Cerca nel blog
martedì 30 ottobre 2018
Bragz
Bragi - o Brage che dir si voglia - era poi il nome di quel semimitico scaldo Bragi Boddason attivo nella prima metà del IX secolo; è forse a lui che fa riferimento quel passo del ʻGrímnismálʼ (i.e. “discorso di Grimnir”, Edda Poetica) dove un certo Bragi viene definito come ʻhann er æztr skáldaʼ (i.e. “il migliore fra gli scaldi”).
Il nome Bragi è tuttora usato come nome proprio di persona la cui versione femminile è
Braga.
Bragi risiede in Ásgarðr con la sua sposa e nella ʻValhǫllʼ (i.e. “sala dei caduti”) accoglie i guerrieri morti in battaglia come testimoniato nell'anonimo ʻEiríksmálʼ (i.e. “discorso per Eiríkr”, scritto per commemorare il re di Norvegia Eiríkr blóðøx) e nel poema ʻHákonsmálʼ (i.e. “discorso per Hákon”, scritto dallo scaldo Eyvindr Finnsson per commemorare Hákon goði morto nella battaglia di Stǫrð combattendo contro i figli di suo fratello, Eiríkr blóðøx).
Si dice che Bragi abbia rune incise sulla lingua ed è forse per questo che egli è ʻhann er ágætr at speki ok mest at málsnild ok orðfimiʼ (i.e. “famoso per la sua saggezza ma soprattutto per la sua eloquenza e abilità con le parole”, Edda di Snorri, Gylflaginning).
Giocando su entrambi i significanti del termine norreno ʻbragrʼ, Snorri Sturluson nel ʻGylfaginningʼ (i.e. “inganno di Gylfi”, Edda di Snorri) ci restituisce un ritratto breve e conciso dellʼAse Bragi:
“Bragi heitir einn [...] Hann kann mest af skáldskap, ok af honum er bragr kallaðr skáldskapr, ok af hans nafni er sá kallaðr bragr karla eða kvenna er orðsnild hefir framar en aðrir, kona eða karlmaðr.”
“Bragi si chiama egli [...] Conosce benissimo l'arte poetica, che da lui chiamata ʻbragrʼ e dal suo nome viene infatti chiamato uomo migliore (i.e. “bragr karl”) o donna migliore (i.e. “bragr kvenna”) chi possieda un'eloquenza superiore agli altri.”
Nella suddetta sezione dellʼEdda di Snorri è riportato il nome della sposa di Bragi così come anche il ruolo che questa svolge in Ásgarðr; Iðunn è Dea della giovinezza e ne custodisce i pomi:
“Kona hans er Iðunn, hon varðveitir í eski sínu epli þau er goðin skulu á bíta þá er þau eldask, ok verða þá allir ungir, ok svá mun vera allt til ragnarøkrs [...]”
“Sua moglie è Iðunn, che conserva nel suo scrigno di frassino le mele che gli dèi, quando invecchiano, devono mangiare per poter tornare tutti giovani, e così sarà sempre, fino al ragnarøkkr [...]”
Nello ʻSkáldskaparmálʼ (i.e. “Dialogo sullʼarte poetica”, Edda di Snorri) Bragi spiega le ʻkenningarʼ (i.e. “metafore poetiche”) ad Ægir nel corso di un banchetto, rivelandogli i miti e i racconti che le hanno originate; da una di queste si apprende che lʼAse Bragi è figlio di Óðinn:
“Hvernig skal kenna Braga? Svá at kalla hann Iðunnar ver, frumsmið bragar ok inn síðskeggja ás - af hans nafni er sá kallaðr skeggbragi, er mikit skegg hefir - ok sonr Óðins.
“Quali sono le kenningar per Bragi? Si può chiamarlo marito di Iðunn, primo creatore della poesia, áss dalla lunga barba - da questo nome, chiunque abbia una gran barba è chiamato skeggbragi – e figlio di Óðinn.”
Bragi compare anche nella ʻLokasennaʼ (i.e. “gli insulti di Loki”) come protagonista di un velenoso scambio di invettive che egli tiene con Loki il quale aveva interrotto con insulti ed offese la quiete del banchetto organizzato da Ægir al quale avevano preso parte tutti gli Æsir e le Ásynjur. In questa circostanza Bragi mostra il suo carattere incline alla mediazione e alla diplomazia; è pronto a offrire doni a Loki purché non sparga dissapori fra i presenti ma questi lo accusa di essere un vile e lo definisce ʻbekkskrautuðrʼ (i.e. “ fronzolo da panca”) suscitando le ire del poeta che minaccia di ucciderlo. La sua sposa Iðunn interviene per metter pace fra i due.
Dalla ʻLokasennaʼ si viene poi a conoscenza del fatto che Bragi abbia dei figli sia veri che adottivi:
“Iðunn kvad: Bið ek, Bragi, barna sifjar duga ok allra óskmaga, at þú Loka kveðir-a lastastǫfum Ægis hǫllu í.”
“Disse Iðunn: Ti prego, Bragi, di pensare ai figli veri e a quelli adottivi e contro Loki di non parlare con ingiurie nella corte di Ægir.”
I loro nomi non vengono però menzionati né nella ʻLokasennaʼ né in altra fonte. Subito dopo questo breve passo segue la risposta ingiuriosa e pungente dellʼAse Loki:
“Loki kvad: Þegi þú, Iðunn, þik kveð ek allra kvenna vergjarnasta vera, síztu arma þína lagðir ítrþvegna um þinn bróðurbana.”
“Disse Loki: Sta' zitta, tu, Iðunn! Dico fra tutte la più vogliosa d'uomini sei: fra le tue braccia, ben lavate, hai stretto l'uccisore di tuo fratello.”
Forse l'uccisore del fratello (i.e. “bróðurbani”) di Iðunn è proprio lo sposo di questʼultima, Bragi, dacché nonostante Loki le attribuisca una vita sentimentale molto movimentata l'unica relazione nota di Iðunn è quella avuta con Bragi.
Infine in un verso di Egill Skallagrímsson, si parla dell'occhio di Bragi (i.e. “Bragi auga”); su questa espressione di oscuro significato alcuni studiosi hanno basato la seguente ipotesi. Bragi, avendo un solo occhio ed essendo anchʼegli Ase della conoscenza poetica, risulterebbe essere una delle varie personificazioni di Óðinn ma non essendovi attestazione alcuna di ciò questa tesi è dai più rigettata.
lunedì 29 ottobre 2018
La follia di Erisittone
Anticamente l'Europa era ricoperta da centinaia di boschi sacri, luoghi volutamente lasciati inviolati per millenni dall'uomo e in cui, nonostante l'avanzare delle città e delle coltivazioni, venivano preservate la flora e la fauna selvatica.
Un interessante mito che tratta del legame tra uomo, divinità e ambiente naturale è quello del principe tessalo Erisittone (Ἐρυσίχθων), le cui fonti più interessanti sono gli inni di Callimaco e le Metamorfosi di Ovidio.
Erisittone era un uomo arrogante e avido, che disprezzava le divinità e aveva solo a cuore i propri interessi.
Un giorno decise che avrebbe costruito una grande sala per i festeggiamenti radendo al suolo un bosco sacro a Demetra/Cerere, dea madre della terra e artefice del ciclo delle stagioni.
Questo luogo, situato a Dotio, non era mai stato toccato da mani umane.
Callimaco dice che a stento una freccia poteva passare al suo interno tanto era folto, e che "dai rigagnoli sgorgava un'acqua come ambra".
La Dea lo amava quanto Eleusi, il suo luogo più sacro, ma per Erisittone e i suoi uomini, incapaci di vedere la bellezza, era semplicemente un posto da distruggere per reperire legna. Nella versione di Ovidio, "Lì si ergeva una quercia immensa, secolare, ch'era lei da sola un bosco, e aveva tutto intorno al fusto addobbi di nastri, di ex voto e di ghirlande, a ricordo di grazie ricevute. Ai suoi piedi un'infinità di volte avevano danzato in festa le Driadi [spiriti delle querce], in cerchio, mano nella mano, intorno al tronco, che per le sue enormi dimensioni chiedeva più di quindici braccia per circondarlo.
Sotto questa quercia il resto della selva scompariva, così come scompare l'erba ai piedi d'ogni pianta." Erisittone, giunto sul luogo, ordinò ai suoi venti compagni di fare a pezzi l'albero millenario.
Quando vide che alcuni di loro esitavano, prese lui stesso l'ascia gridando: "Quand'anche non fosse solo cara alla dea, ma la dea in persona, tra poco a terra si schianterà con tutta la sua cima frondosa!". Vibrò quindi un primo terribile colpo alla quercia sacra, che parve lanciare un avvertimento alla banda di vandali. La sua corteccia sbiancò e dalla ferita nella corteccia fuoriuscì un getto di sangue. Uno dei soldati di Erisittone a quel punto si spaventò e, come risvegliatosi, cercò di impedire al suo capo di continuare la distruzione.
Purtroppo non ci riuscì e finì per essere decapitato dal rabbioso Erisittone, che continuò poi l'abbattimento dell'albero.
Callimaco narra che Demetra percepì subito la sofferenza delle sue piante sacre e che volle manifestarsi agli uomini per interrompere il loro operato.
Inizialmente apparve loro nella forma di Nicippe, la sacerdotessa che presiedeva al suo culto nella città, con in mano ghirlande di papaveri e una chiave appesa alla spalla.
La dea parlò a Erisittone con dolcezza, cercando di farlo ragionare: "Figlio, chiunque tu sia che tagli gli alberi consacrati agli dèi, fèrmati, figlio, figlio molto diletto ai genitori, fèrmati ed allontana i servi tuoi, se non vuoi che ti mostri la sua ira la dea Demetra, di cui ciò che è sacro stai devastando". Come risposta l'avido tessalo le lanciò uno sguardo d'ira, simile a quello di un leone, minacciandola di piantare l'ascia anche nel suo corpo se avesse di nuovo interrotto la costruzione della casa in cui avrebbe elargito festini e banchetti. Intanto, invisibile, Nemesi trascrisse queste parole sulle sue tavole, decretando la fine del principe.
Visto che la calma e la ragione non funzionavano con quei folli, Demetra si manifestò allora nella sua terribile forma divina: immensa e splendente, con i piedi toccava il suolo mentre il capo giungeva fino ai cieli. I venti compagni di Erisittone, uomini grandi "come giganti", per poco non morirono per la paura. Mentre loro, meri esecutori di ordini, fuggivano disordinatamente, la dea tuonando si rivolse al loro comandante. Chiamandolo non più "figlio" ma "cane" gli disse minacciosa che avrebbe banchettato, sì, ma senza fine. Immediatamente, una fame ardente e inarrestabile gli penetrò nelle viscere.
Nel racconto di Ovidio, dopo la distruzione del suo albero, la dea al posto di manifestarsi agli uomini inviò una sua emissaria a cercare la Fame in Scizia, personificata come una vecchia orribile, rinsecchita e senza ventre, con il torso che pareva sospeso sulla spina dorsale.
Seguendo gli ordini divini, la Fame si introdusse di notte in casa di Erisittone, penetrando nel suo corpo, respirando nelle sue narici e diffondendosi nelle sue vene.
La conclusione della storia è identica: la maledizione pervase Erisittone, che divenne lacerato da un folle impulso a divorare ogni cosa. Seduto alla sua tavola, consumava tutto ciò che producevano il mare, il cielo e la terra, senza però smettere di deperire. Torturato dalla brama di cibo e incapace di trovare pace, alla fine Erisittone mandò in rovina la sua casata spendendo ogni cosa per comprare cibo che non poteva estinguere il suo vuoto.
L'avido principe concluse così la sua vita come un mendicante folle, costretto a racimolare avanzi alle mense e a divorare il suo stesso corpo per la fame.
Questa smania di cibo che attanagliava il principe è la rappresentazione fisica del desiderio inestinguibile che lo aveva portato a non rispettare la vita umana, il mondo e le divinità che lo regolano. Demetra impose solo che il suo corpo rispecchiasse la sua anima corrotta.
È interessante che il nome Erisittone vuol dire "colui che squarcia/apre la terra", cosa che potrebbe anche far pensare ad un mito riguardante i limiti posti verso un'attività umana e agricola sfrenata e priva di considerazione per i ritmi naturali e per le leggi divine.
Una questione che direi essere quanto mai attuale -purtroppo- nel mondo di oggi.
Articolo dalla pagina Facebook “Mímameiðr”, pubblicato previa permesso
domenica 28 ottobre 2018
Samhain e le cerimonie stagionali, parte IV
È un'usanza di Halloween che i bambini vadano mascherati di casa in casa, chiedendo dolciumi e caramelle o qualche spicciolo ponendo la domanda 'Dolcetto o scherzetto?' nella quale la parola "scherzetto" è la diretta traduzione dell'inglese 'trick' (i.e. "inganno"). Nella formula vi è l'implicita minaccia di fare danni al padrone di casa ed alla sua proprietà nell'eventualità di non ricevere alcun dolcetto (i.e. "treat").
Esiste una filastrocca inglese insegnata ai bambini delle elementari che ricalca questa formula: "Trick or treat, smell my feet, give me something good to eat".
La pratica di mascherarsi risale al Medioevo e si rifà alla pratica tardomedievale dell'elemosina; i poveri andavano di porta in porta a Ognissanti ogni primo Novembre e ricevevano cibo dai padroni di casa in cambio di preghiere da recitare il due Novembre (i.e. giorno della commemorazione dei defunti) per i parenti di quest'ultimi che erano morti.
Questa usanza nacque in Irlanda e Gran Bretagna, sebbene pratiche simili per le anime dei morti si rinvengano anche in Sud Italia. Shakespeare menziona la pratica nella commedia del 1593 'I due gentiluomini di Verona' nel passo in cui Speed accusa il suo maestro di "lagnarsi come un mendicante a Hallowmas (i.e. Halloween)".
Alcuni storici affermano che i Celti in Samhain erano soliti travestirsi in modi spaventosi e sfilare per le strade per scacciare gli spiriti vagabondi fuori dai loro villaggi. I bambini Celti andavano di casa in casa per raccogliere legna al fine di preparare un gran falò nel centro del villaggio; una volta che il falò veniva acceso ogni altro focolare doveva essere spento per essere poi riacceso con un tizzone proveniente dal falò di Samhain del villaggio come simbolo di comunione e collegamento tra tutti gli abitanti. Ci sono documenti che evidenziano che la festività di Samhain fosse per i Celti strettamente legata all'offerta di cibo agli spiriti.
Note:
- questa usanza è presente da tempo immemore in molte regioni italiane con formule differenti da regione a regione. In Calabria ad esempio vi è la secolare tradizione del 'Coccalu di muortu' la cui formula associata è la seguente 'Mi lu pagati lu coccalu?' (i.e. "Me lo pagate il teschio?").
Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz
sabato 27 ottobre 2018
Samhain e le cerimonie stagionali, parte III
L'usanza di intagliare zucche per la notte di Halloween è legata in un certo qual modo alla famosa leggenda dell'irlandese Jack O’Lantern (i.e. "Jack della lanterna"), un fabbro astuto, avaro e ubriacone che una sera al pub incontrò il diavolo. A causa del suo stato d'ebbrezza, la sua anima era quasi nelle mani del demonio ma astutamente Jack gli chiese di trasformarsi in una moneta promettendogli la sua anima in cambio di un'ultima bevuta. Mise poi rapidamente il diavolo nel suo borsello, accanto ad una croce d'argento, cosicché egli non potesse ritrasformarsi. Per farsi liberare il diavolo gli promise che non si sarebbe preso la sua anima nei successivi dieci anni e Jack lo lasciò andare.
Vi starete chiedendo cosa c'entrino le zucche con tutto questo.
venerdì 26 ottobre 2018
Samhain e le cerimonie stagionali, parte II
'All Hallows Eve' (i.e. "notte prima di Ognissanti") è una festività della cultura celtica diffusa nel nord Europa e nell'Italia settentrionale, derivante dalla festa pagana di Samhain, che si festeggia il 31 Ottobre con l'ultimo raccolto. Le credenze celtiche sono incentrate su divinità pastorali, da qui l’importanza di festeggiare il passaggio da una stagione all’altra.
- tradizioni popolari nello stile di Samhain sono presenti nella penisola italiana da tempo immemore in diverse regioni quali ad esempio Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Valle D’Aosta, Lazio, Calabria, Sardegna e Sicilia; ognuna di queste possiede il suo dolce tipico per il banchetto.
giovedì 25 ottobre 2018
Samhain e le cerimonie stagionali, parte I
Le cerimonie in passato erano intese a drammatizzare la conclusione di un periodo di esistenza e a procurare, attraverso procedure semi-magiche, fertilità, prosperità, sole e/o pioggia per il futuro.
domenica 21 ottobre 2018
Il culto della quercia nei popoli indoeuropei -Terza parte
Anche tra gli Slavi sembra che la quercia sia stata l'albero sacro al dio del fulmine Perun, l'equivalente di Zeus e di Giove.
Si dice che a Novgorod vi fosse un'imagine di Perun in forma di un uomo con una folgore in mano.
Un fuoco di legno di quercia bruciava giorno e notte in suo onore, e quando si spegneva i custodi pagavano con la vita la loro negligenza.
Sembra che Perun, come Zeus e Giove, sia stato il Dio principale degli Slavi; poiché Procopio ci dice che « gli Slavi credono che un Dio, quello che scaglia la folgore, sia l'unico signore di tutte le cose, e gli sacrificano buoi e ogni sorta di vittime ».
La principale divinità dei Lituani era Perkunas o Perkuns, il dio del fulmine e del lampo, la cui somiglianza con Zeus e Giove è stata spesso notata.
Gli erano sacre le querce e quando furon tagliate dai missionari cristiani il popolo si lamentava a gran voce che le deità silvane venissero distrutte.
Fuochi perenni accesi con il legno di speciali querce venivano mantenuti in onore di Perkunas e se uno di essi si spegneva veniva riacceso sfregando il legno sacro.
Per avere un buon raccolto gli uomini sacrificavano alle querce e le donne ai tigli, dal che si può dedurre che considerassero le querce come maschi e i tigli come femmine.
In tempo di siccità quando volevan la pioggia solevano sacrificare al dio del fulmine nei recessi del bosco un vitello nero, un capro nero, e un gallo nero.
In queste occasioni tutti si radunavano in gran folla dai paesi vicini, mangiavano, bevevano e invocavano Perkunas. Portavano tre volte intorno al fuoco un boccale di birra, poi lo versavano sulle fiamme pregando il dio di mandare la pioggia.
Così la massima divinità lituana presenta una stretta somiglianza con Zeus e Giove, essendo il Dio della quercia, del fulmine e della pioggia.
Riferimento: James G. Frazer – Il ramo d’oro
Orlando in collaborazione con Le vie di Wodanaz
sabato 20 ottobre 2018
Il culto della quercia nei popoli indoeuropei -Seconda parte
Nella religione degli antichi Germani l'adorazione dei sacri boschi aveva un ruolo di primaria importanza.
venerdì 19 ottobre 2018
Il culto della quercia nei popoli indoeuropei -Prima parte
Sembra che il culto della quercia o del Dio della quercia sia stato osservato da tutti i popoli di razza ariana in Europa. Tanto i Greci che gli Italici associavano questo albero con il loro più alto dio, Zeus o Jupiter, la divinità del cielo, della pioggia e del fulmine. Forse il più antico e certamente uno dei più famosi santuari della Grecia era a Dodona, dove Zeus veniva adorato nella quercia profetica. Le tempeste di fulmini che sembra imperversino a Dodona più che in qualunque altro posto in Europa, facevano di quel luogo una dimora adatta per il Dio, la cui voce veniva udita tanto nel mormorio delle foglie di quercia quanto nello scoppio della folgore.
Sul monte Lykeo in Arcadia il carattere di Zeus come Dio tanto della quercia che della pioggia risulta chiaramente dall'incantesimo per la pioggia praticato dal suo sacerdote che immergeva un ramo di quercia in una sacra fonte. In questo secondo potere Zeus era il Dio che i Greci pregavano regolarmente per la pioggia. Niente poteva esser più naturale, perché spesso, se non sempre, aveva la sua sede sulle montagne dove si adunano le nubi e crescono le querce. Sull'acropoli d'Atene v'era un'imagine della terra in atto di pregar Zeus per la pioggia. E in tempo di siccità, gli stessi Ateniesi pregavano: « Piovi, piovi, o caro Zeus, sui campi degli Ateniesi e sopra il piano ». Zeus, oltre la pioggia, mandava anche i fulmini e i lampi.
I re d'Irlanda pensavano che i fulmini fossero una fonte di fertilità per la terra e di fecondità pel bestiame, e come avrebbero potuto soddisfare queste pretese meglio che facendo la parte del loro parente Zeus, il gran Dio della quercia, del fulmine e della pioggia? Apparentemente personificavano Zeus, come i re italici personificavano Giove.
Nell'Italia antica ogni quercia era sacra a Giove, il corrispondente italico di Zeus, e sul Campidoglio a Roma il dio era venerato come divinità non solo della quercia, ma della pioggia e del fulmine.
Orlando in collaborazione con le vie di Wodanaz
mercoledì 17 ottobre 2018
Le vie di Wodanaz pdf stampabile, terzo numero
Come prima cosa però vogliamo ringraziare la pagina Facebook Slavic Polytheism and Folklore Notes, con la quale collaboriamo e senza la quale questo speciale non sarebbe mai nato.
https://drive.google.com/open?id=1rgL08JRqITBdzPlVD_233saeYTmQLEdT
Buona lettura
La redazione delle vie di Wodanaz
martedì 16 ottobre 2018
Cammino iniziatico e confronto con la natura
Dal credente, all’ateo, dal contadino al cacciatore. L’osservazione della natura è legata dalla notte dei tempi all’uomo.
Fenomeni atmosferici, squarci panoramici mozzafiato, animali, tutto confluisce in modo necessario alla formazione e alla conoscenza del contadino e del cacciatore, alla nascita dei poeti, dei sacerdoti e dei guerrieri.
Nessuna ricerca di se stesso, può escludere l’osservazione esterna o il viaggio per mari, montagne o campagne che, porta al confronto con i nostri limiti, con le nostre paure; porta noi stessi a scoprire le nostre abilità.
Da quando l’uomo ha memoria, ha affinato le sue abilità osservando gli animali, ha scoperto le sue paure confrontandosi con il buio del bosco, ha imparato il ruolo naturale osservando, ha imparato a conoscere la sua forza nelle difficoltà che lo hanno coinvolto nei viaggi, ha imparato a cacciare come i lupi, ha imparato il rispetto della vita osservando i cuccioli, ha imparato il rispetto della morte e la ritualità della morte con gli animali: gli elefanti organizzano veglie funebri radunandosi intorno al corpo e spesso tornano nei luoghi del defunto a ispezionare le ossa del compagno morto (sembra proprio il culto degli antenati), i corvi organizzano danze per il compagno defunto (spero un giorno di poter osservare questo evento), le scimmie rimangono in silenzio e si stringono con abbracci davanti ad un loro simile morto ecc. ecc.
Molto di quanto appena detto lo si osserva durante il cammino. Il cammino iniziatico è un confronto con l’esterno e con l’interno di noi.
Il cammino porta a comprendere, porta a pensare e, il ritorno nella società, era sinonimo di aver conosciuto se stesso.
Gli uomini tornavano nella società con lo spirito, conosciuto e riconosciuto e, con la consapevolezza che la fine del cammino era l’inizio del loro viaggio terreno per forgiare se stessi ed il loro spirito.
Tornavano consapevoli della vita e della morte, del rispetto verso la vita e la morte e conoscevano la morte in modo diverso.
Oggi sento spesso che le persone riconoscono se stesse senza il buio del bosco, senza cammini per montagne, non conoscono ciò che li circonda ma dicono di conoscere se stessi, non testano le proprie abilità ma si definiscono.
La domanda è: Quanto “tempo” dedicate a stare nel bosco o a camminare per montagne soli, per comprendervi e comprendere e per testare le vostre abilità? Reputate che oggi questa parte sia ancora fondamentale o può essere sostituita con "altro"?
Orlando, in collaborazione con “Le
Vie di Wodanaz”
sabato 13 ottobre 2018
Baldr
Egli è attestato in molti scritti della tradizione nordico islandese e della letteratura latina i quali restituiscono differenti versioni della sua morte e della causa che lʼha scatenata:
- Nella ʻVöluspáʼ (i.e. “Profezia della Veggente”) contenuta nellʼEdda Poetica si accenna alla sua morte causata da un rametto di vischio e di come dopo il Ragnarǫk egli tornerà dal Helheimr (i.e. “regno di Hel”).
- Nel ʻBaldrs draumarʼ (i.e. “i sogni di Baldr”) poema contenuto nellʼEdda Poetica si narra di come Óðinn, in seguito a dei sogni nefasti avuti da Baldr, decida di scendere sino al Niflhel (i.e. “inferno delle nebbie”) in sella al suo palafreno Sleipnir per interrogare sul destino del figlio una Völva (i.e. “veggente”) morta da tempo. Questa rivelerà ad Óðinn che Höðr ucciderà suo fratello Baldr e che Váli vendicherà la morte di questʼultimo.
- NellʼEdda in Prosa Snorri Sturluson narra in maniera più dettagliata la morte di Baldr. In seguito ad un sogno profetico fatto sia da Baldr che da sua madre sulla morte del primo, Frigg costrinse ogni cosa presente sulla terra a giurare di non arrecare mai danno alcuno al figlio; fra queste tutte prestarono giuramento eccetto un cespuglio di vischio. Quando lʼAse Loki venne a conoscenza di ciò fabbricò una lancia da questo cespuglio - in versioni manoscritte successive si parla di una freccia - e la consegnò a Höðr, il fratello cieco di Baldr, il quale assieme al resto degli Æsir indulgeva nel passatempo di tirare oggetti contro Baldr ché questi non ne riceveva danno alcuno. Nellʼistante in cui Höðr colpì il fratello con la lancia di vischio questi morì. Óðinn si unì allora con la gigantessa Rindr la quale partorì Váli che divenuto adulto in un giorno vendicò Baldr uccidendo Höðr. Il corpo di Baldr fu cremato sulla sua enorme nave dal nome di Hringhorni (i.e. “vascello con un disco sulla prua”) e la moglie Nanna si gettò su di lui fra le fiamme in attesa del Ragnarǫk; solo allora si sarebbe riunita con il suo sposo.
- Secondo le ʻGesta Danorumʼ di Saxo Grammaticus la morte di Balderus, ivi descritto come un semidio, è da ascriversi alla rivalità fra questi ed Høtherus (i.e. Höðr) per la mano di Nanna, figlia del re di Norvegia Gewar. Høtherus, ben conscio della natura semidivina di Balderus, affrontò questʼultimo armato di una spada incantata dal nome ʻVischioʼ e con questa lo ferì mortalmente.
- Nel ʻChronicon Lethrenseʼ (i.e. “Cronache di Lejre”, opera danese del XII secolo scritta in latino) e nella sua ripartizione che va sotto il nome di ʻAnnales Lundensesʼ (i.e. “gli Annali di Lund”) si narra di come Hother (i.e. Höðr) re dei Sassoni dopo aver ucciso in battaglia Balder figlio di Othen (i.e. Óðinn) cercò di attaccare battaglia con Othen e Thor ma venne ucciso da Both, fratellasto di Balder.
Infine, nonostante le ampie testimonianze scritte sono ben pochi i toponimi legati allʼAse Baldr e molti di questi risalgono allʼetà moderna o contemporanea.
giovedì 11 ottobre 2018
Veleš, parte II
Il mito della tempesta serviva agli antichi anche a spiegare il cambiamento delle stagioni. I periodi più secchi venivano interpretati come il caos risultante dal furto di Veleš e i fulmini erano visti come la battaglia divina, la conseguente pioggia era il trionfo di Perun. Essendo un mito ciclico la morte di Veleš non era mai permanente. Sebbene in questo mito giochi il ruolo negativo di portatore del caos, Veleš non era visto come un Dio malvagio. Inoltre la dicotomia ed il conflitto con Perun non rappresentano lo scontro tra il bene e il male, ma piuttosto l'opposizione tra i principi naturali di terra, acqua e sostanza, Veleš quindi, contro il cielo, il fuoco e lo spirito, ovvero Perun. Oltre ad essere il Dio degli Inferi e delle anime dei morti, la presenza di palchi e di corna rimandano ad un concetto di virilità, sessualità e potenza maschile. La sua natura maliziosa si evince, oltre che dal suo essere imbroglione, anche dal suo amore per la musica e per la magia. La parola Volhov, probabilmente derivata dal suo nome, in alcune lingue slave significa ancora oggi stregone e nel Canto della Schiera di Igor, il mago Bojan viene definito il nipote di Veleš. Dal momento che la magia è strettamente connessa alla musica nelle società primitive, Veleš era altresì considerato il protettore dei musicisti e dei viaggiatori.
Fino al 20 secolo in Croazia i musicisti di un matrimonio non iniziavano a suonare finché lo sposo non versava a terra del vino, possibilmente vicino alle radici di un albero, a significare che non avrebbero suonato finché non veniva fatta un offerta al loro Dio protettore. Era anche il protettore del bestiame, tanto che spesso a lui ci si riferisce come skotji bog, ovvero dio bestiame. I suoi attributi erano le corna da toro, ariete, o di un altro erbivoro addomesticato, probabilmente anche la lana nera, a sua volta connessa alle arti magiche.
Solo nella mitologia celtica esiste una divinità simile a Veleš, ossia Cernunnos nel suo aspetto di serpente cornuto.
mercoledì 10 ottobre 2018
Veleš, parte I
Inoltre il Dio punisce con delle malattie coloro che rompono dei giuramenti.
Veleš è rappresentato in vari modi. Può essere un serpente arrotolato attorno alle radici dell'Albero del Mondo, oppure viene rappresentato come un uomo possente o come un uomo con le corna, in quanto era figlio di due vacche ed era il Dio del bestiame, appare anche come un vecchio con capelli e barba bianca e con un bastone da pastore. Alcuni lo considerano un Dio cornuto e talvolta viene rappresentato come un orso, secondo gli Slavi l’orso rappresentava il re della foresta che si occupava degli animali, dei frutti selvatici e della foresta stessa.
Domina il Regno dei morti. L'Oltretomba non era un luogo spiacevole o di dolore, ma nelle storie popolari viene descritto come un mondo verde ed umido, dove dimoravano fantastiche creature e dove le anime dei defunti vegliavano sulle mandrie di Veleš. Il Dio manda anche gli spiriti dei morti nel mondo dei vivi come messaggeri. A questo proposito gli slavi tenevano delle feste, le Velja Noc, convinti che in alcuni periodi dell'anno i confini tra i mondi dei vivi e dei morti si assottigliassero. Durante queste feste i giovani dei villaggi, chiamati Koledari o Vucari, si vestivano con lunghi cappotti di lana di pecora e indossavano maschere grottesche girovagando per i villaggi e cantando delle canzoni nelle quali dicevano di aver viaggiato a lungo e di essere tutti bagnati, un chiaro riferimento al Regno umido di Veleš. I padroni delle varie case dovevano dar loro dei doni che venivano poi portati al Dio, il che lo rendeva simile ad un drago accumula tesori. Come si può evincere dal Manoscritto Nestoriano i doni assicuravano buona sorte per quella famiglia, mentre chi incolleriva il Dio avrebbe attirato su di se sciagure e malattie.
Veleš era il Dio della magia e secondo alcuni resoconti popolari l'espressione "Cmu vunu presti" , ovvero tessere la lana nera, e’ un allusione alle arti magiche. In lacune canzoni i Koledari cantavano di tessere della lana nera. È il protettore del bestiame e dell'agricoltura e la prima spiga di grano veniva tagliata e legata ad un amuleto per ottenere protezione dagli spiriti maligni. Questo gesto veniva detto "legare la barba a Veles". Quest'ultimo modo di dire è molto simile ad alcuni modi di dire degli slavi meridionali, ad esempio: šaka brade (per un pugno di barba) oppure "primiti boga za bradu" (afferrare un Dio per la sua barba). Tali affermazioni alludono ad una fortuna spropositata.
lunedì 8 ottobre 2018
Sulle origini del tutto
Al principio era il tempo:
Ymir vi dimorava;
non c'era sabbia né mare
né gelide onde;
terra non si distingueva
né cielo in alto:
il baratro era spalancato
e in nessun luogo erba.
|
Ár vas alda
þars Ymir byggði
vasa sandr né sær,
né svalar unnir;
jǫrð fansk æva
né upphiminn;
gap vas ginnunga,
en gras hvergi.
|
Ymir era malvagio e lo era tutta la sua stirpe, che noi chiamiamo dei giganti di brina.
|
Essi presero Ymir e lo posero nel mezzo del Ginnungagap e da lui fecero la terra, dal suo sangue il mare e le acque. La terra era fatta della sua carne, le rocce delle sue ossa. I sassi e le pietre le crearono dai suoi denti, dai molari, e dalle ossa che erano rotte.
|
Ma all'interno della terra essi edificarono un bastione tutt'attorno al mondo, contro l'ostilità dei giganti, usando per il loro recinto le ciglia del gigante Ymir e chiamarono quella rocca Miðgarðr.
|
Dalle sue ciglia
fecero gli dèi benedetti
Miðgarðr per i figli degli uomini;
dal suo cervello
vennero le tempestose
nuvole tutte create.
|
En ór hans brám
gerðo blið regin
miðgarð manna sonom;
en ór hans heila
vóro þau in harðmóðgo
ský ǫll um skǫpuð.
|
domenica 7 ottobre 2018
Sull'educazione
L’idea di un'alfabetizzazione universale è nata per motivazioni ideologiche a seguito della riforma protestante ed evolutasi di pari passo con il sorgere della società dei consumi.
Il principio cardine di questa ideologia è fondamentalmente semplice: tutti necessitano di educazione e tutti, a loro modo, hanno bisogno di essere educati, alfabetizzati, integrati ed in definitiva assimilati come ingranaggi dal grande Moloch che chiamiamo Civiltà.
Come tribalisti e come sostenitori delle identità e specificità locali noi sosteniamo un modello completamente opposto, basato sull’educazione domestica, sulla sperimentazione in prima persona della vita rurale e agraria garantendo, al contempo, il diritto all’infanzia e al gioco, strumento importantissimo per l’apprendimento.
La scrittura e la lettura siano riservate solo a coloro che davvero vi sono interessati, è inutile e dannoso limitare e rinchiudere l’esuberanza della giovinezza di molti per insegnare nozioni prive di una reale utilità per la maggioranza di coloro ai quale vengono inculcate.
La nostra educazione deve essere quindi orale, basata sul racconto e sulla trasmissione delle tradizioni, e deve essere pratica, il bambino e l’adolescente devono poter sperimentare in prima persona il mondo intorno a sé, acquisire sicurezza in sé stessi e crescere, ognuno secondo le proprie inclinazioni, sani, forti e coraggiosi, di quel coraggio che solo la pratica e la messa alla prova del sé possono donare.
Verrà quindi restituita importanza al carisma, al dominio di sé e allo sviluppo di una sana fisicità che porti anche ad una naturale rivalità giocosa, in opposizione ad un sistema educativo che spesso rende gli adolescenti deboli, insicuri ed inadatti allo scontro con la vita post accademica.
Quanti fra noi negli anni della nostra gioventù hanno passato tempo immemorabile ad imparare a memoria una miriade di nozioni appartenenti ai campi più variegati dello scibile e quanti sono riusciti ad afferrarne la vera essenza ed ad assimilarle nella loro completezza?
Pochi.
Quante di queste sono servite a raggiungere uno scopo ulteriore oltre a quello di ottenere un buon voto e dare prova dell'avvenuta memorizzazione di concetti?
Poche.
Non vogliamo certo creare una massa di ignoranti refrattari all'apprendimento; ricordiamo che fu lo stesso Godan a sacrificare il suo occhio per poter ottenere infinita conoscenza.
Il restituire l’infanzia e l’adolescenza ai nostri giovani permettendo loro di imparare tramite il contatto con l’ambiente naturale, l’esplorazione ed il racconto è il nostro fine ultimo.
Vi è più sapienza in un mito raccontato innanzi ad un fuoco che in qualsivoglia scritto della letteratura ché mentre il primo è dinamismo del linguaggio, il secondo è prigioniero eterno della sua forma immutabile.
Note:
- Questo articolo nasce come provocazione ma rappresenta in tutto e per tutto il pensiero dell’autore e la linea del movimento “Le vie di Wodanaz”
Gli scongiuri nella tradizione germanica, parte II
Segue il testo con annessa traduzione:
"Phol ende uuodan
uuorun zi holza.
du uuart demo balderes uolon
sin uuoz birenkit.
thu biguol en Sinhtgunt,
sunna era suister;
thu biguol en friia,
uolla era suister;
thu biguol en uuodan,
so he uuola conda:
sose benrenki,
sose bluotrenki,
sose lidirenki:
ben zi bena,
bluot zi bluoda,
lid zi geliden,
sose gelimida sin."
"Phol e Wōtan cavalcavano verso il bosco.
si distorse un piede.
Allora gli parlò Sinhtgunt,
e Sunna sua sorella.
Allora gli parlò Frija,
e Volla sua sorella.
Allora gli parlò Wōtan,
come lui sapeva ben fare
per strappi alle ossa,
per strappi sanguinanti,
per strappi di membra:
'Osso a osso,
sangue a sangue,
membro a membro,
così tornino uniti'."
L’incantesimo riassume verosimilmente un racconto leggendario di cui non si conoscono altre versioni con gli stessi protagonisti.
Il viaggio degli Dèi nel bosco potrebbe essere confrontabile alla processione degli Asi verso il frassino sacro Yggdrasil narrata nell’Edda di Snorri; l’elenco delle divinità fornito dall’autore islandese comprende Odino (i.e. Wotan), Freyja (i.e. Frija), Fulla (i.e. Volla) e Balder. Il nome Phol, non attestato altrove, potrebbe essere intepretato come una trascrizione scorretta di Thor, celebre membro degli Asi che si incontra regolarmente associato a Odino in molteplici contesti ed è pure presente nella lista di Snorri.
Il problema posto dalla sopravvivenza nel lungo periodo di questa particolare formula è certamente intrigante, e non solo per la possibilità offerta dalle fonti medievali e moderne di seguirne parte del percorso di trasformazione e adattamento a nuovi contesti. Una formula terapeutica che ricorda da vicino il Secondo incantesimo di Merseburgo compare infatti, come è stato da tempo notato, nientemeno che nell’indiano 'Atharva Veda'. Questo testo, la cui composizione viene datata intorno all’800 a.C., include un canto che invoca un’erba da utilizzare nella cura di un arto fratturato. I due nomi dell’erba evocati nello scongiuro, Arundhati e Rohani, rimandano entrambi a una radice verbale che significa "crescere".
Segue il testo della stessa:
"Rohani, tu fai crescere, crescere l’osso spezzato. Fallo ricrescere, o Arundhati! Quello che di te [il paziente] è ferito, ciò che è spezzato, in frantumi, possa il creatore guarirlo, rimetterlo insieme articolazione per articolazione. Possa il midollo riunirsi al midollo, il tendine al tendine. La parte della tua carne che è stata separata dal resto possa ricrescere intorno alle tue ossa! Midollo su midollo siano rimessi insieme, cute su cute ricresca. Il tuo sangue torni a scorrere intorno all’osso; la carne con la carne si saldi. I capelli ai capelli siano riuniti; la pelle aderisca alla pelle. Il tuo sangue torni a scorrere intorno all’osso. Ricomponi ciò che è spezzato, o erba!"
Come è noto, per la collocazione temporale delle origini indoeuropee sono state formulate le più svariate ipotesi. Le teorie più note sono tre: quella che, semplificando, potremmo chiamare dell’invasione in epoca relativamente recente di orde guerriere dalle steppe eurasiatiche; quella dell’espansione degli agricoltori neolitici dal Vicino Oriente; e quella della continuità paleolitica, che sostiene che il popolamento da parte dei gruppi indoeuropei delle aree occupate in epoca storica ha coinciso con la migrazione di homo sapiens sapiens in quelle stesse regioni nel corso del paleolitico.
Lo scongiuro di Merseburgo e il corrispondente inno vedico si spiegano solo alla luce dell’ultima delle citate teorie. Ne consegue che l’ipotetico minimo comune denominatore tra i due testi deve collocarsi in un tempo estremamente lontano della preistoria, molto probabilmente anteriore ai 15.000 – senza escludere una profondità cronologica ancora maggiore.
Il contenuto dell’incantesimo, che racconta in realtà un atto prodigioso, appartiene al repertorio dei Signori degli animali. Con tale definizione si usa indicare quegli esseri soprannaturali, sia maschili sia femminili, che, nelle culture dei cacciatori, regolavano il rinnovo delle scorte di selvaggina.
Fonti:
- Dal mito allo scongiuro, Paolo Galloni
Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz