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domenica 14 novembre 2021

Karjalan kunnailla

Karjalan kunnailla è una canzone il cui testo è stato composto da Valter Juva nel 1902 sulla melodia di un'antica canzone popolare finlandese - si è scelto di realizzarne una traduzione in italiano data la bellezza del suo contenuto.

Ecco qui il testo in finlandese:

Jo Karjalan kunnailla lehtii puu, 
jo Karjalan koivikko tuuhettuu. 
Käki kukkuu siellä ja kevät on, 
vie sinne mun kaiho pohjaton. 

Mä tunnen vaaras ja vuoristovyös 
ja kaskien sauhut ja uinuvat yös 
ja synkkäin metsies aarniopuut 
ja siintävät salmes ja vuonojes suut. 

Siell' usein matkani määrätöin 
läpi metsien kulki ja näreikköin. 
Minä seisoin vaaroilla paljain päin, 
missä Karjalan kauniin eessäin näin. 

Tai läksin kyliin urhojen luo, 
miss' ylhillä vaaroilla asui nuo; 
näin miehet kunnon ja hilpeän työn 
ja näin, miss' sykkii Karjalan syän. 


Segue ora la nostra traduzione in italiano: 

Ecco fiorisce un albero nella terra di Karelia. 
Ecco sʼinfittiscono le foreste di betulla della Karelia. 
Là canta il cuculo - è primavera. 
Porta là questo mio anelito infinito. 

Conosco le tue foreste sulle colline e le tue montagne, 
i fumi dei tuoi débbi[1] e le notti profonde, 
glʼintonsi alberi delle tue foreste, 
i tuoi incombenti stretti e le fauci dei tuoi fiordi. 

Là spesso io ho volto i miei passi. 
Presi quel sentiero fra le foreste e le distese dʼabeti, 
stetti, capelli al vento, fra le foreste sulle colline - 
da lì osservai lo splendore della Karelia svelarsi dinanzi a me. 

Andai poi a trovare le genti di quei villaggi, 
nelle foreste sulle colline, là dove loro vivevano. 
Vidi uomini dal lavorare retto e lieto, 
scorsi dove davvero batte il cuore della Karelia. 

Note: 
- [1] débbio (pl. débbi): pratica agricola volta a rendere fertile un terreno tramite micro-incendi controllati. In allegato una fotografia di un débbio eseguito nella campagna della Karelia. 
 
Fonte: https://ik-inha.org/en/fotografien-von-i-k-inha/


Qui c'è il link che rimanda al nostro canale YouTube dove potete trovare il video da noi realizzato sulla suddetta canzone: https://youtu.be/oQWk6Yjhahs


venerdì 5 novembre 2021

Apologia della storia? - Completo

Condividiamo con i nostri lettori l'articolo completo "Apologia della storia?". Per accedervi basta cliccare sul seguente link:

https://drive.google.com/file/d/1GDbY9XO_N6mbDJMTFH9BsENxrNpbpfMm/view?usp=drivesdk

Apologia della storia? - parte III

È da questa ricerca, il più delle volte involontaria[5], di un razionale incasellamento temporale che sono nati quei mostri di pensiero che attanagliano il nostro nuovo secolo.
Ecco che l’identità diviene un qualcosa di slegato dal proprio sangue e va a legarsi a sovrastrutture come la cultura e il cibo senza tener da conto che entrambi questi fattori sono legati al territorio che plasma l’individuo rendendolo portatore di dati geni. È proprio il territorio, la natura che ha in sé scintilla creatrice in quanto prodotto diretto del divino, che norma il Sangue degli individui e ne definisce l’essenza fisica e anche metafisica in vaste parentele familiari, in parentele così allargate da traversare le nazioni - non a caso si può parlare di indoeuropei.
Si è soliti pensare alla natura come un blocco monolitico che, passatemi il termine dialettale, stazza fissa nel mondo; vi sono invece più nature, fra loro totalmente differenti. Gli estremi della terra divengono estremi del variegato numero di nature possibili. Dalle nevi e i ghiacci dei poli, alle grandi foreste della Mitteleuropa, alla taiga, alla tundra, ai laghi della finnica e dunque magica Karelia, ogni cosa è espressione di quella particolare natura che imprime la scintilla divina sull’uomo che a sua volta ne diviene prodotto.

In conclusione allego il mito nordico della creazione di Búri, prima creatura dalle fattezze umane che generò Borr che poi a sua volta, unitosi alla gigantessa Bestla, genererà i tre fratelli Óðinn, Víli e Vé:

Allora disse Gangleri: “Dove dimorava Ymir? di che cosa viveva?”
Hár rispose: “Non appena la brina si sciolse, da essa prese forma una vacca, chiamata Auðhumla; quattro fiumi di latte sgorgavano dalle sue mammelle e in questo modo essa nutrì Ymir”.
Allora disse Gangleri: “Di che cosa si nutriva la vacca?”
Hár rispose: “Leccava le rocce brinate, che erano salate, e nel primo giorno in cui essa le leccò, da quelle pietre spuntarono a sera i capelli di un uomo, il giorno dopo la testa e il terzo giorno vi fu l'uomo intero. Il suo nome era Búri. Era di bell'aspetto, grande e possente. Generò un figlio chiamato Borr; questi prese in moglie quella donna che si chiamava Bestla, figlia del gigante Bǫlþorn ed ebbero tre figli. Il primo si chiamava Óðinn, il secondo Vili, il terzo Vé, e io so per verità, che Óðinn e i suoi fratelli saranno i signori del cielo e della terra. Noi questo crediamo, che così debba chiamarsi colui che sappiamo essere il maggiore e il supremo, e anche voi potete chiamarlo così”.

- S. Sturluson, Snorra Edda - Gylfaginning paragrafo 6.


Apologia della storia? - parte II

È qui a mio parere l’errore principe di tutto questo odierno ragionare sulle origini, su come queste siano meno importanti per la definizione dell’identità di un individuo; nel momento in cui il concetto di “origini” viene trasportato su di un piano perfettamente storiografico, le stesse origini divengono così ingabbiate in un dato tempo e in un dato spazio - vuoi il passato remoto, vuoi il presente attuale. In realtà le origini di un individuo e di qualsiasi processo storico sono paradossalmente a-storiche dacché trascendono la storia temporale nella quale si muovono e danno così vita a una dimensione altra, che è quella degli antenati. Per meglio spiegare quest’ultimo concetto, riprendo un breve scritto di un mio conoscente:

Tu sei qua grazie a
2 genitori
4 nonni
8 bisnonni
16 trisnonni
32 quadrisavi
64 quintavi
128 esavi
256 eptavi
512 ottavi
1024 nonavi
2048 decavi

Per nascere oggi, partendo da dodici generazioni precedenti, hai avuto bisogno di un totale di 4094 antenati negli ultimi 400 anni. Pensa per un istante quante lotte, quante battaglie, quante malattie, quante difficoltà, quanta tristezza, quanta felicità, quante storie d’amore, quante speranze per il futuro i tuoi antenati hanno attraversato per farti esistere oggi. Onora sempre le tue radici.

Il mito del Sangue - del Sangue come veicolo di tutto ciò che è stato prima di un dato individuo e che trasporterà quest’ultimo nel futuro, rendendolo così parte di un flusso generazionale che sempre si rimesta nell’avanti e nell’indietro - definisce l’individuo nel suo presente come vessillo vivente di tutti i suoi avi passati. È sulla base di ciò che ogni individuo dovrebbe conformare il suo stile di vita, in altre parole “in alto la bandiera!”.

Gli storici tendono ad ascrivere il tempo in grandi categorie di sentimenti, strappando questi ultimi dalla loro Urheimat che è l’uomo - exempli gratia:
Che il rimpianto del passato perduto sia appannaggio della sola epoca romantica, oppure sia espressione principe dell’epoca romantica è quanto di più assurdo si possa asserire: ciascuno di noi è solito piangere chi di a lui caro non è più su questa terra e la lontananza è un qualcosa che strugge, e a volte distrugge, gli animi. Così è sempre stato, così sempre sarà. Se una data corrente storico-ideologica esaspera determinati temi rendendoli manierismo atto a costruire una differente sovrastruttura, ciò non ha nulla, e sottolineo, nulla a che fare con l’essenza dell’uomo che da sempre eterna viaggia al di là della storia attraversandone il flusso.

Apologia della storia? - parte I

È lectio imperante in buona parte del mondo accademico occidentale che guarda alla Francia e all’America che l’identità sia un qualcosa di presente e di legato alla storia dei tempi correnti.

Uno dei cardini di questo pensiero è il paragrafo dedicato a L’idolo delle origini, contenuto nel primo capitolo dell’opera del francese Marc L.B. Bloch nota come Apologia della storia, dove si arriva a definire come idolo della tribù degli storici l’ossessione che essi provano per le origini. Per Bloch l’errore tipico del ricercatore di materia storica - sia egli uno storico, sia egli un filologo - è «[...] quello di confondere una filiazione con una spiegazione»[1].  Ecco che quel prefisso Ur- proprio della Wissenschaft tedesca ed emblema della ricerca di un precedente storico normativo, a detta di Bloch, è impregnato di romanticismo e in tal misura «[...] abbellito dal prestigio di molte nuove seduzioni ideologiche»[2];  a ciò si lega la visione di Bloch secondo cui «[...] il demone delle origini fu forse solo un travestimento di quest’altro diabolico nemico della storia vera e propria: la mania del giudizio»[3]. Soffermandosi sulla religione cristiana Bloch afferma poi come questa sia prodotto storico di un dato tempo nonostante si possa «[...] concepire un’esperienza religiosa che non debba nulla alla storia»[4].
Ora, nonostante a mio parere lo stesso concetto di “storia” sia relativamente fumoso - sono le sue interpretazioni a condizionare le visioni delle varie correnti storiografiche, inclusa la storiografia che seguì a Marc Bloch - è necessario tener da conto come questa impalcatura realizzata da Bloch si limitasse, seppur in maniera non propriamente tale, a una critica della storiografia in sé e non della pulsione che ogni individuo prova per le proprie origini; eppure, se si trascura il metafisico e se si tiene conto del semplice reale immanente che ci circonda, quest’intera impalcatura può essere facilmente smontata dal mondo accademico e trasportata nell’interiore dell’individuo andandone quindi a condizionare l’essenza.

Note:

1 M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2009, p. 91.

2 Id., p. 89.

3 Id., p. 90.

4 Id., p. 89.

giovedì 9 settembre 2021

Il Fato

Gæð a wyrd swa hio scel.

Così recita il secondo semiverso del quattrocentocinquantacinquesimo verso del poema anglosassone Beowulf.
Il Fato procede secondo la sua volontà.

Wyrd bið ful aræd.

Così recita il secondo semiverso del quinto verso del poema anglosassone The Wanderer [1]. 
Il Fato è inesorabile.


Quante volte abbiamo sentito persone a noi vicine discutere sulla loro vita e su quanto fosse stata ingiusta la sorte nei loro confronti?
Molte.
Quante volte noi stessi dentro di noi ci siamo lamentati per qualche accadimento spiacevole che il Fato ci ha riservato?
Molte e negarlo sarebbe inutile.
Quante volte davanti a consigli del tipo "Non soffermarti sulla tua sofferenza ma vai avanti!" ci siamo sentiti rispondere "Cosa puoi capire tu della mia sofferenza e del mio dolore?".
Molte.

Ogni individuo sperimenta una serie di sensazioni fra loro ordinabili per grado e intensità ed è logico asserire che il dolore più grande provato da un individuo appare a quest'ultimo come la somma sofferenza a cui il genere umano  ha dovuto far fronte. Perché ciò accade? Semplice, perché l'individuo in quel momento non possiede un termine di paragone più grande e grave di questo. Il suddetto individuo sperimentando un dolore più grande del precedente porrà questo al vertice scalzando il precedente e così via.

La nostra natura di uomini moderni ci spinge spesso a concepire un evento doloroso come un fallimento da cui dover fuggire, come un'incrinatura di un ordine artificiosamente perfetto. 
Ecco che il Fato, nel manifestarsi in tutta la sua apparente indifferenza per i destini degli dei e degli uomini, acquisisce una dimensione negativa. Gli uomini lo calunniano oppure rinunciano a credere in esso definendo la loro esistenza come un'esperienza legata al caso e quindi priva di qualsiasi fondamento metafisico.

Le popolazioni germaniche, sia continentali che scandinàve, credevano nel Fato intendendo quest'ultimo come una suprema sorte a cui neppure gli Dèi potevano sottrarsi.
Innumerevoli sono le saghe che offrono uno spaccato di questo sentimento, prima fra tutte la Gísla saga Súrssonar. In questa il protagonista, dopo essere stato dichiarato fuorilegge per aver vendicato con l'omicidio l'uccisione di un suo fratello di sangue, cerca in tutti i modi di sfuggire alla vendetta dei parenti dell'ucciso, nascondendosi negli anfratti più profondi dell'Islanda.
Seppure vivendo così egli fosse al sicuro dai suoi nemici, il suo sonno era turbato da visioni e da premonizioni che si rivelarono essere vere. Gísli morirà proprio come nel suo sogno: stanco di fuggire decide di abbracciare il suo Fato affrontando i suoi nemici. 
Il capitolo IX della suddetta saga si chiude così: «[...] því at mæla verðr einnhverr skapanna málum, ok þat mun fram koma, sem auðit verðr» ossia: «[...] il Fato deve trovare qualcuno tramite cui parlare e ogni cosa che deve accadere accadrà di certo».
 
Il Fato va seguito, qualunque esso sia, e non va combattuto. Opporvisi è inutile tanto quanto negarne l'esistenza.

 

È nostra intenzione chiudere questo breve articolo con il testo di un Lied tedesco che vuole essere d'esortazione a tutti coloro che dubitano di sé stessi se posti dinanzi al Fato:

 
Essere un lanzichenecco è la mia indole 
e nel pensare solo alla guerra e al vagare
mandai in frantumi la mia fortuna! 
Non ebbi cura alcuna della casa paterna
e così, come è prevedibile, io finii in rovina. 
 
O vecchi miei, voi avete ragione: 
io ho amato, combattuto e gozzovigliato,
non ho nulla da lasciare come eredità!
Non giurai promessa alcuna sull’altare
eppure per la mia amata ugualmente morirei! 
 
Molte volte l’acciaio affondò nelle mie carni
bruciando più di un’ardente fanciulla -
o Morte, di ciò non ho alcun rimorso!
Non appena le ferite si rimarginavano
io, o fratelli, tornavo da voi ancora!
 
Ora che invecchio sempre più, anno dopo anno,
non sono più quello che un tempo ero,
le mie armi arrugginiscono sotto chiave.
Lasciami, o Dio, cadere in battaglia!
Credimi, anche nel morire io ti ringrazierei! [2]
 
 
Siate come il protagonista del Lied che avete appena letto: cercate di non avere rimpianti e accettate il vostro Fato che sempre coincide con ciò che voi siete, chiedetegli un'occasione di redenzione ma nulla più.
Seguendo questo link potrete trovare una versione cantata del suddetto Lied con annessa traduzione:
 

 

Note:

- [1] cfr. Exeter Book, XXIII.

- [2] La traduzione è nostra. Segue ora il testo originale:

Ein Landsknecht bin ich von Natur 
und dächt an Krieg und Wandern nur, 
schlüg selbst mein Glück in Scherben! 
Hätt' keinen Sinn fürs Elternhaus, 
drum muss ich auch, man sieht's voraus, verderben! 
 
Ihr lieben Leut, ihr habt ja recht: 
Ich habe geliebt, gekämpft und gezecht, 
bei mir ist nichts zu erben! 
Ich schwur nie Treue vor dem Altar, 
und doch könnt für mein Lieb, fürwahr, ich sterben! 
 
Es biss manch Stahl in meinen Leib,
viel heißer als ein glühend Weib - 
Tod, ich spürt' keine Reue! 
Und sind die Wunden kaum geheilt, 
bin, Brüder, ich zu euch geeilt aufs Neue! 
 
Nun werd ich älter Jahr um Jahr, 
bin nicht mehr der, der einst ich war, 
mein Werkzeug rost’t im Schranke. 
Lass, Gott, im Kampfe fallen mich!
Glaub mir, dass noch im Sterben ich Dir danke! 

martedì 24 agosto 2021

"Et vive la modernité!"... o no?


La modernità non si mette mai in discussione.

La modernità preferisce invece attribuire al passato la colpa, soprattutto quando non riesce a raggiungere i propri scopi.
Tutto ciò che oppone resistenza, anche minima, all’avanzare di ogni dogma moderno o postmoderno diviene un "problema culturale”. Ciò permette di scaricare ogni colpa su ciò che per la nuova ragione rappresenterebbe il vecchio: “Sono loro ad avere una mentalità retrograda, noi no di certo!" che tradotto vuol dire: “Come si permettono queste usanze plurisecolari, diretta derivazione di stratificazioni comportamentali millenarie e vera essenza di un intero popolo, di mettere in discussione l’idea che un tizio a caso - il più delle volte proprio sopra il Messico, chissà perché - ha avuto dall’altra parte del mondo l'altro ieri? È inaccettabile che nel 2021 eccetera eccetera eccetera”.

Vi starete chiedendo da dove derivi tutto ciò. Semplice.
Questo atteggiamento deriva proprio da una pretesa superiorità morale e culturale su tutto ciò che non aggrada la concezione nuova, una superiorità non attestata da prova alcuna.
È questa una corrotta manifestazione di quell'imperialismo che tanto disprezzano. Perché corrotta? Proprio perché si nasconde dietro cappelli frigi, livelle ammaliatrici, colombe con rami di ulivo e arcobaleni luminosi.
Questi individui, questi acritici sostenitori dell’applicazione assoluta e universale dei principi della rivoluzione francese - ché di questo fondamentalmente si tratta - sono convinti di rappresentare il Bene assoluto.
Tutto ciò che ha avuto luogo prima della presa di potere dei latori di questi principi - come pure tutte quelle genti che ancora oggi non vogliono applicarli acriticamente - è per loro inferiore. Seppure siano soliti negarlo a parole, dal loro modus operandi traspare ciò. Questi individui sognano un mondo ordinato secondo i loro principi, principi che ovviamente non mettono mai e poi mai in discussione: un mondo nel quale valga la stessa legge, sia a Oriente che a Occidente.
Sono soliti dirsi cittadini del mondo, quasi come se la loro terra non dovesse bastargli.
Il sacrosanto principio che ogni popolo abbia tutto il diritto di amministrarsi come meglio crede non li sfiora nemmeno.
Rinnegano la coercizione violenta e la guerra eppure si sentono in diritto di mettere il naso in affari che nemmeno conoscono e in usanze altrui di cui forse avranno letto due righe su Wikipedia. Colonizzare un popolo e annientarne l'essenza senza neppure sprecarsi a combatterlo sul campo. Presunzione.
Il tutto avviene poi con una naturalezza disarmante, anzi direi talmente spiazzante da poter competere con la naturalezza propria di un cavallo che piscia.

È tutto un "Abbasso l'Iran! Addosso all’India! Dagli alla Cecenia!" sino a esempi a noi più prossimi geograficamente come Russia e Ungheria - insomma uno starnazzare senza quartiere contro qualsiasi paese reo di non aver ancora abbracciato, in toto o in parte, l’assolutismo libertario.
Non importa se nemmeno saprebbero puntarlo sulla cartina, loro si sentono illuminati e in diritto di spiegare a popoli di cui non sanno nulla, di cui spesso non hanno nemmeno visto un rappresentate e di cui non conoscono la terra e le usanze, come questi debbano comportarsi.

Se non è follia questa, vecchi miei, non sapremmo davvero come altro definirla.

Questi individui non sono diversi dalle tanto da loro odiate multinazionali che in Africa e in Sud America bruciano terre e seviziano gente per erigere i propri stabilimenti e imporre lo stile di vita occidentale che vi va dietro - sono solo, molto semplicemente, meno visibili e decisamente più ipocriti.
La presunzione di rappresentare un “luminoso progresso” è però esattamente la stessa.
Noi lo riconosciamo, come anche siamo coscienti del fatto che le lamentele vuote restino tali.
Questo articolo non vuole quindi essere un chaier de doléances. Questo articolo è una lunga risata messa per iscritto da noi a danno degli imbelli dei nostri tempi.
Vi chiediamo dunque di ridere anche voi con noi.


(In foto un brāhmaṇa indiano, una ragazza kalash e sciamani mongoli)





lunedì 2 agosto 2021

I Goti

I Goti furono un popolo germanico originario del Götaland, in Svezia. Tra il secondo e il terzo secolo migrarono verso l'Europa sud-orientale - odierna Ucraina, Moldavia e Romania.

Convenzionalmente vengono suddivisi in tre gruppi: Visigoti, Ostrogoti e Gepidi. 
Per i Visigoti del periodo delle migrazioni  è più appropriato il termine "Tervingi" che significa "abitanti della foresta" [1] - spesso i toponimi visigoti del primo periodo erano legati alle foreste.
Vi sono poi gli Ostrogoti. Anche in questo caso è opportuno sostituire con "Grutungi" il termine Ostrogoti, più appropriato per il periodo delle migrazioni. Grutungi significa "abitanti delle steppe" o "abitanti delle terre terrose/sassose" [2].
Infine abbiamo i Gepidi, la cui origine del nome è ancora aspramente disputata fra gli storici. Riguardo al nome personale "Gepidi" esistono ben tre proposte etimologiche: la prima versione sostiene che il suddetto termine derivi dall'aggettivo goto gepanta (i.e. "pigro") visto che, a differenza degli altri goti, i Gepidi rimasero indietro; la seconda versione invece dice che il termine "Gepidi" derivi dalla fusione dei due termini latini Geates (i.e. "goti") e pedes (i.e. "piedi") dal momento che preferivano camminare e combattere a piedi piuttosto che a cavallo; secondo la terza versione, il termine "Gepidi" deriverebbe dal sostantivo composto greco Getipaides (i.e. "figli dei Goti"). 
Oltre alle tre analisi linguistico-etimologiche, del perché del nome "Gepidi" vi è anche una spiegazione legata al mito ma comunque non da scartare. Lo storico bizantino Giordane ricorda come i Goti discendano dal dio Gapt, forse una corruzione del personale Gaut - equivalente al Wotan dei Germani continentali e all'Óðinn degli scandinàvi, fondatore dei popoli germanici.

Inizialmente Visigoti, Ostrogoti e Gepidi erano parte dello stesso popolo, quello goto, che con il passare del tempo si spezzò in tre rami. Ciascuno di questi forgiò poi il proprio nome e la propria storia, a tanti nota dai libri di scuola.

Articolo di Аврелиан Сороковский


Note:
- [1] Tervingi o Thervingi deriva dal termine gotico thriu che vuol dire "albero" e che è affine al termine sassone treow/treo.

- [2] Grutungi deriva dall' antico sassone greut/greot che ha il significato di "terra, sassi".

venerdì 9 luglio 2021

Kalevala. Una breve presentazione - Completo

Condividiamo con i nostri lettori l'articolo completo sul Kalevala. Per accedervi basta cliccare sul seguente link:

https://drive.google.com/file/d/1tKYBm8TVD27FC1dqGKiKHkvS7Yz61qdW/view?usp=sharing

 


 

Kalevala. Una breve presentazione - parte III

Fra i principali leitmotiv dell’opera vi è quello del viaggio verso il Pohjola (v. Pohja) e il reame dei morti, Tuonela (v. Tuoni). I due suddetti reami complementari ma opposti sono parte di una complessa cosmologia[9]. Il mondo, originatasi da un uovo, presenta una complessa stratificazione.
Fra le varie sezioni del mondo finnico (cfr. n. 9) è il mondo degli uomini, il cui estremo nord coincide con il reame di Pohjola, a essere indissolubilmente legato al mondo dei morti, il reame di Tuonela.
Stando agli antichi canti raccolti da Elias Lönnrot, il Pohjola[10] - o landa del Nord - è dimora di quelle fanciulle che gli eroi provenienti dal reame di Kalevala sono soliti prendere in moglie. La strega Louhi regna sul suddetto reame e fui lei a commissionare al fabbro Ilmarinen, come dote per aver sposato sua figlia, una macina da cui si genera eterna abbondanza, il Sampo. Seppure gli antichi canti non restituiscano un preciso posizionamento geografico del suddetto reame, Lönnrot, sulla base dei racconti scandinàvi che identificavano gli antichi Finni come stregoni, cercò di comprendere se gli abitanti del Pohjola fossero Sami oppure Finni e dunque di collocare nello spazio esistente la landa del Nord. Tralasciando ciò, è importante ricordare di come il “nord” abbia da sempre ricoperto un ruolo primario nell’immaginario finnico; basti pensare al nome e al motto del secondo gruppo di volontari finlandesi che prese parte alla guerra d’indipendenza estone del 1919[11]. Ragionando in questi termini, ecco che il Pohjola diviene manifestazione della tremenda spinta metafisica che avvince i guerrieri sul campo di battaglia[12].
Per quanto concerne il reame di Tuonela, il suddetto è una landa delimitata da un fuime scuro è lì regna Tuoni con Tuonetar, la sua sposa. Nel reame di Tuenela vanno a dimorare in eterno le anime dei morti, senza che vi sia distinzione alcuna fra individui retti ed empi: entrambi condividono lo stesso fato, quello di vagare nella landa di Tuoni in forma di spettri. Nel 19esimo canto del Kalevala si narra di come Väinämöinen fosse giunto nel Tuonela per acquisire la conoscenza dei defunti - un leitmotiv comune anche alla tradizione scandinàva. Nel 14esimo canto l’eroe Lemminkäinen giunge dinanzi al nero fiume che circonda e protegge il reame di Tuonela allo scopo di uccidere un cigno che lì dimora - è questa l’ultima prova affidatagli dalla strega Luohi, sovrana di Pohjola, come pegno per la mano di una delle sue figlie. Lemminkäinen muore nell’impresa ma il suo corpo spezzato verrà ricomposto da sua madre e l’eroe tornerà nuovamente a vivere. Si può leggere in ciò un flebile rimando al fatto che la tremenda spinta metafisica che avvince i guerrieri sul campo di battaglia spesso è accompagnata dalla presenza tangibile della morte e che solo tramite una diretta esperienza della stessa è possibile nascere a nuova vita (cfr. n. 12).

 

Note:


[9] La cosmologia del mondo secondo la mitologia finnica è alquanto complessa. Ne segue una rappresentazione:

Taivaankannet = composto di taivaan (i.e. genitivo singolare del sostantivo taivas, “cielo”) e di kannet (i.e. nominativo plurale del sostantivo kansi, “coperchio, volta [celeste]”). Il sostantivo taivaankannet (i.e. “volte celesti”) va a designare il firmamento che è formato da più cieli sovrapposti, sei o nove di numero.

Lintukoto = composto di lintu- (i.e. apocope di lintujen, genitivo plurale del sostantivo lintu, “uccello”, privato della sua desinenza) e di koto (i.e. nominativo singolare del sostantivo kota, arc. per “casa”). Il sostantivo lintukoto (i.e. “casa degli uccelli”) designa quel velo, posto fra il mondo e il firmamento, che è dimora invernale dei volatili che lì vanno a svernare.

Maailmanpylväs = composto di maailman (i.e. genitivo singolare del sostantivo maailma, “mondo”) e di pylväs (i.e. nominativo singolare di pylväs, “pilastro, colonna”). Il sostantivo Maailmanpylväs (i.e. “pilastro del mondo”) designa l’Axis Mundi. Nella cosmologia finnica, quest’ultimo è collegamento diretto fra il reame di Pohjola e la stella polare che è perno per la volta celeste. Quest’ultima, sorretta dall’Axis Mundi, ruota attorno alla stella polare e da questo moto nelle acque del mondo si genera un vortice che ha nome Kinahmi (i.e. nominativo singolare del sostantivo kinahmi, arc. per “mulinello, vortice”) da cui poter discendere nel reame di Tuonela.

[10] Finn. composto di pohjois- (i.e. prefisso derivante dalla contrazione del sostantivo pohjoinen, “nord”) e di -la (i.e. suffisso che genera sostantivi identificanti un dato luogo).
L’altro nome con cui è noto il reame di Pohjola, ossia Pohja, deriva dal sostantivo finn. pohja, “fondo, nord (poetico)”.

[11] Il motto del Pohjan pojat - all’epoca sotto il comando dell’estone Hans Kalm - era appunto «Hakkaa päälle, pohjan poika!», ossia «Spazzateli via, oh figli del Nord!», un detto risalente forse all’epoca della guerra dei Trent’anni.

[12] La suddetta è una suggestione propria dell’Autore di questo articolo, non vi sono prove tangibili per poterla validare.

[13] Finn. composto di tuone[n] (i.e. genitivo singolare del sostantivo tuoni, “morte (poetico”) e di -la (i.e. suffisso che genera sostantivi identificanti un dato luogo).
L’altro nome con cui è noto il reame di Tuonela, ossia Tuoni, deriva dal sostantivo finn. tuoni, “morte (poetico)”.

[14] Kalevala, runo XV.

Kalevala. Una breve presentazione - parte II

 «Il modo in cui i canti alla base del Kalevala venivano recitati trova le sue radici nella tradizione sciamanica dei Finnici: un primo cantore e un secondo cantore battono il tempo con le mani eseguendo i canti in canone, accostandovi formule magiche e incanti. È questo un uso che ricalca - tranne che nel nome dei due praticanti - quello delle figure più arcaiche dello sciamano e del suo aiutante. Le consuetudini sciamaniche storicamente si costruivano attorno all'uso di tamburi e al canto, due peculiarità che sono proprie dei laulajat[5] finlandesi»[6]. Gli stessi protagonisti dei runi del Kalevala erano sciamani e cantori, primo fra tutti Väinämöinen a cui si deve la fabbricazione del secondo kantele[7], su ispirazione del primo kantele realizzato dal fabbro Ilmarinen. Si può dire che per quei cantori rurali con cui Elias Lönnrot entrò in contatto nel corso dei suoi viaggi, il recitare gli antichi canti avesse ancora una forte connotazione sacrale. È importante ricordare che spesso la figura del cantore kareliano collimava spesso con quella di guaritore-consigliere.
 
Con il suo sesto viaggio, da lui compiuto sul finire del 1834, Elias Lönnrot concluse la sua prima raccolta di canti che pubblicò fra il 1835-1836 in due volumi con il titolo di Kalewala, taikka Wanhoja Karjalan Runoja Suomen Kansan muinoisista ajoista (i.e. Il Kalevala, ossia antichi poemi kareliani sui tempi passati delle genti finlandesi). Subito dopo la pubblicazione di questa prima edizione, Lönnrot continuò a raccogliere testimonianze orali sinché nel 1849 pubblicò una nuova versione della raccolta ampiamente rimaneggiata. Secondo lo storico Väinö Kaukonen, un 3% dei versi di questa nuova versione fu composto autonomamente dallo stesso Lönnrot senza far riferimento a varianti di qual sorta, un 14% fu composto dal Lönnrot basandosi sulle varianti esistenti dei vari canti, un 50% subì un minimo rimaneggiamento per renderlo più comprensibile al lettore finlandese ignaro del dialetto kareliano e l’ultimo 33% rimase intaccato[8].

 

Note:

[5] Finn. nominativo plurale del sostantivo laulaja "cantore, cantante", in questo caso "cantore".

[6] cfr. R. Giddings, Sami Culture. «Shamans of the Kalevala: a Cultural Analysis» [In rete] https://www.laits.utexas.edu/sami/diehtu/siida/shaman/kalev.htm (11 Giugno 2021):

The manner of delivery for the songs which constitute the basis for the Kalevala has roots in the shamanic tradition of the Finns, with a foresinger and aftersinger clutching hands as they invoke the songs, charms and incantations which mirror the precursor roles of shaman and shaman’s helper in everything but name. Shamanic tradition historically relies on drumming and singing, both of which characteristically are featured in the Finnish laulajat.

N.B. Sull’argomento si consiglia: https://www.spiritboat.ca/2012/04/the-rise-of-kalevala-era-shamanism.html?m=1.

[7] Strumento musicale tipico della tradizione ugrofinnica. La creazione del secondo kantele è narrata nel quarantaquattresimo runo

[8] cfr. V. Kaukonen, Lönnrot ja Kalevala, in «Finnish Literature Society», 1979.

Kalevala. Una breve presentazione - parte I

Alla stregua di quanto stava accadendo in tutta Europa, con la riscoperta da parte del mondo accademico del materiale epico-mitologico afferente al popolo germanico e a quello celtico, anche in Finlandia si venne a creare una raccolta dei canti legati alla tradizione ancestrale delle genti che un tempo l’abitavano. Filologo nato in una povera famiglia nella Finlandia del Sud nei primi dell’800, in un’epoca in cui la Finlandia era ancora un ducato sotto il controllo dell’Impero russo e la lingua ufficiale era lo svedese[1], Elias Lönnrot prese l’impegno, assieme ad altri intellettuali, a strutturare le basi per la nascita di una coscienza nazionale finlandese.
Lo sforzo principe compiuto da Lönnrot fu quello di riunire in un unico corpus quei vari canti epici della tradizione orale della Karelia e del resto della Finlandia orientale il cui materiale poetico risaliva a più di tre millenni fa. I suddetti iniziarono a essere messi parzialmente per iscritto sin dai primi anni del secolo XVII da figure vagamente interessate alla materia ma fondamentalmente sino al secolo XIX rimasero per lo più diffusi per via orale. Fra il 1828 e il 1834, Elias Lönnrot compì sei viaggi in varie zone della Karelia con lo scopo di mettere per iscritto l’epica kareliana e salvarla dalle nebbie del tempo.
Numerosi erano i cantori kareliani che mantenevano intatta questa tradizione; fra tutti questi spiccava Arhippa Perttunen il quale nel 1834, durante il quinto viaggio compiuto da Lönnrot nella Finlandia rurale dell’Est, cantò nel dialetto careliano alcuni dei poemi di sua conoscenza. Questi, dotato di un’eccezionale memoria, recitò un numero elevatissimo di versi dinanzi a Lönnrot. Stando allo studioso Väinö W. Salminen, i versi che Arhippa Perttunen conservava nella sua virsilippaansa[2] ammontavano a più di diecimila, un repertorio quindi sconfinato[3]. Si può affermare con certezza che ben un terzo dei versi contenuti nei runi[4] della prima edizione del Kalevala è da attribuire al Perttunen.

 

Note:

[1] Prima di passare all’Impero russo, in seguito alla guerra di Finlandia fra Svezia e Russia del 1808-1809, il granducato di Finlandia era territorio svedese.

[2] Finn. composto di virsi - troncamento di virsien, genitivo plurale del sostantivo virsi “canto, inno sacro” - e lippansa - possessivo di terza persona singolare del sostantivo lipas “baule, scrigno”; insomma “scrigno dei canti”, metafora per ‘memoria’.

[3] cfr. H. Sihvo, Karjala - Laulun ja sanan maa, Karisto Ed., 1983, ISBN 9512320894, pp. 11-16.

[4] I runi (dal finn. runo - sostantivo che sta a indicare un poema o una sua sezione; nom. plur. runot) sono i vari canti di cui il Kalevala è composto. I suddetti sono in tetrametri trocaici, aventi però foggia peculiare, e venivano eseguiti dai cantori su due linee melodiche antifoniche costruite sulla serie musicale del pentacordo. Il ritmo della melodia era solitamente in cinque quarti ed il tutto era accompagnato dal kantele, strumento a corde della tradizione finlandese la cui creazione è da attribuirsi allo stesso Väinämöinen (uno dei protagonisti del Kalevala).

mercoledì 30 giugno 2021

Regnum Langobardorum, Regnum totius Italiæ

I longobardi hanno goduto per secoli di cattiva fama presso la storiografia italiana, fino a parte del secolo scorso di matrice generalmente cattolica. 

Troppo barbari, troppo pagani, troppo riottosi e con il vizio di bruciare e saccheggiare chiese, monasteri e compagine (vizio che, per amor di verità, va detto che non persero mai, nemmeno nelle fasi finali del regno quando dovevano essere, almeno in parte, più cristianizzati). 

Eppure, se analizziamo la storia del nostro paese con sguardo sincero e senza preconcetti più o meno filo-papali, possiamo trovare nei longobardi ben più che un mero popolo barbarico, capitato per caso in un mondo, quello tardo romano, che gli era completamente alieno. 

E non siamo i primi a farlo, ed anzi fortunatamente negli ultimi anni stiamo assistendo sempre più ad una riscoperta, e ad una conseguente rivalutazione, del prezioso apporto longobardo alla nostra Patria, apporto di sangue, che rimpolpò le campagne cisalpine e non dopo la disastrosa guerra greco-gotica, e di spirito con la prosecuzione, almeno per il primo secolo e mezzo di dominazione (e a livello popolare molto più a lungo), di sacri riti in onore degli Dèi immortali e della nostra terra. 

Perché i longobardi non furono un incidente nella storia d’Italia, si insediarono nella nostra penisola, la tennero, la protessero e vi rimasero facendo di essa la propria Patria, la terra alla quale il Fato e la volontà degli Dèi li aveva destinati. 


E qui taluni, probabilmente ancora preda di una visione manzoniana, ben più romanzata che veritiera, del Regnum Langobardorum (che ricordiamolo era anche detto Regnum totius Italiæ) potrebbero vedere in essi degli invasori, ma la cosa sarebbe forse veritiera per pochi decenni e non certo applicabile all’intera esperienza politica longobarda. 

Va infatti considerato che i Longobardi, a differenza dei bizantini, che furono in diverse occasioni realmente invasioni e ai quali si devono le peggiori distruzioni che la nostra terra abbia mai subito, non avevano altri centri di potere, altra “Patria” che non fosse quella in cui erano stanziati. 

Erano giunti per restare, e avevano bisogno dai nativi italici e questi ultimi, in breve tempo, si resero conto di avere bisogno di questo nuovo popolo al punto da preferirlo, e di gran lunga, alla presenza bizantina. 


È lo stesso Papa Gregorio a dircelo arrivando a lamentarsi, in alcune epistole dirette all’Imperatore Maurizio, che non solo gli italici preferivano la dominazione longobarda ma che addirittura molti abitanti di Corsica, Sicilia e Sardegna avevano abbandonato Bisanzio per unirsi alla “nefandissima nazione dei Longobardi”. 

Del resto il ricordo del buon governo ostrogoto, il cui regno ricordiamolo era caduto da soli quindici anni al momento dell’arrivo dei longobardi, era ancora vivo fra le genti d’Italia e il confronto con i nuovi dominatori, che vedevano nell’Italia poco più che una colonia, era impietoso. 

E sono le stesse fonti romee a dircelo, la corrispondenza fra l’Imperatore ed il Papa in primo luogo. 

Tasse arbitrarie, troppo alte per dei territori prostrati dalla trentennale e crudele guerra appena passata, ed eccessivo uso di truppe mercenarie, spesso mal pagate e comandate, alienarono velocemente a Bisanzio il supporto degli italici, se mai lo aveva avuto si intende. 

E cosa c’entra questo con il Regno Longobardo? Ben più di quanto non paia ad occhio profano, vi erano infatti forti legami fra i popoli, politici e di sangue, ed è quindi sempre più accettata l’idea che la conquista longobarda altro non fosse, agli occhi di Alboino e della nuova élite langobarda, una sorta di restaurazione del fu regno teodoriciano, legittimata dai legami di stirpe che univano il sovrano con il leggendario Teodorico il grande.

L’inizio di una nuova era, certamente, ma in continuità con un passato la cui grandezza era ancora scolpita nella memoria popolare delle genti d’Italia. 


I longobardi si insediarono quindi prima a Nord del fiume Po e successivamente in buona parte dell’Italia continentale, inizialmente come forza di occupazione finendo però con il fondersi, con percentuali diverse a seconda della zona geografica, con gli italici presenti sul territorio e dando alla nostra Patria nuova rilevanza, elevandola dallo stato di sudditanza ad una patria straniera, maledizione che purtroppo, caduti i longobardi come potenza militare autonoma, tormenterà per secoli queste terre. 


La stessa differenza fra autoctoni e nuovi dominatori diventa via via sempre più labile e già dopo cinquant’anni dalla conquista iniziano a comparire fra i ranghi degli Arimanni, gli uomini liberi membri dell’esercito, al fianco di nomi chiaramente longobardi, nomi latini, a testimoniare una avvenuta integrazione fra le nuova stirpe e quelle già presenti sul territorio italico. 


I longobardi divennero quindi più romani ed i romani più longobardi, al punto da arrivare, già dal tardo VII secolo, a definirsi longobardi anch’essi, e non solo nelle zone a più forte stanziamento longobardo. 

Vuoi per legami di sangue, dopo quasi un secolo e mezzo in molti avevano almeno un parente o due tali, vuoi per motivi giuridici (il diritto longobardo e quello romano convissero a lungo, e ciascuno aveva il diritto di essere giudicato secondo quello nel quale si riconosceva) fino ad arrivare a questioni identitarie (i romani, o più precisamente romei, erano a livello popolare identificati come i bizantini, visti sempre più come nemici dalla popolazione).


Del resto si viveva nel regno longobardo, il sovrano era il Re dei Longobardi oltre che Re d’Italia e divenne quindi naturale, per la maggior parte degli appartenenti a questo regno, ritenersi tali. 

In definitiva di può quindi affermare senza eccessiva difficoltà che lo scambio fu proficuo e condiviso, e che andò a plasmare l’Italia per come la conosciamo, con il suo insieme di genti, differenze e tradizioni che ne fanno la nostra comune Patria. 







giovedì 27 maggio 2021

Di pace, guerra e Dèi

 

“Per i valorosi, i doni offerti dalla guerra sono la libertà e la fama.”

Licurgo di Sparta, attribuita

 

La pace.

Cos’è la pace? Illusione, prima di tutto, ma anche prosperità, tranquillità e riposo.

Essa è il naturale contraltare della guerra, periodo necessario alla riflessione e alla creazione, di preparazione per il momento dell’azione.

E la guerra, cos’è la guerra? Azione e impeto, distruzione e trasformazione.

In essa si compie la necessaria esplosione delle forze che si sono accumulate nei periodi di pace, in lei, amante volubile, si compie il destino degli uomini, taluni, se sufficientemente abili e coraggiosi, ne possono cogliere i frutti più dolci nella forme della gloria e del potere, altri, molti altri, non ottengono altro che morte e dolore. Così va il mondo del resto, e questa è la volontà del Fato.

Nel nostro tempo oppresso dalla minaccia nucleare la pace è diventata un dogma, una costrizione a-naturale che blocca l’uomo in un’unica fase della propria esistenza, che non permette alcuna elevazione ad una gloria realmente eterna.

Viviamo in un ciclo interrotto, una anomalia fatta di prosperità decadente, nevrosi di massa e illusioni, ci dibattiamo in questa epoca sterile, che esalta la meschinità e l’ignavia, la tolleranza e la debolezza e che teme gli eroi mentre esalta ogni genere di feccia.

Alle leggi della natura, alle leggi del Cosmo e degli Dèi, abbiamo sostituito il culto della debolezza, al culto degli eroi e degli antenati l’esaltazione di folli imbelli e fanatici, il risultato non poteva essere molto diverso. Il fatto che ora questi ultimi siano stati sostituiti da feticci altrettanto imbelli non cambia la solfa: il culto della debolezza non giova che ai deboli, esso odia profondamente e ferocemente tutto ciò che è alto e superiore, ed è per questo che desidera livellare ogni cosa, quale che sia il prezzo che questa nostra terra di mezzo dovrà pagare questa follia.

Opponetevi a tutto questo, siate uomini e donne liberi, formate delle Fare, seguite gli Dèi, tributate loro il giusto culto, riunitevi fra voi, migliorando nella competizione e nella fratellanza, tenendo viva la fiamma fino a quando il mondo crollerà per poi rinascere nuovamente in un ciclo che nessuno, nemmeno gli idolatri del nulla, potranno bloccare.

 

 

giovedì 29 aprile 2021

Il carme di Ildebrando, l’ipotesi longobarda

Di questo celeberrimo poema è stato scritto moltissimo, meraviglioso esempio di letteratura germanica esso rappresenta mirabilmente uno dei topoi più ricorrenti nelle saghe germaniche ed indoeuropee: l’incontro fra un padre e un figlio che, a causa di un Fato ineluttabile e dei propri doveri tribali di stirpe, sono costretti a combattere fra loro.

L’ambientazione è quella della conquista della nostra penisola da parte di Teodorico, che sarà successivamente ricordato come “il grande”, quello stesso Flāvius Theoderīcus la cui importanza nella storia Patria non è seconda a nessuno dei grandi eroi di cui il nostro passato è costellato e a cui è da attribuirsi la fondazione del Regnum Italiae in forma geograficamente simile a quanto è oggi inteso.

 

Non è dato sapere quale battaglia, fra le molte combattute fra Teodorico ed Odoacre, faccia da sfondo a questo duello, per quanto alcuni indizio, come il fatto che i contendenti si trovino a piedi a fronteggiarsi fra le fanterie (è lo stesso Hildebrand a ricordare quale sia sempre stato il suo ruolo in battaglia “Vagai, per estati e inverni, sessanta, lontano dalla patria; e sempre fui assegnato tra le schiere dei lancieri”) fa propendere per la battaglia di Verona lungo il fiume Adige o per quella di Pizzighettone, nel cremonese, lungo il fiume Adda, sono infatti queste quelle ad aver coinvolto più duramente la fanteria.

Ma quali sono le origini di questo poema? Quale popolo lo ha composto?

L’argomento ha interessato, e continua ad interessare, diversi studiosi, la lingua è sicuramente germanica, e rientra nell’alveo continentale e/o anglosassone ma l’attribuzione è tuttora assai discussa pur essendovi almeno quattro filoni principali per la stessa: quello anglosassone, ormai poco supportato in quanto non presenta altri indizi se non una certa affinità stilistica e lessicale, quello basso-tedesco, quello gotico, anch’esso considerato desueto ed infine quello longobardo bavarese, sul quale verte questo articolo.

I legami fra il Regnum teodoriciano e quello Longobardo sono infatti fittissimi, specialmente in quella che un tempo era detta Langobardia Maior, e ben anteriori alla conquista longobarda della penisola e alla conseguente collaborazione militare e politica.

Oltre ai contatti dovuti alla comune presenza in area danubiana durante il V secolo ve ne sono altri, attestati, di natura genealogica e matrimoniale.
Alboino, il conquistatore d’Italia e primo Re dei longobardi della nostra penisola discendeva infatti per parte materna da Amalaberga, sorella di Teodorico e non è certo un caso che, giunto in Italia, questi si sia stanziato in Verona nel palazzo del proprio celebre parente.

La distanza fra la caduta del regno Goto (553 era comune) e quella della conquista longobarda (568) è infatti minima ed i nuovi dominatori inglobarono fra le proprie schiere non solo i goti già presenti sul suolo italiano ma anche la memoria del loro illustre predecessore e dell’epoca aurea ad esso legata.

L’inserimento del grande Re, e delle sue gesta, fra le canzoni eroiche dovette quindi risultare naturale al fine di garantire, per legami di stirpe, maggior legittimità alla recente conquista.

Il contesto storico culturale, oltre ad indizi linguistici quali il “-brant” presente nei nomi dei due protagonisti e riferibile specificatamente all'antroponimia longobarda e bavarese, è quindi decisamente favorevole e rende questa tesi assai rappresentata oltre che ovviamente affascinante per chi, come me, ha fatto dell’amore per le proprie origini uno dei punti cardine della sua esistenza.

Vi lascio con gli splendidi versi finali del poema, presi dalla traduzione curata dal sito Bifrost (e che potete trovare a questo indirizzo: https://bifrost.it/GERMANI/Fonti/Sapienzatedesca-Hildebrand.html)

 

“Allora scagliarono dapprima

le lance di frassino,

raffiche aguzze

si conficcarono negli scudi.

Poi avanzarono insieme,

spaccarono i ripari decorati,

percossero con violenza

i bianchi scudi,

e le tavole di tiglio

andarono in pezzi

colpite dalle armi…”

sabato 24 aprile 2021

Speranza

Qualche tempo fa, un utente commentò così sotto un post della nostra pagina Facebook:

è proprio dalla lotta contro gli dei che nasce la speranza

Il post era il seguente:
 

La domanda che in me sorse spontanea nel leggere quel commento fu questa:
Quanto senso ha l’asserire che la speranza nasca e che essa nasca proprio dalla lotta contro gli Dèi?
Orsù, scopriamolo assieme.

A parer mio la speranza non nasce, la speranza la si possiede e basta. Anzi, il termine "speranza" presenta un'accezione vaga; è meglio utilizzare il termine "sentimento" dove con "sentimento" si va a definire quella pulsione irresistibile che ci spinge addentro il nostro futuro.
La speranza come viene oggi intesa è menzognera. Il sogno, di questi tempi spesso erroneamente legato al concetto contemporaneo di speranza, diviene ragione di vita e motore delle proprie aspettative e delle proprie azioni. Un tempo il sogno era inteso come esperienza rivelatrice del proprio fato e non come rifugio dalla realtà circostante. La realtà, fosse essa futura o passata, diveniva componente primaria del sogno, ne diveniva oggetto e al tempo stesso soggetto. Il reale e il metafisico erano fusi assieme indissolubilmente nella dimensione onirica del sogno tanto da rendere il confine fra i due indistinguibile.
Il sogno nella società moderna è legato invece al fantastico e all’immaginazione. Il sogno diviene dunque un qualcosa che non è né reale, né metafisico ma puro e semplice canovaccio su cui scrivere un finale alternativo, un esercizio narrativo nato da quella insoddisfazione per il proprio presente che spesso attanaglia l’uomo contemporaneo. Nascono così differenti desideri, differenti aspirazioni che distolgono l’individuo da quel sentire, da quella pulsione irresistibile che ogni individuo dovrebbe seguire.
Nel corso della vita, numerose volte ci siamo sentiti dire frasi all’apparenza fra loro differenti ma in realtà afferenti al tipo standard del «come fai a essere così sicuro del tuo essere?». In un mondo in cui tutto è incentrato sulla relatività del reale e sull’inesistenza del metafisico e dunque sul rigetto del concetto di “unica verità perseguibile ma spesso inconoscibile in quanto posta al di là di ciò che è tangibile”, l’innumerevole schiera di sensazioni e di desideri fa nascere nell’individuo il germe dell’insoddisfazione portandolo sempre più verso l’incertezza. Il “sentimento” di cui si era accennato in apertura viene così dai più confuso con la sensazione, una pulsione più bassa che esige e richiede soddisfazione.
Numerosi membri dell'intellighenzia contemporanea sono poi soliti ripetere che «gli archetipi decadono perché non più utili». Nulla di più sbagliato. Gli archetipi, ossia i valori fondanti di un popolo, vengono meno proprio perché la maggioranza di quel determinato popolo, con il progredire della tecnica e con il sorgere di comodità artificiali, rinuncia al suo essere, divenuto troppo scomodo da portare avanti se posto a confronto con il nuovo stile di vita che gli viene offerto. Gli archetipi vengono dai più abbandonati proprio per soddisfare quelle sensazioni, quelle bramosie passeggere che attanagliano l'uomo contemporaneo. Gli archetipi però restano immutati, sono gli uomini invece a cadere.
Ecco che il tendere verso il proprio fato, ossia il manifestare la propria volontà di potenza a scapito delle sensazioni, è un qualcosa che non ha più posto in un simile schema di pensiero dove la realtà fisica viene mutata in legge assoluta e dove la sua componente metafisica diviene mera superstizione da rimuovere allo scopo di poter meglio soddisfare quelle sensazioni che ci appaiono così reali e tangibili. Le sensazioni restano però semplice proiezione nel reale della propria insoddisfazione, ossia manifestazione delle proprie speranze dettate da un bisogno passeggero, individuale ed effimero, in quanto risultato del modus vivendi dell’individuo che lo prova.
Il Fato a cui sia gli Dèi che gli uomini sono soggetti è invece universale e ineluttabile in quanto fondamento di quel ciclo di eterni ritorni che è proprio del nostro mondo.
In questo ciclo, in questo moto di rivoluzione bisogna “sperare” e confidare.

martedì 6 aprile 2021

Re Penda, completo

Riproponiamo oggi, completo ed in forma di pdf, uno dei primi articoli comparsi su questo blog quasi tre anni fa e dedicata alla figura di Re Penda, campione della fede eterna ed eroe immortale.

https://drive.google.com/file/d/1rEfDyFdfp9XridbTTfDE4JZb-6vLIkCF/view?usp=sharing

domenica 14 marzo 2021

Tredesin de Mars

Milano è universalmente conosciuta come la città della moda, nonché come la capitale economica d’Italia. Se poi entra in gioco l’eterna diatriba paganesimo vs cristianesimo, allora non può non venire in mente lo scontro fra Sant’Ambrogio, il famoso vescovo meneghino, e Simmaco per l’altare della vittoria. Ma la storia non finisce qui, tutt’altro. Poco prima dell’equinozio esiste una festività chiamata tredesin de Mars, ossia il 13 marzo. Stando alla leggenda (cristiana), il 13 marzo del 51 Barnaba aveva provveduto a introdurre nel capoluogo meneghino la nuova religione, tuttavia nello stesso ancora convivevano due precedenti tradizioni, e cioè quella celtica e quella romana. Erano stati rivali militarmente, però nel caso religioso è possibile notare un certo sincretismo, dato che il tempio di Minerva sorgeva nel sito sacro a Belisama.

Ma come è stata introdotta la nuova religione? Barnaba aveva diplomaticamente (sic) interrotto una celebrazione e aveva conficcato una croce al centro di una pietra che recava una raggiera di 13 linee, oggetto del preesistente culto celtico. Tanto per cambiare, questa non è di certo una testimonianza di pace, amore ed integrazione, bensì di volontà di eliminazione del precedente sostrato per imporre qualcosa di avulso, alla faccia di chi lo considera un elemento identitario e italico al 100%.

Si può anche notare l’importanza del numero 13, non solo a livello di datazione ma anche per i già detti raggi. Ma 13 sono le stelle della costellazione della Vergine, che si può vedere ampiamente in cielo in questo periodo dell’anno. La stella più importante si chiama Spica e prende ispirazione dalla spiga di grano che lei tiene in mano. Anche qui si può notare la sovrapposizione di un archetipo nuovo a discapito di quello vecchio, dal momento che quella che ora è la Vergine prima era identificata con Astarte, Demetra, Minerva ma soprattutto Persefone. La costellazione appare a febbraio e resta fino all’autunno, rimarcando il momento in cui Persefone usciva dall’Ade per portare la vita in terra. 

Articolo di Giulia Re


P.S. Si ringrazia la pagina “Fuochi nella nebbia” per le informazioni bibliografiche.

sabato 13 marzo 2021

Il segreto del Bosco Vecchio - Completo (file .pdf)

Condividiamo con i nostri lettori l'articolo completo su Il segreto del Bosco Vecchio. Per accedervi basta cliccare sul seguente link:

https://drive.google.com/file/d/1sGVfZk56kajshiPbjDt1mIYwfA-qM619/view?usp=sharing 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte III

Il successo di quest’opera così come pure di tutti gli altri scritti del Buzzati non fu certo immediato:
 

Buzzati scrive le sue opere di maggior successo nel periodo in cui si esplica con maggior entusiasmo l’attività dell’avanguardia conosciuta come Gruppo 63. Ispirandosi alle avanguardie di inizio secolo, il Gruppo 63 si richiamava alle idee del marxismo e allo strutturalismo. Fu dunque inevitabile che Buzzati finisse sotto gli strali dei suoi esponenti.
Lo scrittore risultava essere stato iscritto al Partito Fascista, come molti intellettuali della sua generazione, ma a differenza di altri non aveva mai fatto pubblica abiura di quella sua appartenenza. Inoltre, era indubbio il fascino che provava per il mito, declinato in diverse forme: la guerra (specialmente quella navale), la montagna, il soprannaturale, le grandi personalità del suo tempo.
[...]
E questa è la ragione per cui i romanzi antimodernisti scritti da autori classificati di sinistra (come Bianciardi e Mastronardi) sono stati osannati, mentre intorno a Buzzati si è creata una vera e propria coltre. Ancora oggi, si può leggere online l’intervento redatto da Marcello Carlino nel 1988, in cui afferma: «Un amore esprime appieno i cedimenti dello scrittore ai miti e alle mode e insomma al mercato della letteratura: correva l’anno 1963, quando, mentre pullulavano i primi best sellers, veniva allo scoperto la feroce contestazione della neoavanguardia. […] L’intreccio è ancora di quelli ben oliati e a forte tenuta ed esibisce, con uno strisciante e remunerativo moralismo, tutti gli ingredienti di una narrativa di consumo: una storia d’amore spesso pruriginosa e piccante, un personaggio femminile – Laide – che è l’erotica Lolita di turno, gelosie sempre gradite al lettore e una montante febbre di vita che brucia e ringiovanisce l’architetto Dorigo» (M. Carlino, Buzzati Traverso, Dino, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 34, Istituto Treccani, Roma 1988) All’autore viene successivamente rimproverato: «La caduta del fascismo, la sconfitta militare e la Resistenza provocarono un acuto senso di disagio nel Buzzati. L’Italia toccava il fondo della crisi; venivano spazzati di colpo e cadevano come un castello di carte le idealità e i miti, quello militare soprattutto, che tanto avevano fatto breccia nel narratore» (M. Carlino, Buzzati Traverso, Dino, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, cit.).
Il valore antimodernista, ancorché sottotraccia, viene passato sotto silenzio. [...]


- E. Rulli, Bietti, «Dino Buzzati, l’antimodernista. Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018» [In rete] http:// www.bietti.it/riviste/dino-buzzati-nostro-fantastico-quotidiano/dino-buzzati-lantimodernista/ (12 Marzo 2021).


Da Il segreto del Bosco Vecchio il regista Ermanno Olmi trasse la sceneggiatura dell’omonimo film, realizzato molti anni dopo la morte dell’autore del racconto. Lo sceneggiato dell’Olmi si distacca in molti punti da quanto tracciato da Dino Buzzati nella sua opera e, secondo mia personale considerazione, avrebbe non poco deluso quest’ultimo se questi avesse potuto guardarlo.
I meriti della fattuale, seppur distorta, bellezza del film non sono certo d’attribuire al suddetto regista bensì all’opera stessa del Buzzati e alla recitazione di Paolo Villaggio nel ruolo del colonnello Procolo. Il segreto del Bosco Vecchio viene ridotto nello sceneggiato di Ermanno Olmi a banale operetta sugli errori dei grandi che dimenticano l’essenza della fanciullezza e, come è consuetudine del suddetto regista, a satira sprezzante di tutto ciò che afferisce all’ambito militare.
Ecco che, nella scena rappresentante la cerimonia del passaggio di consegne al nuovo colonnello del comando del reggimento, si può vedere un Paolo Villaggio pulirsi il volto con la bandiera nell’atto di salutare la stessa [3], oppure, nella marcia d’addio del reggimento al morente colonnello Procolo, uomini curvi e mesti dai movimenti impacciati. Infine manca del tutto la parte in cui Benvenuto accompagna il morente vento Matteo verso il suo ultimo viaggio.

 

Note:

[3]     Cosa che mai il colonnello Procolo avrebbe fatto. Buzzati descrive così l’avvenimento:

Quando egli diede le dimissioni dall’esercito, i soldati del suo reggimento trassero un sospirone, poiché difficilmente si poteva immaginare un comandante più rigido e meticoloso. L’ultima volta ch’egli varcò, uscendo, il portone della caserma, lo schieramento della guardia ebbe luogo con speciale celerità e precisione, come da alcuni anni non avveniva; il trombettiere, che pure era il migliore del reggimento, superò veramente se stesso con tre squilli di attenti che divennero proverbiali, per il loro splendore, in tutto il presidio. E il colonnello, con un leggero inarcamento delle labbra che poteva sembrare un sorriso, mostrò d’interpretare come segno di commosso ossequio quella che in sostanza era una manifestazione di intimo giubilo per la sua partenza.

- D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 3, 4. 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte II

Ecco che - seppur in sordina rispetto ad altri suoi romanzi - il Leitmotiv della modernità come forza che, tramite il progresso della tecnica, devasta l’essenza preesistente, arcana e metafisica delle cose, viene qui riproposto dall’autore bellunese.
In seguito ad alterne vicende, una fra tante la liberazione del folle e possente vento Matteo operata dal colonnello Procolo, quest’ultimo giunge a patti con il Bernardi, portavoce delle istanze dei genî di Bosco Vecchio e loro più giovane elemento, per salvare la vita del nipote Benvenuto a cui si era con il passare del tempo tremendamente affezionato.
Benvenuto, contro tutte le previsioni dei dottori che l’avevano visitato, sopravvive alla tremenda febbre che l’aveva colpito. Si arriva così all’epilogo dell’opera che si articola in due episodi differenti, aventi luogo fra la notte del 31 Dicembre 1925 ed il mattino del 1 Gennaio 1926 e riguardanti i destini del colonnello Procolo, del vento Matteo e del giovane Benvenuto. Sono questi i due episodi che, se osservati con attenzione, svelano l’essenza più profonda, la maieutica più nascosta di quest’opera all’apparenza banalmente favolistica.
La morte per assideramento del colonnello Procolo, avuta luogo nella notte di Capodanno in seguito al tentativo di salvare il nipote Benvenuto che egli erroneamente credeva travolto da una slavina, diviene redenzione ultima di un uomo disonorato che da tempo si era allontanato dal mos che aveva seguito durante tutta la sua carriera militare; troppo a lungo Sebastiano Procolo aveva rincorso il proprio interesse più gretto, quello di conservarsi il più possibile integro e ricco nella sua anzianità. Egli muore così ritto nella neve vedendo sfilare dinanzi a sé il suo antico reggimento con in testa i suoi colori che splendevano alla luce della luna. I vecchi consentono al sacrificio per il futuro della gioventù.
Nella stessa notte il giovane Benvenuto, ignaro della da poco avvenuta morte dello zio Sebastiano, accompagna a sua volta il debole vento Matteo, ormai moribondo, sulla cima del Corno dove questi, come ultimo atto, gli rivela della morte dello zio alla quale lo stesso vento aveva assistito come pure del fatto che quella sarebbe stata l’ultima sua notte da fanciullo. I giovani accompagnano le precedenti generazioni sino al loro ultimo atto su questa terra per poterne portare in alto, seppur anche per un solo attimo, il ricordo.
In tutto questo dipanarsi di accadimenti la natura è onnipresente: anch’essa soggetta al fato alla stregua degli uomini [2], ne diviene immagine speculare, arcana e remota della loro più recondita essenza. Così come muore il colonnello, l’uomo, così svanisce anche il vento, il metafisico, entrambi legati indissolubilmente l’uno all’altro che, oramai giunti al termine dei loro fati, lasciano il posto all’eterno ritorno che è assieme ciclo di distruzione e rito di rinascita.

 

Note:

[2]     D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 125, 126:

Nella fonda notte, senza far uso della lampadina, probabilmente per non rivelare che l’ombra l’aveva abbandonato, il Procolo andò al Bosco Vecchio, per cercare il Bernardi. Appena egli fu giunto al confine dell’antica selva, il Bernardi sbucò fuori d’incanto.
«Cerchi di me, colonnello?» domandò il genio.
«Benvenuto sta per morire» disse il colonnello. «Mi è venuto in mente: voi genî non potreste fare qualcosa? Non avreste forse qualche rimedio?»
«Secondo» rispose il Bernardi. «Gli uomini alle volte muoiono perché “devono” morire; ci sono delle leggi che non si possono spezzare. Ma se è come dici... capisco... è un bambino... Sì, noi genî al proposito sappiamo qualcosa, un resto della nostra antica potenza. Sì, noi potremmo provare...» 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte I

Il segreto del Bosco Vecchio è uno dei brevi romanzi scritti nel secolo scorso dall’autore Dino Buzzati e pubblicato per la prima volta a Milano nel 1935.
Opera incentrata su un Leitmotiv che ha dell’ancestrale, quello del metafisico nella natura, Il segreto del Bosco Vecchio si apre seguendo lo svolgersi delle vicende del colonnello Sebastiano Procolo il quale, alla morte di suo zio Antonio Morro, aveva da questi ereditato vari ettari di terreno boschivo da adibire a taglio siti nei pressi di Valle di Fondo assieme al cosiddetto Bosco Vecchio.
 

Fin dai secoli scorsi, tutti si erano accorti che il Bosco Vecchio era diverso dagli altri. Magari non lo si confessava, ma questo era un convincimento comune. Che cosa ci fosse di diverso nessuno però lo sapeva dire.
Fu solo all’inizio del secolo scorso che la realtà venne chiaramente scoperta. Cosa ci fosse di speciale nel Bosco Vecchio lo capì benissimo l’abate don Marco Marioni durante un viaggio in quella vallata. Il fatto non gli parve gran che strano e breve è il cenno da lui fatto nelle «Note geologiche e naturalistiche di un sacerdote pellegrino» pubblicate nel 1836 a Verona.
Sono notizie succinte ma molto chiare:
“Piacquemi, in quel di Fondo, pascere la mia vista di una mirabile visione; visitai una ricca foresta, che quegli alpigiani denominano Bosco Vecchio, singolare per l’altezza dei fusti, superanti di gran lunga il campanile di San Calimero. Come io ebbi a notare, quelle piante sono la dimora dei genî, quali trovansi anche in boschi di altre regioni. Gli abitanti, a cui chiesi notizia, pareano ignari. Credo che in ogni tronco sia un genio, che di raro ne sorte in forma di animale o di uomo. Sono esseri semplici e benigni, incapaci di insidiare l’uomo. Estendersi tale foresta per jugeri...”
[...] Solo i bimbi, ancor liberi da pregiudizi, si accorgevano che la foresta era popolata di genî; e ne parlavano spesso, benché ne avessero una conoscenza molto sommaria. Con l’andar degli anni però anch’essi cambiavano d’avviso, lasciandosi imbevere dai genitori di stolte fole.

- D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, Oscar Mondadori, Cles (TN) 2010, pp. 18-20.
 

Il resto dei possedimenti del Morro vennero da questi lasciati in eredità al nipote Benvenuto Procolo, orfano di padre e di madre. Per questa ragione, il giovane inizialmente attirò involontariamente su di sé le ire del colonnello, intenzionato a possedere la totalità dei boschi appartenuti al defunto Antonio Morro allo scopo di poterne sfruttare il legname come fonte di reddito. Incurante di come la vita dei genî del Bosco Vecchio fosse legata a quella dell’albero che abitano, il colonnello Procolo iniziò ad operare tagli indiscriminati e più di una volta cercò di liberarsi del nipote tanto da spingere gli animali della foresta a processarlo e la propria ombra ad abbandonarlo [1].

 

Note:

[1]     D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 120, 121:

«Colonnello!» disse l’ombra «io ti ho seguito fin da quando eri bambino, non ti ho mai lasciato neppure quando dormivi, ho fatto con te lunghe marce, ho cavalcato vicino a te al galoppo. Anche quando tu non ci pensavi nemmeno, io ti accompagnavo fedelmente. Mi alzavo se tu volevi alzarti, ho fatto sempre il tuo desiderio, e dimmi se mi sono mai lamentata. Un giorno poi tu hai lasciato la divisa; e mi dispiaceva, sai, di non portar più quella sciabola che dondolava attaccata al mio fianco... Eppure ho obbedito in silenzio. Ti ricordi, Procolo, non è vero?»
«Sarà anche» fece il colonnello «ma cosa vuol dire tutto questo? Dove vuoi andare a finire?»
«Hai ragione» sussurrò l’ombra «è meglio parlare chiaro: volevo dirti che ti devo lasciare.»
«Lasciarmi? Cosa hai detto?»
«Ti devo lasciare» ripeté l’ombra «devo andarmene via, perché ti sei disonorato.»
[...]
«Tornerò alla vecchia caserma, lo sai?» proseguì l’ombra dopo qualche istante di silenzio. «Ritroverò il nostro antico reggimento, sembrano tempi tanto lontani. Dovrò rintanarmi in un angolo buio, e andrò in giro soltanto di notte perché nessuno mi veda. Sì, avrei vergogna che mi domandassero: “Ombra, ohi, ombra, dov’è il tuo padrone? dov’è rimasto il signor colonnello?”. Il signor colonnello è finito, dovrei rispondere, ecco quello che dovrei rispondere, la sua sciabola l’ha mangiata la ruggine e di lui è meglio tacere.»

mercoledì 24 febbraio 2021

24 Febbraio 391

Il 24 Febbraio 391 il fuoco di Vesta fu spento e terminò anche l’antico ordine delle Vestali che, come è noto, ha una protagonista molto influente per ciò che concerne le origini di Roma, e cioè Rea Silvia. Si trattava del fulcro spirituale romano e il decreto di cui sopra era solo la punta dell’iceberg di un fenomeno sancito un decennio prima, ossia con l’editto di Tessalonica tramite il quale il cristianesimo era indicato come religione di stato dall’imperatore Teodosio.

Nella predetta data, inoltre, fu emanato il decreto teodosiano chiamato Nemo se hostis polluat in cui venne messo al bando qualsiasi tipo di sacrificio pagano, anche in forma privata, ma non solo questo:

L'Augusto Imperatore (Teodosio) ad Albino, prefetto del pretorio.

Nessuno violi la propria purezza con riti sacrificali, nessuno immoli vittime innocenti, nessuno si avvicini ai santuari, entri nei templi e volga lo sguardo alle statue scolpite da mano mortale perché non si renda meritevole di sanzioni divine ed umane. Questo decreto moderi anche i giudici, in modo che, se qualcuno dedito a un rito profano entra nel tempio di qualche località, mentre è in viaggio o nella sua stessa città, con l'intenzione di pregare, venga questi costretto a pagare immediatamente 15 libbre d'oro e tale pena non venga estinta se non si trova innanzi a un giudice e consegna tale somma subito con pubblica attestazione. Vigilino sull'esecuzione di tale norma, con egual esito, i sei governatori consolari, i quattro presidi e i loro subalterni.
 
Milano, in data VI calende di marzo sotto il consolato di Taziano e Simmaco.

 

C’era spazio anche per i cosiddetti lapsi (i.e. lat. per "caduti"), e cioè per i pagani battezzati e poi riconvertitisi al paganesimo. Dal decreto dell’11 maggio 391:

Gli augusti imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio a Flaviano, prefetto del pretorio.

Coloro che hanno tradito la santa fede [cristiana] e hanno profanato il santo battesimo, siano banditi dalla comune società: dalla testimonianza [in tribunale] siano esentati, e come già abbiamo sancito non abbiano parte nei testamenti, non ereditino nulla, da nessuno siano indicati come eredi. Coloro ai quali era stato comandato di andarsene lontano ed essere esiliati per lungo tempo, se non sono stati visti versare un compenso maggiore tra gli uomini, anche dell'intercessione degli uomini siano privati.
Se casomai nello stato precedente [il paganesimo] ritornano [i neo-convertiti], non sia cancellata la vergogna dei costumi con la penitenza, né sia riservata loro alcuna particolare protezione di difesa o di riparo, poiché certamente coloro i quali contaminarono la fede, con la quale Dio hanno riconosciuto, e orgogliosamente trasformarono i divini misteri in cose profane, non possono conservare le cose che sono immaginarie e a proprio comodo. Ai lapsi ed anche ai girovaghi, certamente perduti, in quanto profanatori del santo battesimo, non si viene in soccorso con alcun rimedio di penitenza, alla quale si ricorre ed è solita giovare negli altri peccati.

A Concordia, in data V idi di maggio sotto il consolato di Taziano e Simmaco.

 

I concetti del 24 febbraio furono ribaditi tramite il terzo decreto (del 16 giugno 391):

L'Augusto Imperatore (Teodosio) al prefetto Evagrio e a Romano conte d'Egitto. 

A nessuno sia accordata facoltà di compiere riti sacrificali, nessuno si aggiri attorno ai templi, nessuno volga lo sguardo verso i santuari. Si identifichino, in particolar modo, quegli ingressi profani che rimangono chiusi in ostacolo alla nostra legge così che, se qualcosa incita chicchessia ad infrangere tali divieti riguardanti gli dèi e le cose sacre, riconosca il trasgressore di doversi spogliare di alcuna indulgenza. Anche il giudice, se durante l'esercizio della sua carica ha fatto ingresso come sacrilego trasgressore in quei luoghi corrotti confidando nei privilegi che derivano dalla sua posizione, sia costretto a versare nelle nostre casse una somma pari a 15 libbre d'oro a meno che non abbia ovviato alla sua colpa una volta riunitesi le truppe militari. 

Aquileia, in data XVI calende di luglio, sotto il consolato di Taziano e Simmaco.

 

Il tutto fu poi completato con il quarto editto emanato l’8 novembre 392 (8 novembre che, ironia della sorte, sarebbe stato una delle tre date del Mundus Patet):

Gli augusti imperatori Teodosio, Arcadio e Onorio a Rufino prefetto del pretorio.

Nessuno, di qualunque genere, ordine, classe o posizione sociale o ruolo onorifico, sia di nascita nobile sia di condizione umile, in alcun luogo per quanto lontano, in nessuna città scolpisca simulacri mancanti di sensazioni o offra (alcuna) vittima innocente (agli dèi) o bruci segretamente un sacrificio ai lari, ai geni, ai penati, accenda fuochi, offra incensi, apponga corone (a questi idoli). Poiché se si ascolterà che qualcuna avrà immolato una vittima sacrificale o avrà consultato viscere, sia accusato di reato di (lesa) maestà e accolga la sentenza competente, benché non abbia cercato nulla contro il principio della salvezza (Dio) o contro la (sua) salvezza. È sufficiente infatti per l'accusa di crimine il volere contrastare la stessa legge, perseguire le azioni illecite, manifestare le cose occulte, tentare di fare le cose interdette, cercare una salvezza diversa (da quella cristiana), promettere una speranza diversa.
Se qualcuno poi ha venerato opere mortali e simulacri mondani con incenso e, ridicolo esempio, teme anche coloro che essi rappresentano, o ha incoronato alberi con fasce, o eretto altari con zolle scavate alle vane immagini, più umilmente è possibile un castigo di multa: ha tentato una ingiuria alla piena religione (cristiana), è reo di violata religione. Sia multato nelle cose di casa o nel possesso, essendosi reso servo della superstizione pagana. Tutti i luoghi poi nei quali siano stati offerti sacrifici d'incenso, se il fatto viene comprovato, siano associati al nostro fisco. Se poi in templi e luoghi di culto pubblici o in edifici rurali qualcuno cerca di sacrificare ai geni, se il padrone di casa non ne è a conoscenza, 25 libbre di oro di multa si propone di infliggere (al sacrificante), è bene poi essere indulgenti verso lui (il padrone) e la pena trattenere.
Poiché poi vogliamo custodire l'integrità di giudici o difensori e ufficiali delle varie città, siano subito denunciati coloro scoperti (negligenti), quelli accusati siano puniti. Se questi infatti sono creduti nascondenti favori o negligenze, saranno sotto giudizio. Coloro poi che assolvono (gli accusati di idolatria) con finzione, saranno multati di 30 libbre di oro, sottostando anche agli obblighi che derivano da un loro simile comportamento dannoso.

Costantinopoli, in data VI idi di novembre, sotto il consolato di Arcadio e Rufino.


Da tutti questi decreti si può facilmente capire che la realtà storica è totalmente diversa dalla solita vulgata che ci viene propinata da quando siamo piccoli (ad esempio al catechismo) tutta intrisa di pace, amore e solidarietà. L’opera di cancellazione di culti e persone non si fermò di certo qui. Veramente poche persone conoscono il primo Lager della storia, che, per l’appunto, fu costruito per i pagani: si tratta di Skythopolis.
È molto complesso cercarne una bibliografia in proposito in italiano, esistono solo scarne indicazioni in inglese e per di più solo su qualche forum specializzato in Storia antica. Non si sa nemmeno la collocazione precisa della stessa città, alcuni sostengono in Siria, altri in Galilea. Elementi cronologici più precisi si trovano sul sito ufficiale di Vlasis Rassias, autore del libro La demolizione dei templi (i.e. Demolish them! pubblicato nel 1994 ad Atene, con la seconda edizione nel 2000).
Dice testualmente: «Nel 359 d.C. a Scythopolis, in Siria, i cristiani organizzarono il primo campo di sterminio per la tortura e l’esecuzione dei Gentili [Pagani, ndA] da tutto l’Impero». Ammiano Marcellino, esaminato dallo studioso Arnaldo Momigliano, scrive nelle sue Res Gestae: «La città che fu scelta per testimoniare queste scene fatali fu Scythopolis in Palestina, che per due ragioni sembrava il più adatto dei luoghi; in primis perché era poco frequentata e secondariamente perché era a metà fra Antiochia ed Alessandria [...]».

Dopo Scythopolis, le persecuzioni contro i Pagani continueranno fino al 988, quando avvenne la conversione violenta – con la scusa che il Peloponneso era concepito come „una terra piena di demoni‟ - degli ultimi Greci Gentili di Laconia (i Manioti, che infatti non accettarono completamente il cristianesimo fino all’XI sec. d. C.) da parte dell’armeno Nicone il Metanoita, peraltro diventato santo patrono della città di Sparta, quella Sparta che con i suoi 300 sotto l’egida di Leonida già fronteggiò un’altra invasione da Oriente, ossia quella violenta di Serse nell’ambito delle Guerre Persiane.


I fatti sopraccitati, come già detto, di certo non danno l’idea di pace, amore e/o solidarietà, anzi, denotano la volontà di distruggere il contesto precedente con secoli di storia alle spalle. Nella quasi totalità dei casi, i culti pagani preesistenti sono stati demonizzati in piena regola e questo trattamento fu la prassi anche in territori geograficamente lontani come ad esempio la Finlandia nella quale il nome del Dio del tuono Perkele oggi è ridotto a un intercalare dalla connotazione volgare.
Per far capire meglio la portata di fatti simili, nel 2006 è stato scelto dalla Federazione Pagana il 24 Febbraio come Giorno Pagano Europeo della Memoria.

 

Articolo di Giulia Re