il samurai non deve lasciarsi sedurre dalla saggezza o dal buonsenso, ma fare affidamento solo sulle proprie capacità e sulla forza di carattere. Più quest’ultima è grande, migliore è il samurai. L’individuo e la sua posizione sociale sono fattori importanti ma anche dopo la quarantina un samurai non vale nulla se non ha forza di carattere”

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

martedì 3 settembre 2019

domenica 1 settembre 2019

Kolberg

Difesa della cittadella di Kolberg, 1807


In seguito ai negozati di Tilsit, le armate napoleoniche tolsero l'assedio alla cittadella prussiana di Kolberg.
La vittoria fu finalmente raggiunta ma in molti fra i suoi cittadini lamentarono lutti; fra questi vi era la giovane Maria Werner, amica del borgomastro Nettelbeck e già orfana di madre. Nell'assedio ella perdette il padre, i suoi due fratelli e l'amato Schill.
Vuole la tradizione che durante le celebrazioni spontanee sorte dopo il cessate il fuoco, il borgomastro Nettelbeck avesse raggiunto il porto della città per tener compagnia a Maria che invano attendeva il ritorno di Schill da lì partito alla volta di Stralsund per evitare l'accerchiamento della cittadella; egli la confortò con le seguenti parole:

"Tu hai offerto tutto ciò che avevi Maria ma non invano; la morte è oramai sovrastata dalla vittoria.
È così che è sempre stato e sempre sarà.
È quanto di più sacro possa esservi, noi rinasciamo nel dolore e quando qualcuno riesce a sostenere un così grande dolore per il bene dei suoi concittadini, questi è grande.
Tu sei grande, Maria, sei restata salda ed hai fatto il tuo dovere senza aver timore della morte.
La vittoria è anche tua, Maria, lo è certamente."


Per chi volesse saperne di più consiglio la lettura dell'opera 'Bürger zu Kolberg: eine Lebensbeschrieb ung, von ihm selbst aufgezeichnet' redatta dallo stesso Joachim Nettelbeck sull'accaduto.