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martedì 30 ottobre 2018

Bragz

Stando a quanto sostenuto da studiosi della filologia germanica il teonimo Bragi deriverebbe o dalla forma debole ʻbragiʼ dell'aggettivo norreno ʻbragrʼ (i.e. “migliore”) o dal sostantivo maschile norreno ʻbragrʼ (i.e. “arte poetica”, “metrica”) il quale però se legato al termine anglosassone ʻbregoʼ (i.e. “principe”) andrebbe a significare “guerriero” o “signore”; è possibile far risalire entrambe queste forme al sostantivo maschile protogermanico *bragz (i.e. ”principe”, “signore”) seppur questo condivida il suo significato solo con il sostantivo maschile ʻbragrʼ.
Bragi - o Brage che dir si voglia - era poi il nome di quel semimitico scaldo Bragi Boddason attivo nella prima metà del IX secolo; è forse a lui che fa riferimento quel passo del ʻGrímnismálʼ (i.e. “discorso di Grimnir”, Edda Poetica) dove un certo Bragi viene definito come ʻhann er æztr skáldaʼ (i.e. “il migliore fra gli scaldi”).
Il nome Bragi è tuttora usato come nome proprio di persona la cui versione femminile è
Braga.

Bragi risiede in Ásgarðr con la sua sposa e nella ʻValhǫllʼ (i.e. “sala dei caduti”) accoglie i guerrieri morti in battaglia come testimoniato nell'anonimo ʻEiríksmálʼ (i.e. “discorso per Eiríkr”, scritto per commemorare il re di Norvegia Eiríkr blóðøx) e nel poema ʻHákonsmálʼ (i.e. “discorso per Hákon”, scritto dallo scaldo Eyvindr Finnsson per commemorare Hákon goði morto nella battaglia di Stǫrð combattendo contro i figli di suo fratello, Eiríkr blóðøx).
Si dice che Bragi abbia rune incise sulla lingua ed è forse per questo che egli è ʻhann er ágætr at speki ok mest at málsnild ok orðfimiʼ (i.e. “famoso per la sua saggezza ma soprattutto per la sua eloquenza e abilità con le parole”, Edda di Snorri, Gylflaginning).
Giocando su entrambi i significanti del termine norreno ʻbragrʼ, Snorri Sturluson nel ʻGylfaginningʼ (i.e. “inganno di Gylfi”, Edda di Snorri) ci restituisce un ritratto breve e conciso dellʼAse Bragi:

“Bragi heitir einn [...] Hann kann mest af skáldskap, ok af honum er bragr kallaðr skáldskapr, ok af hans nafni er sá kallaðr bragr karla eða kvenna er orðsnild hefir framar en aðrir, kona eða karlmaðr.”

“Bragi si chiama egli [...] Conosce benissimo l'arte poetica, che da lui chiamata ʻbragrʼ e dal suo nome viene infatti chiamato uomo migliore (i.e. “bragr karl”) o donna migliore (i.e. “bragr kvenna”) chi possieda un'eloquenza superiore agli altri.”

Nella suddetta sezione dellʼEdda di Snorri è riportato il nome della sposa di Bragi così come anche il ruolo che questa svolge in Ásgarðr; Iðunn è Dea della giovinezza e ne custodisce i pomi:

“Kona hans er Iðunn, hon varðveitir í eski sínu epli þau er goðin skulu á bíta þá er þau eldask, ok verða þá allir ungir, ok svá mun vera allt til ragnarøkrs [...]”

“Sua moglie è Iðunn, che conserva nel suo scrigno di frassino le mele che gli dèi, quando invecchiano, devono mangiare per poter tornare tutti giovani, e così sarà sempre, fino al ragnarøkkr [...]”

Nello ʻSkáldskaparmálʼ (i.e. “Dialogo sullʼarte poetica”, Edda di Snorri) Bragi spiega le ʻkenningarʼ (i.e. “metafore poetiche”) ad Ægir nel corso di un banchetto, rivelandogli i miti e i racconti che le hanno originate; da una di queste si apprende che lʼAse Bragi è figlio di Óðinn:

“Hvernig skal kenna Braga? Svá at kalla hann Iðunnar ver, frumsmið bragar ok inn síðskeggja ás - af hans nafni er sá kallaðr skeggbragi, er mikit skegg hefir - ok sonr Óðins.

“Quali sono le kenningar per Bragi? Si può chiamarlo marito di Iðunn, primo creatore della poesia, áss dalla lunga barba - da questo nome, chiunque abbia una gran barba è chiamato skeggbragi – e figlio di Óðinn.”

Bragi compare anche nella ʻLokasennaʼ (i.e. “gli insulti di Loki”) come protagonista di un velenoso scambio di invettive che egli tiene con Loki il quale aveva interrotto con insulti ed offese la quiete del banchetto organizzato da Ægir al quale avevano preso parte tutti gli Æsir e le Ásynjur. In questa circostanza Bragi mostra il suo carattere incline alla mediazione e alla diplomazia; è pronto a offrire doni a Loki purché non sparga dissapori fra i presenti ma questi lo accusa di essere un vile e lo definisce ʻbekkskrautuðrʼ (i.e. “ fronzolo da panca”) suscitando le ire del poeta che minaccia di ucciderlo. La sua sposa Iðunn interviene per metter pace fra i due.

Dalla ʻLokasennaʼ si viene poi a conoscenza del fatto che Bragi abbia dei figli sia veri che adottivi:

“Iðunn kvad: Bið ek, Bragi, barna sifjar duga ok allra óskmaga, at þú Loka kveðir-a lastastǫfum Ægis hǫllu í.”

“Disse Iðunn: Ti prego, Bragi, di pensare ai figli veri e a quelli adottivi e contro Loki di non parlare con ingiurie nella corte di Ægir.”

I loro nomi non vengono però menzionati né nella ʻLokasennaʼ né in altra fonte. Subito dopo questo breve passo segue la risposta ingiuriosa e pungente dellʼAse Loki:

“Loki kvad: Þegi þú, Iðunn, þik kveð ek allra kvenna vergjarnasta vera, síztu arma þína lagðir ítrþvegna um þinn bróðurbana.”

“Disse Loki: Sta' zitta, tu, Iðunn! Dico fra tutte la più vogliosa d'uomini sei: fra le tue braccia, ben lavate, hai stretto l'uccisore di tuo fratello.”

Forse l'uccisore del fratello (i.e. “bróðurbani”) di Iðunn è proprio lo sposo di questʼultima, Bragi, dacché nonostante Loki le attribuisca una vita sentimentale molto movimentata l'unica relazione nota di Iðunn è quella avuta con Bragi.

Infine in un verso di Egill Skallagrímsson, si parla dell'occhio di Bragi (i.e. “Bragi auga”); su questa espressione di oscuro significato alcuni studiosi hanno basato la seguente ipotesi. Bragi, avendo un solo occhio ed essendo anchʼegli Ase della conoscenza poetica, risulterebbe essere una delle varie personificazioni di Óðinn ma non essendovi attestazione alcuna di ciò questa tesi è dai più rigettata.

lunedì 29 ottobre 2018

La follia di Erisittone

Anticamente l'Europa era ricoperta da centinaia di boschi sacri, luoghi volutamente lasciati inviolati per millenni dall'uomo e in cui, nonostante l'avanzare delle città e delle coltivazioni, venivano preservate la flora e la fauna selvatica. 

Un interessante mito che tratta del legame tra uomo, divinità e ambiente naturale è quello del principe tessalo Erisittone (ρυσίχθων), le cui fonti più interessanti sono gli inni di Callimaco e le Metamorfosi di Ovidio.

Erisittone era un uomo arrogante e avido, che disprezzava le divinità e aveva solo a cuore i propri interessi. 

Un giorno decise che avrebbe costruito una grande sala per i festeggiamenti radendo al suolo un bosco sacro a Demetra/Cerere, dea madre della terra e artefice del ciclo delle stagioni. 

Questo luogo, situato a Dotio, non era mai stato toccato da mani umane. 

Callimaco dice che a stento una freccia poteva passare al suo interno tanto era folto, e che "dai rigagnoli sgorgava un'acqua come ambra". 


La Dea lo amava quanto Eleusi, il suo luogo più sacro, ma per Erisittone e i suoi uomini, incapaci di vedere la bellezza, era semplicemente un posto da distruggere per reperire legna. Nella versione di Ovidio, "Lì si ergeva una quercia immensa, secolare, ch'era lei da sola un bosco, e aveva tutto intorno al fusto addobbi di nastri, di ex voto e di ghirlande, a ricordo di grazie ricevute. Ai suoi piedi un'infinità di volte avevano danzato in festa le Driadi [spiriti delle querce], in cerchio, mano nella mano, intorno al tronco, che per le sue enormi dimensioni chiedeva più di quindici braccia per circondarlo. 


Sotto questa quercia il resto della selva scompariva, così come scompare l'erba ai piedi d'ogni pianta." Erisittone, giunto sul luogo, ordinò ai suoi venti compagni di fare a pezzi l'albero millenario. 

Quando vide che alcuni di loro esitavano, prese lui stesso l'ascia gridando: "Quand'anche non fosse solo cara alla dea, ma la dea in persona, tra poco a terra si schianterà con tutta la sua cima frondosa!". Vibrò quindi un primo terribile colpo alla quercia sacra, che parve lanciare un avvertimento alla banda di vandali. La sua corteccia sbiancò e dalla ferita nella corteccia fuoriuscì un getto di sangue. Uno dei soldati di Erisittone a quel punto si spaventò e, come risvegliatosi, cercò di impedire al suo capo di continuare la distruzione. 

Purtroppo non ci riuscì e finì per essere decapitato dal rabbioso Erisittone, che continuò poi l'abbattimento dell'albero. 

Callimaco narra che Demetra percepì subito la sofferenza delle sue piante sacre e che volle manifestarsi agli uomini per interrompere il loro operato. 

Inizialmente apparve loro nella forma di Nicippe, la sacerdotessa che presiedeva al suo culto nella città, con in mano ghirlande di papaveri e una chiave appesa alla spalla. 

La dea parlò a Erisittone con dolcezza, cercando di farlo ragionare: "Figlio, chiunque tu sia che tagli gli alberi consacrati agli dèi, fèrmati, figlio, figlio molto diletto ai genitori, fèrmati ed allontana i servi tuoi, se non vuoi che ti mostri la sua ira la dea Demetra, di cui ciò che è sacro stai devastando".  Come risposta l'avido tessalo le lanciò uno sguardo d'ira, simile a quello di un leone, minacciandola di piantare l'ascia anche nel suo corpo se avesse di nuovo interrotto la costruzione della casa in cui avrebbe elargito festini e banchetti. Intanto, invisibile, Nemesi trascrisse queste parole sulle sue tavole, decretando la fine del principe. 


Visto che la calma e la ragione non funzionavano con quei folli, Demetra si manifestò allora nella sua terribile forma divina: immensa e splendente, con i piedi toccava il suolo mentre il capo giungeva fino ai cieli. I venti compagni di Erisittone, uomini grandi "come giganti", per poco non morirono per la paura. Mentre loro, meri esecutori di ordini, fuggivano disordinatamente, la dea tuonando si rivolse al loro comandante. Chiamandolo non più "figlio" ma "cane" gli disse minacciosa che avrebbe banchettato, sì, ma senza fine. Immediatamente, una fame ardente e inarrestabile gli penetrò nelle viscere. 

Nel racconto di Ovidio, dopo la distruzione del suo albero, la dea al posto di manifestarsi agli uomini inviò una sua emissaria a cercare la Fame in Scizia, personificata come una vecchia orribile, rinsecchita e senza ventre, con il torso che pareva sospeso sulla spina dorsale. 


Seguendo gli ordini divini, la Fame si introdusse di notte in casa di Erisittone,  penetrando nel suo corpo, respirando nelle sue narici e diffondendosi nelle sue vene.

La conclusione della storia è identica: la maledizione pervase Erisittone, che divenne lacerato da un folle impulso a divorare  ogni cosa. Seduto alla sua tavola, consumava tutto ciò che producevano il mare, il cielo e la terra, senza però smettere di deperire. Torturato dalla brama di cibo e incapace di trovare pace, alla fine Erisittone mandò in rovina la sua casata spendendo ogni cosa per comprare cibo che non poteva estinguere il suo vuoto. 

L'avido principe concluse così la sua vita come un mendicante folle, costretto a racimolare avanzi alle mense e  a divorare il suo stesso corpo per la fame. 

Questa smania di cibo che attanagliava  il principe è la rappresentazione fisica del desiderio inestinguibile che lo aveva portato a non rispettare la vita umana, il mondo e le divinità che lo regolano. Demetra impose solo che il suo corpo rispecchiasse la sua anima corrotta. 


È interessante che il nome Erisittone vuol dire "colui che squarcia/apre la terra", cosa che potrebbe anche far pensare ad un mito riguardante i limiti posti verso un'attività umana e agricola sfrenata e priva di considerazione per i ritmi naturali e per le leggi divine. 

Una questione che direi essere quanto mai attuale -purtroppo- nel mondo di oggi.


Articolo dalla pagina Facebook “Mímameiðr”, pubblicato previa permesso 

domenica 28 ottobre 2018

Samhain e le cerimonie stagionali, parte IV

Trick or treat

È un'usanza di Halloween che i bambini vadano mascherati di casa in casa, chiedendo dolciumi e caramelle o qualche spicciolo ponendo la domanda 'Dolcetto o scherzetto?' nella quale la parola "scherzetto" è la diretta traduzione dell'inglese 'trick' (i.e. "inganno"). Nella formula vi è l'implicita minaccia di fare danni al padrone di casa ed alla sua proprietà nell'eventualità di non ricevere alcun dolcetto (i.e. "treat").
Esiste una filastrocca inglese insegnata ai bambini delle elementari che ricalca questa formula: "Trick or treat, smell my feet, give me something good to eat".

La pratica di mascherarsi risale al Medioevo e si rifà alla pratica tardomedievale dell'elemosina; i poveri andavano di porta in porta a Ognissanti ogni primo Novembre e ricevevano cibo dai padroni di casa in cambio di preghiere da recitare il due Novembre (i.e. giorno della commemorazione dei defunti) per i parenti di quest'ultimi che erano morti.
Questa usanza nacque in Irlanda e Gran Bretagna, sebbene pratiche simili per le anime dei morti si rinvengano anche in Sud Italia. Shakespeare menziona la pratica nella commedia del 1593 'I due gentiluomini di Verona' nel passo in cui Speed accusa il suo maestro di "lagnarsi come un mendicante a Hallowmas (i.e. Halloween)".

Alcuni storici affermano che i Celti in Samhain erano soliti travestirsi in modi spaventosi e sfilare per le strade per scacciare gli spiriti vagabondi fuori dai loro villaggi. I bambini Celti andavano di casa in casa per raccogliere legna al fine di preparare un gran falò nel centro del villaggio; una volta che il falò veniva acceso ogni altro focolare doveva essere spento per essere poi riacceso con un tizzone proveniente dal falò di Samhain del villaggio come simbolo di comunione e collegamento tra tutti gli abitanti. Ci sono documenti che evidenziano che la festività di Samhain fosse per i Celti strettamente legata all'offerta di cibo agli spiriti.

Note:
- questa usanza è presente da tempo immemore in molte regioni italiane con formule differenti da regione a regione. In Calabria ad esempio vi è la secolare tradizione del 'Coccalu di muortu' la cui formula associata è la seguente 'Mi lu pagati lu coccalu?' (i.e. "Me lo pagate il teschio?").

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

sabato 27 ottobre 2018

Samhain e le cerimonie stagionali, parte III

La simbologia di Halloween

Come ogni festa che si rispetti, non poteva mancare la classica leggenda intrisa ovviamente di contaminazioni cristiane che va a racchiuderne la simbologia condensandola in una storiella da tramandare per generazioni.
La zucca intagliata che rappresenta l'icona fondamentale della festa di Halloween è conosciuta ormai in tutto il mondo. Pochi sanno a quale episodio leggendario bisogna fare riferimento per comprenderne la natura simbolica.

L'usanza di intagliare zucche per la notte di Halloween è legata in un certo qual modo alla famosa leggenda dell'irlandese Jack O’Lantern (i.e. "Jack della lanterna"), un fabbro astuto, avaro e ubriacone che una sera al pub incontrò il diavolo. A causa del suo stato d'ebbrezza, la sua anima era quasi nelle mani del demonio ma astutamente Jack gli chiese di trasformarsi in una moneta promettendogli la sua anima in cambio di un'ultima bevuta. Mise poi rapidamente il diavolo nel suo borsello, accanto ad una croce d'argento, cosicché egli non potesse ritrasformarsi. Per farsi liberare il diavolo gli promise che non si sarebbe preso la sua anima nei successivi dieci anni e Jack lo lasciò andare. 
Dieci anni più tardi, il diavolo si presentò nuovamente e questa volta Jack gli chiese di raccogliere una mela da un albero prima di prendersi la sua anima. Al fine di impedire che il diavolo discendesse dal ramo, il furbo Jack incise una croce sul tronco. Soltanto dopo un lungo battibecco i due giunsero ad un compromesso: in cambio della libertà, il diavolo avrebbe dovuto risparmiare la dannazione eterna a Jack. 
Durante la propria vita commise così tanti peccati che quando morì fu rifiutato dal Paradiso e presentatosi all'Inferno venne scacciato dal diavolo che gli ricordò il patto, ben felice di lasciarlo errare come anima tormentata. All'osservazione che era freddo e buio, il diavolo gli tirò un tizzone ardente, che Jack posizionò all'interno di una rapa che aveva con sé. Cominciò da quel momento a vagare senza tregua alla ricerca di un luogo in cui riposarsi.

Vi starete chiedendo cosa c'entrino le zucche con tutto questo. 
La spiegazione è semplice; gli immigrati irlandesi, fuggiti dalle loro terre per la carestia della metà del XIX secolo, una volta arrivati in territorio americano non trovarono rape sufficientemente grosse da poter essere intagliate. Quel che trovarono fu una notevole quantità di zucche di dimensioni fra le più svariate; queste parvero loro un degno sostituto della rapa che in patria erano soliti usare per fabbricare una copia della lanterna del pravo Jack.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

venerdì 26 ottobre 2018

Samhain e le cerimonie stagionali, parte II

Halloween

'All Hallows Eve' (i.e. "notte prima di Ognissanti") è una festività della cultura celtica diffusa nel nord Europa e nell'Italia settentrionale, derivante dalla festa pagana di Samhain, che si festeggia il 31 Ottobre con l'ultimo raccolto. Le credenze celtiche sono incentrate su divinità pastorali, da qui l’importanza di festeggiare il passaggio da una stagione all’altra. 

Samhain annunciava l’inizio del periodo freddo, dell’inverno e divideva insieme a beltane l’anno in stagioni fredde e calde. Segnava anche la fine dei preparativi dell’inverno, con le bestie messe al riparo ed il raccolto immagazzinato. Da quanto appena detto, dipendeva la sopravvivenza della comunità intera e delle persone più deboli come vecchi e bambini. 
Legata a tutto ciò è la credenza che la sera del 31 Ottobre e la mattina del 1 Novembre il mondo dei vivi e quello dei morti si avvicinassero e le forze sovrannaturali si radunassero come in nessun altro periodo dell’anno. Ottobre è il mese in cui la natura estiva inizia a morire lentamente, per cui venivano accesi fuochi, e venivano sacrificati cereali, animali e probabilmente anche umani per ingraziarsi e placare le entità sovrannaturali legate alla fertilità della terra; per quei tempi e per il periodo che si prospettava, sacrificare il bestiame o i cereali era una grande rinuncia. 
Questa festività era rivolta all’insieme delle forze sovrannaturali che in questo giorno vagano sulla terra. Quindi lo spirito di questi giorni era quello non solo di commemorare i defunti e chiedere di vigilare sul proprio futuro e preservare la comunità, ma anche di ingraziarsi divinità ed entità sovrannaturali chiedendo di preservare le provviste, i campi ed allontanare eventi nefasti (e.g. un deposito di cereali che prende fuoco od una malattia che decima il bestiame; entrambe queste evenienze avrebbero messo a rischio la comunità intera).

Nel secolo VIII il pontefice Gregorio III nella sua missione evangelizzatrice non vedendo di buon occhio il persistere di questa ritualità pagana e non volendo estirparla con la forza, decise di sovrapporvi quella festività di Ognissanti risalente al V secolo d.C. che era festeggiata il 13 Maggio; lo scopo era quello di diluire sempre più il ricordo di Samhain con il passare del tempo annullandone così la sua forte presa sulle popolazioni europee senza colpo ferire e senza generare ulteriori rivolte.
Solo un secolo più tardi la decisione di Gregorio I venne accettata da tutte le varie chiese del cristianesimo occidentale.

La festa di 'All Hallows Eve' viene erroneamente fatta passare come tradizionalmente americana; in realtà si affacciò sul suolo americano portata da quegli immigrati irlandesi e scozzesi che avevano abbandonato le isole in cerca di fortuna. Solo dopo il 1845 venne resa festa nazionale, anno nel quale giunsero molti immigrati irlandesi spinti da una grave carestia che colpì le coltivazioni di patate. 

Note:
- tradizioni popolari nello stile di Samhain sono presenti nella penisola italiana da tempo immemore in diverse regioni quali ad esempio Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Valle D’Aosta, Lazio, Calabria, Sardegna e Sicilia; ognuna di queste possiede il suo dolce tipico per il banchetto.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz


giovedì 25 ottobre 2018

Samhain e le cerimonie stagionali, parte I

Ci avviciniamo ad un periodo dell’anno nel quale fremono i preparativi per la cerimonia stagionale tra le più sentite: Samhain. Molto spesso le persone si fossilizzano sulla definizione di un giorno per la sua celebrazione arrivando ad adottare anche date di popoli geograficamente lontani; dimenticano però che più della data in sé è importante il periodo climatico visto che si tratta di una cerimonia stagionale legata a cicli stagionali e quindi al luogo geografico ed al clima, nonché alle usanze del popolo.
È inutile adottare a mio avviso date di popoli lontani; è più giusto concentrarsi sulle fasi climatiche del luogo in cui si vive non su quale sia il giorno tradizionalmente associato a simili cerimonie.
È giusto poi concentrarsi sul significato che le popolazioni attribuisce a quelle feste e sul modo di festeggiarle.

Le cerimonie in passato erano intese a drammatizzare la conclusione di un periodo di esistenza e a procurare, attraverso procedure semi-magiche, fertilità, prosperità, sole e/o pioggia per il futuro. 
Si distinguono diversi riti: 
- di mortificazione a simboleggiare la temporanea eclissi della comunità
- i riti di purificazione che puntavano ad eliminare gli elementi nocivi che potrebbero danneggiare la comunità 
- i riti di rinvigorimento che miravano a stimolare la crescita dei raccolti, la fecondità degli uomini e degli animali ed a garantire la quantità di pioggia e sole necessaria per tutto ciò in tutto l’anno
- i riti di giubilo erano quelli che chiudevano questo ciclo annuale di rituali sinora descritto e comprendevano un pasto in comune fra i membri della comunità allo scopo di rinsaldare i legami di parentela nel banchettare assieme con gli stessi Dèi; è in questa occasione che i defunti antenati ed i parenti in vita si ricongiungono. Si era soliti ricordare i fondatori della comunità e tutti coloro che non fossero più tra i vivi:
 
"i nostri fondatori sono con noi nello spirito" 

I Greci ritenevano che gli spiriti tornassero temporaneamente nelle feste Antesterie a cavallo tra Febbraio e Marzo mentre i Romani sostenevano che ciò accadesse nel corso dei Lemurialia che più delle volte si svolgevano nei primi di Maggio. I Mandei dell’Iraq e dell’Iran sono soliti celebrare una festa per i defunti ad inizio anno mentre le genti della Tailandia la celebrano in Aprile. 
Fra gli Hutsuli i riti di giubilo avevano luogo durante la Pasqua ed a Natale. 
Fra i Celti i riti di giubilo avevano luogo durante la festa di Samhain e sopravvivono ancora nella festa popolare chiamata Halloween.

Tutte le cerimonie stagionali vengono proiettate nel passato e nel futuro come escatologia. Le cerimonie stagionali che in origine erano strumenti funzionali del rinnovamento dell’esistenza annuale, divengono paradigmi dell’esistenza umana nel tempo; i festeggiamenti erano infatti legati ai periodi agricoli e di caccia, alla sopravvivenza della comunità e alla protezione dai fattori che potevano indebolire la comunità come la carenza di cibo o di selvaggina etc.

Note:
- giubilo: sentimento d’intima e intensa gioia, per lo più causato da qualche piacevole avvenimento e manifestato nelle parole e negli atti.
- Hutsuli: gruppo etnico-culturale ucraino.
- escatologia: dottrina che riguarda i destini ultimi dell’umanità e del singolo.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

domenica 21 ottobre 2018

Il culto della quercia nei popoli indoeuropei -Terza parte

Anche tra gli Slavi sembra che la quercia sia stata l'albero sacro al dio del fulmine Perun, l'equivalente di Zeus e di Giove. 

Si dice che a Novgorod vi fosse un'imagine di Perun in forma di un uomo con una folgore in mano. 

Un fuoco di legno di quercia bruciava giorno e notte in suo onore, e quando si spegneva i custodi pagavano con la vita la loro negligenza. 


Sembra che Perun, come Zeus e Giove, sia stato il Dio principale degli Slavi; poiché Procopio ci dice che « gli Slavi credono che un Dio, quello che scaglia la folgore, sia l'unico signore di tutte le cose, e gli sacrificano buoi e ogni sorta di vittime ».


La principale divinità dei Lituani era Perkunas o Perkuns, il dio del fulmine e del lampo, la cui somiglianza con Zeus e Giove è stata spesso notata. 

Gli erano sacre le querce e quando furon tagliate dai missionari cristiani il popolo si lamentava a gran voce che le deità silvane venissero distrutte. 

Fuochi perenni accesi con il legno di speciali querce venivano mantenuti in onore di Perkunas e se uno di essi si spegneva veniva riacceso sfregando il legno sacro. 

Per avere un buon raccolto gli uomini sacrificavano alle querce e le donne ai tigli, dal che si può dedurre che considerassero le querce come maschi e i tigli come femmine. 


In tempo di siccità quando volevan la pioggia solevano sacrificare al dio del fulmine nei recessi del bosco un vitello nero, un capro nero, e un gallo nero. 

In queste occasioni tutti si radunavano in gran folla dai paesi vicini, mangiavano, bevevano e invocavano Perkunas. Portavano tre volte intorno al fuoco un boccale di birra, poi lo versavano sulle fiamme pregando il dio di mandare la pioggia. 

Così la massima divinità lituana presenta una stretta somiglianza con Zeus e Giove, essendo il Dio della quercia, del fulmine e della pioggia.


Riferimento: James G. Frazer – Il ramo d’oro


Orlando in collaborazione con Le vie di Wodanaz 

sabato 20 ottobre 2018

Il culto della quercia nei popoli indoeuropei -Seconda parte

Passando dall'Europa meridionale a quella centrale troviamo ancora il gran dio della quercia e del fulmine tra i barbari Ariani, che abitavano nelle vaste foreste primigenie. Tra i Celti della Gallia, i Druidi nulla consideravano così sacro come il vischio e la quercia su cui cresceva; sceglievano boschi di quercia per farvi i loro riti solenni e non ne facevano alcuno senza foglie di quercia.

"I Celti - narra un autore greco - adorano Zeus ed il simulacro di Zeus è un'alta quercia" 

I conquistatori celti che si stabilirono in Asia nel secolo III a.C. portarono con loro il culto della quercia nelle loro nuove terre; nel cuore dell'Asia Minore il Senato galato era solito riunirsi in un luogo che portava un nome di chiara derivazione celtica, 'Drynemetum' (i.e. "querceto sacro" o "tempio della quercia"). 
Stando al parere di molti filologi, lo stesso termine 'druidi' sembrerebbe voler significare "uomini della quercia".

Nella religione degli antichi Germani l'adorazione dei sacri boschi aveva un ruolo di primaria importanza.
Secondo il Grimm il più sacro degli alberi era la quercia; sembra che fosse dedicata specialmente al dio del fulmine (i.e Donar o Thunor), l'equivalente del norvegese Thor. 
La quercia sacra vicino a Geismar (i.e. Assia) che venne abbattuta dal monaco evangelizzatore Bonifacio nel secolo VIII, era nota tra i pagani come 'robur Jovis' (i.e. "quercia di Giove") che in antico germanico suonebbe come 'Donares Eih' (i.e. "quercia di Donar"). 
Il fatto che il teutonico dio del fulmine - Donar, Thunor o Thor che dir si voglia - venisse dai più identificato con l'italico dio del fulmine (i.e. Giove), traspare anche dal termine inglese 'Thursday' (i.e. "giorno di Thunor") che non è altro che la traslitterazione del latino 'dies Jovis' che nell'italiano corrente ha dato vita al termine 'Giovedì'.

Così, tra gli antichi Teutoni, come pure tra i Greci e gli Italici, il dio della quercia coincideva con il dio del fulmine. Per di più era considerato come la grande forza fecondatrice che manda la pioggia e fa portare i frutti alla terra; Adam Bremensis ci dice che "Thor presiede all'aria; è lui che governa il tuono e il lampo, il vento e la pioggia, il bel tempo e i raccolti"; anche sotto questo aspetto il dio teutonico del fulmine somiglia ai suoi corrispondenti del sud, Zeus e Giove.

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

venerdì 19 ottobre 2018

Il culto della quercia nei popoli indoeuropei -Prima parte

Sembra che il culto della quercia o del Dio della quercia sia stato osservato da tutti i popoli di razza ariana in Europa. Tanto i Greci che gli Italici associavano questo albero con il loro più alto dio, Zeus o Jupiter, la divinità del cielo, della pioggia e del fulmine. Forse il più antico e certamente uno dei più famosi santuari della Grecia era a Dodona, dove Zeus veniva adorato nella quercia profetica. Le tempeste di fulmini che sembra imperversino a Dodona più che in qualunque altro posto in Europa, facevano di quel luogo una dimora adatta per il Dio, la cui voce veniva udita tanto nel mormorio delle foglie di quercia quanto nello scoppio della folgore.


Sul monte Lykeo in Arcadia il carattere di Zeus come Dio tanto della quercia che della pioggia risulta chiaramente dall'incantesimo per la pioggia praticato dal suo sacerdote che immergeva un ramo di quercia in una sacra fonte. In questo secondo potere Zeus era il Dio che i Greci pregavano regolarmente per la pioggia. Niente poteva esser più naturale, perché spesso, se non sempre, aveva la sua sede sulle montagne dove si adunano le nubi e crescono le querce. Sull'acropoli d'Atene v'era un'imagine della terra in atto di pregar Zeus per la pioggia. E in tempo di siccità, gli stessi Ateniesi pregavano: « Piovi, piovi, o caro Zeus, sui campi degli Ateniesi e sopra il piano ». Zeus, oltre la pioggia, mandava anche i fulmini e i lampi.


I re d'Irlanda pensavano che i fulmini fossero una fonte di fertilità per la terra e di fecondità pel bestiame, e come avrebbero potuto soddisfare queste pretese meglio che facendo la parte del loro parente Zeus, il gran Dio della quercia, del fulmine e della pioggia? Apparentemente personificavano Zeus, come i re italici personificavano Giove.


Nell'Italia antica ogni quercia era sacra a Giove, il corrispondente italico di Zeus, e sul Campidoglio a Roma il dio era venerato come divinità non solo della quercia, ma della pioggia e del fulmine.


Orlando in collaborazione con le vie di Wodanaz 

mercoledì 17 ottobre 2018

Le vie di Wodanaz pdf stampabile, terzo numero

Buongiorno a tutti, dopo una lunga attesa tornano i nostri pdf stampabili, con enorme piacere vi presentiamo quindi il terzo numero dedicato principalmente agli slavi e alle loro divinità.
Come prima cosa però vogliamo ringraziare la pagina Facebook Slavic Polytheism and Folklore Notes, con la quale collaboriamo e senza la quale questo speciale non sarebbe mai nato.

https://drive.google.com/open?id=1rgL08JRqITBdzPlVD_233saeYTmQLEdT

Buona lettura

La redazione delle vie di Wodanaz

martedì 16 ottobre 2018

Cammino iniziatico e confronto con la natura

Dal credente, all’ateo, dal contadino al cacciatore. L’osservazione della natura è legata dalla notte dei tempi all’uomo.

Fenomeni atmosferici, squarci panoramici mozzafiato, animali, tutto confluisce in modo necessario alla formazione e alla conoscenza del contadino e del cacciatore, alla nascita dei poeti, dei sacerdoti e dei guerrieri.

Nessuna ricerca di se stesso, può escludere l’osservazione esterna o il viaggio per mari, montagne o campagne che, porta al confronto con i nostri limiti, con le nostre paure; porta noi stessi a scoprire le nostre abilità.

 

Da quando l’uomo ha memoria, ha affinato le sue abilità osservando gli animali, ha scoperto le sue paure confrontandosi con il buio del bosco, ha imparato il ruolo naturale osservando, ha imparato a conoscere la sua forza nelle difficoltà che lo hanno coinvolto nei viaggi, ha imparato a cacciare come i lupi, ha imparato il rispetto della vita osservando i cuccioli, ha imparato il rispetto della morte e la ritualità della morte con gli animali: gli elefanti organizzano veglie funebri radunandosi intorno al corpo e spesso tornano nei luoghi del defunto a ispezionare le ossa del compagno morto (sembra proprio il culto degli antenati), i corvi organizzano danze per il compagno defunto (spero un giorno di poter osservare questo evento), le scimmie rimangono in silenzio e si stringono con abbracci davanti ad un loro simile morto ecc. ecc.

 

Molto di quanto appena detto lo si osserva durante il cammino. Il cammino iniziatico è un confronto con l’esterno e con l’interno di noi.

Il cammino porta a comprendere, porta a pensare e, il ritorno nella società, era sinonimo di aver conosciuto se stesso.

Gli uomini tornavano nella società con lo spirito, conosciuto e riconosciuto e, con la consapevolezza che la fine del cammino era l’inizio del loro viaggio terreno per forgiare se stessi ed il loro spirito.


Tornavano consapevoli della vita e della morte, del rispetto verso la vita e la morte e conoscevano la morte in modo diverso.

 

Oggi sento spesso che le persone riconoscono se stesse senza il buio del bosco, senza cammini per montagne, non conoscono ciò che li circonda ma dicono di conoscere se stessi, non testano le proprie abilità ma si definiscono.

  




 La domanda è: Quanto “tempo” dedicate a stare nel bosco o a camminare per montagne soli, per comprendervi e comprendere e per testare le vostre abilità? Reputate che oggi questa parte sia ancora fondamentale o può essere sostituita con "altro"?


Orlando, in collaborazione con “Le

Vie di Wodanaz”

sabato 13 ottobre 2018

Baldr

Stando a quanto sostenuto da Jacob Grimm nellʼundicesimo capitolo del suo scritto ʻDeutsche Mythologieʼ (i.e. “Mitologia germanica”, 1835), il teonimo norreno Baldr deriverebbe da quellʼaggettivo maschile protogermanico *balþaz il cui significato è “audace” e che è antesignano del gotico balþs, dellʼantico alto tedesco pald e del sassone bald i quali condividono con il suddetto il medesimo significato.
Nel secondo incantesimo di Merseburgo (i.e. “Merseburger Zauberspüche”) è riportato il teonimo Balder, il corrispettivo di Baldr in antico alto tedesco.
Attestazioni in latino di questo teonimo sono presenti in opere come ʻGesta Danorumʼ di Saxo Grammaticus dove Baldr è noto con i nomi di Balderus e di Fjallerus. Fjallerus è legato allo scandinavo Falr (i.e. Fjalarr) il quale presenta forti somiglianze con un certo Phol menzionato sul principiare del testo del secondo incantesimo di Merseburgo; stando agli scritti di Calvin Thomas questi non sarebbe altro che Baldr stesso.

Non si può trascurare però la forte correlazione fra questo teonimo norreno e gli aggettivi baltas in lituano e balts in lettone il cui significato è “bianco”.
Nella tradizione sassone continentale Baldr è noto come Baldag mentre in quella anglosassone è noto come Bældæg (i.e. Beldeg, attestato nella ʻHistoria Brittonumʼ di Nennio come Beldeyg). Entrambi questi teonimi presentano al loro terminare il suffisso -dag derivante dal sostantivo maschile protogermanico *dagaz (i.e. “giorno”) unito alla radice baltica degli aggettivi baltas e balts.

Il teonimo Baldr assumerebbe così la connotazione di “bianco giorno” la quale Grimm preferisce alla più semplice connotazione di “audace” dacché richiama espressamente un passo del ʻGylfaginningʼ (i.e. “inganno di Gylfi”, Edda in Prosa) che ora segue:

“Annarr son Óðins er Baldr, ok er frá honum gott at segja. Hann er beztr, ok hann lofa allir. Hann er svá fagr álitum ok bjartr svá at lýsir af honum [...] Hann er vitrastr ásanna ok fegrst talaðr ok líknsamastr. En sú náttúra fylgir honum at engi má haldask dómr hans.”

“Il secondo figlio di Óðinn è Baldr, e di lui si deve davvero parlar bene. È il più buono e tutti lo elogiano. È così bello d'aspetto, e così lucente, da irradiare splendore [...] Egli è il più saggio degli Æsir, il più raffinato nel parlare e il più gentile. Possiede questa virtù naturale: che nessuno può opporsi al suo giudizio.”

Stando a questo estratto, lʼAse Baldr è figlio di Óðinn e di Frigg e quindi fratello di Höðr e fratellastro di Váli. Da altre fonti apprendiamo che egli è sposo di Nanna e padre di Forseti (i.e. “colui che presidia”) Ase che amministra la giustizia in Ásgarðr avendo ereditato dal padre la virtù dʼessere da tutti rispettato. In Ásgarðr, per conto degli Æsir, Baldr fu reso governatore di Breðablik (i.e. “ampio splendore”) terra nella quale si trovano poche rune funeste.
Egli è un Ase di incredibile bellezza come attestato dal passo del ʻGylfaginningʼ che ora
segue:

“ [...] ok eitt gras er svá hvítt at jafnat er til Baldrs brár. Þat er allra grasa hvítast, ok þar eptir mátþu marka hans fegrð bæði á hár ok á líki.”

“ [...] c'è un fiore così bianco da essere paragonato alle sopracciglia di Baldr. Esso è fra tutti i fiori il più candido e da questo puoi intuire la bellezza di Baldr, sia dei capelli che del sembiante.”

Egli è attestato in molti scritti della tradizione nordico islandese e della letteratura latina i quali restituiscono differenti versioni della sua morte e della causa che lʼha scatenata:

- Nella ʻVöluspáʼ (i.e. “Profezia della Veggente”) contenuta nellʼEdda Poetica si accenna alla sua morte causata da un rametto di vischio e di come dopo il Ragnarǫk egli tornerà dal Helheimr (i.e. “regno di Hel”).

- Nel ʻBaldrs draumarʼ (i.e. “i sogni di Baldr”) poema contenuto nellʼEdda Poetica si narra di come Óðinn, in seguito a dei sogni nefasti avuti da Baldr, decida di scendere sino al Niflhel (i.e. “inferno delle nebbie”) in sella al suo palafreno Sleipnir per interrogare sul destino del figlio una Völva (i.e. “veggente”) morta da tempo. Questa rivelerà ad Óðinn che Höðr ucciderà suo fratello Baldr e che Váli vendicherà la morte di questʼultimo.

- NellʼEdda in Prosa Snorri Sturluson narra in maniera più dettagliata la morte di Baldr. In seguito ad un sogno profetico fatto sia da Baldr che da sua madre sulla morte del primo, Frigg costrinse ogni cosa presente sulla terra a giurare di non arrecare mai danno alcuno al figlio; fra queste tutte prestarono giuramento eccetto un cespuglio di vischio. Quando lʼAse Loki venne a conoscenza di ciò fabbricò una lancia da questo cespuglio - in versioni manoscritte successive si parla di una freccia - e la consegnò a Höðr, il fratello cieco di Baldr, il quale assieme al resto degli Æsir indulgeva nel passatempo di tirare oggetti contro Baldr ché questi non ne riceveva danno alcuno. Nellʼistante in cui Höðr colpì il fratello con la lancia di vischio questi morì. Óðinn si unì allora con la gigantessa Rindr la quale partorì Váli che divenuto adulto in un giorno vendicò Baldr uccidendo Höðr. Il corpo di Baldr fu cremato sulla sua enorme nave dal nome di Hringhorni (i.e. “vascello con un disco sulla prua”) e la moglie Nanna si gettò su di lui fra le fiamme in attesa del Ragnarǫk; solo allora si sarebbe riunita con il suo sposo.

- Secondo le ʻGesta Danorumʼ di Saxo Grammaticus la morte di Balderus, ivi descritto come un semidio, è da ascriversi alla rivalità fra questi ed Høtherus (i.e. Höðr) per la mano di Nanna, figlia del re di Norvegia Gewar. Høtherus, ben conscio della natura semidivina di Balderus, affrontò questʼultimo armato di una spada incantata dal nome ʻVischioʼ e con questa lo ferì mortalmente.

- Nel ʻChronicon Lethrenseʼ (i.e. “Cronache di Lejre”, opera danese del XII secolo scritta in latino) e nella sua ripartizione che va sotto il nome di ʻAnnales Lundensesʼ (i.e. “gli Annali di Lund”) si narra di come Hother (i.e. Höðr) re dei Sassoni dopo aver ucciso in battaglia Balder figlio di Othen (i.e. Óðinn) cercò di attaccare battaglia con Othen e Thor ma venne ucciso da Both, fratellasto di Balder.

Infine, nonostante le ampie testimonianze scritte sono ben pochi i toponimi legati allʼAse Baldr e molti di questi risalgono allʼetà moderna o contemporanea.

giovedì 11 ottobre 2018

Veleš, parte II

I filologi russi Vjačeslav Vsevolodovič Ivanov e Vladimir Toporv ricostruirono la mitica battaglia tra Veleš e il fratello Perun attraverso una serie di studi comprativi tra le mitologie indoeuropee e le molte storie e canzoni popolari slave. La battaglia tra un Dio del tuono e un enorme serpente o drago è un elemento unificante e ricorrente. Perun è il Dio del tuono, mentre Veleš si comporta come un drago che si oppone a lui. All'origine del conflitto vi è il furto da parte di Veleš del figlio, o della moglie o del bestiame ai danni di Perun. Tale gesto non è altro che una sfida, infatti Veleš striscia fuori dalle caverne del mondo sotterraneo e sale avvolgendosi attorno all'albero del mondo verso i domini celesti di Perun, che lo attacca con le sue saette. Veleš scappa, o si nasconde sotto le spoglie di un albero, di una persona o di un animale ma alla fine viene sconfitto/ucciso. In questa morte rituale qualsiasi cosa abbia rubato viene rilasciata dal suo corpo in forma di pioggia che cade dal cielo.
Il mito della tempesta serviva agli antichi anche a spiegare il cambiamento delle stagioni. I periodi più secchi venivano interpretati come il caos risultante dal furto di Veleš e i fulmini erano visti come la battaglia divina, la conseguente pioggia era il trionfo di Perun. Essendo un mito ciclico la morte di Veleš non era mai permanente. Sebbene in questo mito giochi il ruolo negativo di portatore del caos, Veleš non era visto come un Dio malvagio. Inoltre la dicotomia ed il conflitto con Perun non rappresentano lo scontro tra il bene e il male, ma piuttosto l'opposizione tra i principi naturali di terra, acqua e sostanza, Veleš quindi, contro il cielo, il fuoco e lo spirito, ovvero Perun. Oltre ad essere il Dio degli Inferi e delle anime dei morti, la presenza di palchi e di corna rimandano ad un concetto di virilità, sessualità e potenza maschile. La sua natura maliziosa si evince, oltre che dal suo essere imbroglione, anche dal suo amore per la musica e per la magia. La parola Volhov, probabilmente derivata dal suo nome, in alcune lingue slave significa ancora oggi stregone e nel Canto della Schiera di Igor, il mago Bojan viene definito il nipote di Veleš. Dal momento che la magia è strettamente connessa alla musica nelle società primitive, Veleš era altresì considerato il protettore dei musicisti e dei viaggiatori.
Fino al 20 secolo in Croazia i musicisti di un matrimonio non iniziavano a suonare finché lo sposo non versava a terra del vino, possibilmente vicino alle radici di un albero, a significare che non avrebbero suonato finché non veniva fatta un offerta al loro Dio protettore. Era anche il protettore del bestiame, tanto che spesso a lui ci si riferisce come skotji bog, ovvero dio bestiame. I suoi attributi erano le corna da toro, ariete, o di un altro erbivoro addomesticato, probabilmente anche la lana nera, a sua volta connessa alle arti magiche.

Solo nella mitologia celtica esiste una divinità simile a Veleš, ossia Cernunnos nel suo aspetto di serpente cornuto.

In collaborazione con la pagina FB Slavic Polytheism and Folklore notes

mercoledì 10 ottobre 2018

Veleš, parte I

Veleš (in cirillico: Велес), è il Dio associato ai Draghi, al bestiame, alla magia, ai musicisti, allo smercio, alla frode alle ricchezze e all'inganno, oltre ad essere una guida per le anime dei defunti.
Inoltre il Dio punisce con delle malattie coloro che rompono dei giuramenti.

Veleš è rappresentato in vari modi. Può essere un serpente arrotolato attorno alle radici dell'Albero del Mondo, oppure viene rappresentato come un uomo possente o come un uomo con le corna, in quanto era figlio di due vacche ed era il Dio del bestiame, appare anche come un vecchio con capelli e barba bianca e con un bastone da pastore. Alcuni lo considerano un Dio cornuto e talvolta viene rappresentato come un orso, secondo gli Slavi l’orso rappresentava il re della foresta che si occupava degli animali, dei frutti selvatici e della foresta stessa.

Domina il Regno dei morti. L'Oltretomba non era un luogo spiacevole o di dolore, ma nelle storie popolari viene descritto come un mondo verde ed umido, dove dimoravano fantastiche creature e dove le anime dei defunti vegliavano sulle mandrie di Veleš. Il Dio manda anche gli spiriti dei morti nel mondo dei vivi come messaggeri. A questo proposito gli slavi tenevano delle feste, le Velja Noc, convinti che in alcuni periodi dell'anno i confini tra i mondi dei vivi e dei morti si assottigliassero. Durante queste feste i giovani dei villaggi, chiamati Koledari o Vucari, si vestivano con lunghi cappotti di lana di pecora e indossavano maschere grottesche girovagando per i villaggi e cantando delle canzoni nelle quali dicevano di aver viaggiato a lungo e di essere tutti bagnati, un chiaro riferimento al Regno umido di Veleš. I padroni delle varie case dovevano dar loro dei doni che venivano poi portati al Dio, il che lo rendeva simile ad un drago accumula tesori. Come si può evincere dal Manoscritto Nestoriano i doni assicuravano buona sorte per quella famiglia, mentre chi incolleriva il Dio avrebbe attirato su di se sciagure e malattie.

Veleš era il Dio della magia e secondo alcuni resoconti popolari l'espressione "Cmu vunu presti" , ovvero tessere la lana nera, e’ un allusione alle arti magiche. In lacune canzoni i Koledari cantavano di tessere della lana nera. È il protettore del bestiame e dell'agricoltura e la prima spiga di grano veniva tagliata e legata ad un amuleto per ottenere protezione dagli spiriti maligni. Questo gesto veniva detto "legare la barba a Veles". Quest'ultimo modo di dire è molto simile ad alcuni modi di dire degli slavi meridionali, ad esempio: šaka brade (per un pugno di barba) oppure "primiti boga za bradu" (afferrare un Dio per la sua barba). Tali affermazioni alludono ad una fortuna spropositata.

In collaborazione con la pagina FB Slavic Polytheism and Folklore notes

lunedì 8 ottobre 2018

Sulle origini del tutto

In origine fu il Ginnungagap, il vuoto.
A Nord di esso fu creato il Niflheimr, terra di freddo e ghiaccio, di umidità e buio al cui centro fu posto Hvergelmir, pozzo gelido padre dei fiumi cosmici chiamato Elivágar. 
A Sud di Ginnungap fu invece creato Muspell, terra di luce e caldo nello torrido nella quale non può resistere nessuno che non vi sia nato, Sutr, gigante di fuoco dalla spada fiammeggiante, è guardiano di queste lande. 
Fu dall’incontro fra la brina gelida di Niflheimr ed il vento caldo di Muspell che nacque Ymir, primo gigante di ghiaccio, chiamato Aurgelmir dalla sua gente, esso veniva nutrito dalla vacca Auðhumla, generatasi allo stesso modo. 


Al principio era il tempo:
Ymir vi dimorava;
non c'era sabbia né mare
né gelide onde;
terra non si distingueva
né cielo in alto:
il baratro era spalancato
e in nessun luogo erba.

Ár vas alda
þars Ymir byggði
vasa sandr né sær,
né svalar unnir;
jǫrð fansk æva
né upphiminn;
gap vas ginnunga,
en gras hvergi.

(Voluspá, 3)


Accadde un giorno che Ymir, dormendo, stillò sudore e dal palmo della sua mano nascessero un maschio e una femmina, primi fra i suoi discendenti, ebbe anche un altro figlio frutto dell’accoppiamento fra i suoi piedi: una creatura dotata di sei teste.
Accadde un giorno che Auðhumla, dalle cui mammelle si originavano quattro fiume di latte, leccasse per nutrirsi alcune pietre ghiacciate e salate, verso il termine del primo giorno uscirono, da queste pietre, dei capelli, il secondo giorno la testa ed il terzo tutta una persona. 
Costui fu Buri, progenitore degli Dèi ed egli era bello, alto e forte, egli ebbe un figlio che fu detto Borr, e fu questi, unendosi con Bestla, figlia del gigante Bölþorn, a generare i primi Dèi: Óðinn, Vili e Vé. 

Furono costoro ad uccidere il gigante Ymir e a creare con esso i mondi in ciò che era il nulla.
Fu così che con il sacrificio di una creatura malvagia fu possibile ricavare la “materia prima” necessaria alla creazione dell’universo. 
Insieme ad esso furono uccisi dagli Dèi tutti i giganti della sua stirpe, annegati nel sangue del proprio progenitore, solo uno di loro riuscì a fuggire, insieme alla propria famiglia, a bordo di una imbarcazione: Bergelmir, da lui discese una nuova stirpe di Jǫtnar.

Ymir era malvagio e lo era tutta la sua stirpe, che noi chiamiamo dei giganti di brina.

Hann var illr ok allir hans ættmenn, þá kǫllum vér hrímþursa.

(Gylfaginning, Edda in prosa ) 

Essi presero Ymir e lo posero nel mezzo del Ginnungagap e da lui fecero la terra, dal suo sangue il mare e le acque. La terra era fatta della sua carne, le rocce delle sue ossa. I sassi e le pietre le crearono dai suoi denti, dai molari, e dalle ossa che erano rotte.

Þeir tóku Ymi ok fluttu í mitt Ginnungagap ok gerðu af honum jǫrðina, af blóði hans sæinn ok vǫtnin. Jǫrðin var gǫr af holdinu, en bjǫrgin af beinunum. Grjót ok urðir gerðu þeir af tǫnnum ok jǫxlum ok af þeim beinum er brotin váru. 

Del sangue, che dalle sue ferite corse e scaturì fuori, essi fecero il mare, quando formarono e saldarono insieme la terra, e quindi vi disposero attorno il mare come un anello, e sembrerà impossibile a molti uomini andare oltre a esso.

Af því blóði er ór sárum rann ok laust fór, þar af gerðu þeir sjá þann er þeir gerðu ok festu saman jǫrðina ok lǫgðu þann sjá í hring útan um hana, ok mun þat flestum manni ófœra þykkja at komask þar yfir. 

(Gylfaginning, Edda in prosa ) 


Dalla carne del gigante in putrefazione, che altro non è se non la terra, ebbero origine i primi viventi: i nani.
Essi ricevettero, per volontà degli Dèi, aspetto e saperi umani. 

A quattro di questi inoltre fu dato l’incarico di sostenere il cielo, costoro, che rispondono ai nomi di Norðri, Suðri, Austri e Vestri, svolgono quindi una funzione essenziale.

Così infatti viene narrato:

Presero anche il suo cranio, ne fecero il cielo e lo posero sopra la terra con quattro angoli, e sotto ciascun angolo posero un nano.

Tóku þeir ok haus hans ok gerðu þar af himin ok settu hann upp yfir jǫrðina með fjórum skautum, ok undir hvert horn settu þeir dverg


(Gylfaginning, Edda in prosa)

I giganti superstiti vennero confinati in Jötunheimr, luogo freddo e oscuro, estremo recinto dei mondi. 

Gli Dèi benedetti costruirono poi un mondo di mezzo, Miðgarð, destinato a diventare dimora dei figli degli uomini, come materia prima usarono le sopracciglia del defunto Ymir per creare un recinto che li difendesse dall’Iran dei giganti. 

Così infatti si narra: 

Ma all'interno della terra essi edificarono un bastione tutt'attorno al mondo, contro l'ostilità dei giganti, usando per il loro recinto le ciglia del gigante Ymir e chiamarono quella rocca Miðgarðr

En fyrir innan á jǫrðunni gerðu þeir borg umhverfis heim fyrir ófriði jǫtna, en til þeirar borgar hǫfðu þeir brár Ymis jǫtuns ok kǫlluðu þá borg Miðgarð. 

Con alcune scintille prese da Muspell vennero creati gli astri, ad essi furono assegnate sedi stabili o rotte precise da percorrere così che ebbe inizio il calcolo del tempo. 

Come ultima cosa i sacri Dèi presero il cervello di Ymir e, dopo averlo fatto a pezzi, lo lanciarono nel cielo dando così origine alle prime nubi come viene narrato anche nel discorso di Grìmnir.

Dalle sue ciglia
fecero gli dèi benedetti
Miðgarðr per i figli degli uomini;
dal suo cervello
vennero le tempestose
nuvole tutte create.

En ór hans brám
gerðo blið regin
miðgarð manna sonom; 
en ór hans heila
vóro þau in harðmóðgo 
ský ǫll um skǫpuð.



domenica 7 ottobre 2018

Sull'educazione

In quest'epoca di eguaglianza forzata e alfabetizzazione imposta questo nostro discorso apparirà a molti di voi come eretico, ne siamo perfettamente consapevoli, tuttavia rimaniamo convinti della sua bontà di fondo e desideriamo quindi portarlo avanti.
L’idea di un'alfabetizzazione universale è nata per motivazioni ideologiche a seguito della riforma protestante ed evolutasi di pari passo con il sorgere della società dei consumi.
Il principio cardine di questa ideologia è fondamentalmente semplice: tutti necessitano di educazione e tutti, a loro modo, hanno bisogno di essere educati, alfabetizzati, integrati ed in definitiva assimilati come ingranaggi dal grande Moloch che chiamiamo Civiltà.

Come tribalisti e come sostenitori delle identità e specificità locali noi sosteniamo un modello completamente opposto, basato sull’educazione domestica, sulla sperimentazione in prima persona della vita rurale e agraria garantendo, al contempo, il diritto all’infanzia e al gioco, strumento importantissimo per l’apprendimento.
La scrittura e la lettura siano riservate solo a coloro che davvero vi sono interessati, è inutile e dannoso limitare e rinchiudere l’esuberanza della giovinezza di molti per insegnare nozioni prive di una reale utilità per la maggioranza di coloro ai quale vengono inculcate.
La nostra educazione deve essere quindi orale, basata sul racconto e sulla trasmissione delle tradizioni, e deve essere pratica, il bambino e l’adolescente devono poter sperimentare in prima persona il mondo intorno a sé, acquisire sicurezza in sé stessi e crescere, ognuno secondo le proprie inclinazioni, sani, forti e coraggiosi, di quel coraggio che solo la pratica e la messa alla prova del sé possono donare.
Verrà quindi restituita importanza al carisma, al dominio di sé e allo sviluppo di una sana fisicità che porti anche ad una naturale rivalità giocosa, in opposizione ad un sistema educativo che spesso rende gli adolescenti deboli, insicuri ed inadatti allo scontro con la vita post accademica.

Quanti fra noi negli anni della nostra gioventù hanno passato tempo immemorabile ad imparare a memoria una miriade di nozioni appartenenti ai campi più variegati dello scibile e quanti sono riusciti ad afferrarne la vera essenza ed ad assimilarle nella loro completezza?
Pochi.

Quante di queste sono servite a raggiungere uno scopo ulteriore oltre a quello di ottenere un buon voto e dare prova dell'avvenuta memorizzazione di concetti?
Poche.

Non vogliamo certo creare una massa di ignoranti refrattari all'apprendimento; ricordiamo che fu lo stesso Godan a sacrificare il suo occhio per poter ottenere infinita conoscenza. 
Vogliamo soltanto restituire la dovuta importanza a quegli altri aspetti della conoscenza non scritta che ricoprirono un ruolo primario ed importante nello sviluppo societario. La saggezza popolare dei nostri avi più prossimi, dei nostri nonni e dei nostri bisnonni va lentamente a perdersi nelle nebbie od al più a riempire qualche ricerca antropologica di un qualche accademico; essa viene così privata della sua utilità reale.
Il restituire l’infanzia e l’adolescenza ai nostri giovani permettendo loro di imparare tramite il contatto con l’ambiente naturale, l’esplorazione ed il racconto è il nostro fine ultimo.

Vi è più sapienza in un mito raccontato innanzi ad un fuoco che in qualsivoglia scritto della letteratura ché mentre il primo è dinamismo del linguaggio, il secondo è prigioniero eterno della sua forma immutabile.

Note:
- Questo articolo nasce come provocazione ma rappresenta in tutto e per tutto il pensiero dell’autore e la linea del movimento “Le vie di Wodanaz”

Gli scongiuri nella tradizione germanica, parte II

Tradizione germanica e tradizione vedica

Una testimonianza dell’esistenza di una tradizione pregnante relativa ad Odino medico guaritore è il celebre Secondo Incantesimo di Merseburgo, del secolo X.
Segue il testo con annessa traduzione:

"Phol ende uuodan
uuorun zi holza.
du uuart demo balderes uolon
sin uuoz birenkit.
thu biguol en Sinhtgunt,
sunna era suister;
thu biguol en friia,
uolla era suister;
thu biguol en uuodan,
so he uuola conda:
sose benrenki,
sose bluotrenki,
sose lidirenki:
ben zi bena,
bluot zi bluoda,
lid zi geliden,
sose gelimida sin."

"Phol e Wōtan cavalcavano verso il bosco.
Allora al puledro di Balder
si distorse un piede.
Allora gli parlò Sinhtgunt,
e Sunna sua sorella.
Allora gli parlò Frija,
e Volla sua sorella.
Allora gli parlò Wōtan,
come lui sapeva ben fare
per strappi alle ossa,
per strappi sanguinanti,
per strappi di membra:
'Osso a osso,
sangue a sangue,
membro a membro,
così tornino uniti'."

L’incantesimo riassume verosimilmente un racconto leggendario di cui non si conoscono altre versioni con gli stessi protagonisti.
Il viaggio degli Dèi nel bosco potrebbe essere confrontabile alla processione degli Asi verso il frassino sacro Yggdrasil narrata nell’Edda di Snorri; l’elenco delle divinità fornito dall’autore islandese comprende Odino (i.e. Wotan), Freyja (i.e. Frija), Fulla (i.e. Volla) e Balder. Il nome Phol, non attestato altrove, potrebbe essere intepretato come una trascrizione scorretta di Thor, celebre membro degli Asi che si incontra regolarmente associato a Odino in molteplici contesti ed è pure presente nella lista di Snorri.

Il problema posto dalla sopravvivenza nel lungo periodo di questa particolare formula è certamente intrigante, e non solo per la possibilità offerta dalle fonti medievali e moderne di seguirne parte del percorso di trasformazione e adattamento a nuovi contesti. Una formula terapeutica che ricorda da vicino il Secondo incantesimo di Merseburgo compare infatti, come è stato da tempo notato, nientemeno che nell’indiano 'Atharva Veda'. Questo testo, la cui composizione viene datata intorno all’800 a.C., include un canto che invoca un’erba da utilizzare nella cura di un arto fratturato. I due nomi dell’erba evocati nello scongiuro, Arundhati e Rohani, rimandano entrambi a una radice verbale che significa "crescere".
Segue il testo della stessa:

"Rohani, tu fai crescere, crescere l’osso spezzato. Fallo ricrescere, o Arundhati! Quello che di te [il paziente] è ferito, ciò che è spezzato, in frantumi, possa il creatore guarirlo, rimetterlo insieme articolazione per articolazione. Possa il midollo riunirsi al midollo, il tendine al tendine. La parte della tua carne che è stata separata dal resto possa ricrescere intorno alle tue ossa! Midollo su midollo siano rimessi insieme, cute su cute ricresca. Il tuo sangue torni a scorrere intorno all’osso; la carne con la carne si saldi. I capelli ai capelli siano riuniti; la pelle aderisca alla pelle. Il tuo sangue torni a scorrere intorno all’osso. Ricomponi ciò che è spezzato, o erba!"

Come è noto, per la collocazione temporale delle origini indoeuropee sono state formulate le più svariate ipotesi. Le teorie più note sono tre: quella che, semplificando, potremmo chiamare dell’invasione in epoca relativamente recente di orde guerriere dalle steppe eurasiatiche; quella dell’espansione degli agricoltori neolitici dal Vicino Oriente; e quella della continuità paleolitica, che sostiene che il popolamento da parte dei gruppi indoeuropei delle aree occupate in epoca storica ha coinciso con la migrazione di homo sapiens sapiens in quelle stesse regioni nel corso del paleolitico.

Lo scongiuro di Merseburgo e il corrispondente inno vedico si spiegano solo alla luce dell’ultima delle citate teorie. Ne consegue che l’ipotetico minimo comune denominatore tra i due testi deve collocarsi in un tempo estremamente lontano della preistoria, molto probabilmente anteriore ai 15.000 – senza escludere una profondità cronologica ancora maggiore.
Il contenuto dell’incantesimo, che racconta in realtà un atto prodigioso, appartiene al repertorio dei Signori degli animali. Con tale definizione si usa indicare quegli esseri soprannaturali, sia maschili sia femminili, che, nelle culture dei cacciatori, regolavano il rinnovo delle scorte di selvaggina.

Fonti:
- Dal mito allo scongiuro, Paolo Galloni

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz