Cerca nel blog

giovedì 28 novembre 2019

L'Antagonista

Una riflessione semplicemente seria sul problema della democrazia rappresentativa


Chiedo ai miei lettori di considerare quanto segue: posto un sistema democratico in cui ogni voto concorre a scegliere i rappresentanti del popolo con funzione legislativa e/o di governo (e indirettamente nella funzione giudiziaria), che cosa succede qualora i rappresentanti tradiscano sistematicamente la volontà del popolo?


La teoria che ci hanno sempre propalato era che un governo o legislazione sgradita al popolo sarebbe stata rimossa dal voto successivo, occasione in cui il popolo avrebbe scelto altri rappresentanti con la speranza di invertire la rotta del precedente malgoverno. Sempre secondo questa teoria la "punizione" di essere esclusi dalle competizioni elettorali tramite la non scelta e il "premio" di essere scelti qualora si sostenessero i desideri del popolo dovevano garantire nel tempo un ciclo virtuoso in cui rappresentanti sempre più capaci di rendere felice la massa avrebbero mantenuto le posizioni di potere e comando, mentre quelli più impopolari sarebbero stai ignorati dalle urne a ogni nuova candidatura.


Invece non sta andando affatto così. Poiché da decenni assistiamo a sfilze di governi e leggi impopolari senza che il voto successivo abbia alcun effetto. Come mai? Cosa succede in sintesi? In sintesi succede che un governo impopolare viene sostituito da un nuovo governo che si rivela altrettanto impopolare e che viene sostituito con una serie di successivi "voti di protesta" a altrettanti ricambi senza frutto, in cui nuove facce si comportano allo stesso modo dei predecessori. In teoria, per procedere nel nostro ragionamento, depuriamo pure questo sistema da ogni ipotesi di riciclaggio dei politici sgraditi. Ossia per comodità e semplicità immaginiamo che esista un sostanziale ricambio della classe dirigente. Eppure accade ancora che nulla cambi? Come mai? Come mai chi arriva al potere si comporta invariabilmente come chi lo ha preceduto, se non peggio, nonostante sia sicuro di essere eliminato dalle competizioni elettorali al prossimo giro? 


Ragione n.1

La riffa del potere conviene a tutti i candidati (ma non al popolo), come nel gioco d'azzardo


Ciò accade perché semplicemente in un sistema in cui la popolazione è sempre più numerosa dei possibili ceti dirigenti ci saranno sempre invariabilmente nuovi candidati al potere. I pessimi governanti non si esauriscono mai; e almeno al primo e unico giro in cui dovessero aver successo incassano già il premio di 3-5 anni di potere e rendite. Se ci pensate è il motivo per cui nessuno si stanca delle lotterie o riffe: ogni settimana ci sono nuovi premi - garantiti dal fallimento del 99,9999999% dei giocatori - e ogni settimana una persona nuova può sperare di essere milionario; e se non riesce ora, ci riprova ancora e ancora e ancora... Eliminare gli sgraditi dalla possibilità di essere scelti quindi è una "punizione" inefficace. Mentre almeno una volta, in caso di elezione, essi vincono sempre. Alla peggio non si viene eletti ma niente vieta di candidarsi al prossimo giro. Questa condizione non è mai cambiata e era costante anche nei regimi non democratici, o di antico regime, o primitivi... Gli aspiranti al potere sono sempre più dei potenti in carica, numericamente.


Ragione n.2

Non esiste alcuna seria punizione per il malgoverno


Attenzione, non stiamo parlando di reati o illeciti commessi dalla classe dirigente. Parliamo di semplici "scelte sbagliate" che procurano un danno al popolo. Chi sceglie male attualmente non rischia nulla se non un semplice malcontento. In tal caso egli scende dalla poltrona al nuovo giro elettorale con in tasca un bel gruzzolo, che comunque basta a una vita serena e sicura, e semplicemente esce di scena. Ci sono solo premi ma non punizioni vere, concrete. Un tempo non era così: la perdita del potere politico comportava sempre serie conseguenze come la prigionia o la morte, l'eliminazione fisica o almeno, nel migliore dei casi, la povertà più abietta se non la riduzione in schiavitù da parte del vincitore. Il punto e il difetto più grande del sistema democratico moderno è esattamente questo: chi governa male e perde il potere non rischia assolutamente niente.  Sa di potersi allegramente permettere il fallimento, il suo licenziamento è assolutamente privo di conseguenze, dato che la remunerazione dei politici è fuori scala in ogni paese democratico rispetto alle rendite del popolo. Questa condizione si è verificata solo con il nazionalsocialismo ed il fascismo al potere; ma non con il comunismo recentemente imploso. Da allora non è mai accaduto che un politico pagasse con la vita le sue scelte contrarie al popolo o contrarie al suo nemico personale (salvo recentemente Saddam Hussein, Gheddafi e Osama Bin Laden). In pratica manca l'antagonista reale al potere: la prospettiva di annientamento a seguito della perdita del potere stesso


Ragione n. 3

C'è un premio che noi tendiamo a ignorare. E rinforza le condotte pessime, non quelle virtuose


Non solo, poiché esistono delle lobby e delle minoranze così ricche da disporre di ingentissimi capitali, esse possono - e hanno di fatto - suggerito ai politici la strada maestra per continuare con il sistema democratico senza danno e senza oneri, ma solo vantaggi. I politici invariabilmente seguono i desideri di queste minoranze che se ne avvantaggiano pienamente ai danni del resto del popolo. Se governano male - per il popolo -  riceveranno da questi plutocrati delle briciole prima, durante, e dopo il loro mandato. Essendo la disponibilità di ricchezze spropositata, questa plutocrazia può tranquillamente permettersi di regalare la bella vita a ogni politico anche dopo uno o più mandati fallimentari in cambio della sua obbedienza totale. Il costo è irrisorio, il vantaggio è enorme: governare male senza essere neanche direttamente responsabili del malgoverno. Questo premio non solo fa sì che ogni politico possa infischiarsene bellamente di quanto il popolo vuole o desidera, tanto non è realmente premiato dal popolo per questo, oltretutto non sarà mai punito per le ragioni 1 e 2; ma consente alla plutocrazia di disporre di un'infinita riserva di politicanti disposti a prestarsi serenamente al tradimento che conviene loro perché allo stipendio previsto dalla legge si aggiunge questo premio extra che non figura in alcuna costituzione o legge! Il voto è un rituale inutile e un'arma inefficace, stante la mancanza di un contrappeso reale legato alla possibilità di essere annientati e stante la presenza di attori terzi che manovrano da dietro le quinte i politici come marionette.


Una riflessione sulla migliore politica non può che partire da queste essenziali e stringenti critiche alla democrazia rappresentativa tramite elezioni e voto. 

martedì 26 novembre 2019

Mito, rito e devozione

Viviamo in una società borghese e mercantilizzata, per molti sarà inutile ricordarlo ma farlo una volta in più non guasta di sicuro, una società che ha perso ogni slancio teso a qualcosa di più alto, che ha sostituito questa ricerca con la spasmotica caccia al profitto o ad una carriera vacua e foriera, nei migliori dei casi, di un semplice arricchimento economico.

L’uomo moderno, al contempo consumatore e prodotto di consumo, si dibatte quindi il proprio lavoro e la ricerca di ogni vacuo piacere facilmente raggiungibile, spesso per distaccarsi dalla propria esistenza, che in cuor suo percepisce come priva di veri legami e incapace di elevarsi al di sopra delle umane miserie. Non vi è esaltazione o ricerca del sacro, solo volontà di evasione, di identificarsi in un “altro” diverso da sé, per poche ore, che sia tramite la filmografia o la letteratura di consumo poco importa.


Ma è davvero questo il massimo a cui può tendere un uomo? 

No, non lo è, se lo fosse si spiegherebbe la disperazione nella quale versa l’abitante di questi tempi sventurati, ma questo nichilismo è frutto di falsità. 

L’uomo è nato per essere qualcosa di più che una semplice bestia da denaro e cibo spazzatura, e vi sono, per chi sa cercarli, esempi luminosi e saldi che è possibile ricercare e fare propri, vere armi spirituali contro la decadenza morale dei nostri tempi. 

Occorre ripartire dal mito, farne il punto focale della propria esistenza, donandogli centralità esso ci trasmetterà volontà di potenza e sapienza, i primi passi necessari al superamento della condizione in cui ci vorrebbe la società. Far proprio il mito, allenarsi fisicamente e spiritualmente innanzi ad esempi luminosi, è il primo passo, il più necessario perché il nostro destino possa realmente espletarsi.

Il passo successivo, quello del rito, ci deve portare ad approcciarci al sacro e agli Dèi, a ciò che è oltre questa nostra terra di mezzo, per suo tramite facciamo nostra la conoscenza delle basi e della disciplina necessarie all’uomo libero e saldo per poi arrivare a ciò che più conta nella nostra esistenza terrena: la devozione.


Devozione agli Dèi, al nostro sangue, alla nostra terra, alla nostra famiglia, ad una causa. Solo in essa, e nel suo assoluto mantenimento, il nostro percorso potrà dirsi realmente degno.

 

Hailaz Wodanaz! Hailaz agli Dèi immortali!

venerdì 15 novembre 2019

Lotta eterna


Cosa siamo? Cosa vogliamo?

In molti ci avete chiesto queste cose, ed i molti di più ci avete criticato aprioristicamente per questo. 

Noi siamo araldi del culto eterno, nulla di più e nulla di meno. Noi celebriamo gli Dèi e il sangue, l’esaltazione e la lotta per qualcosa di più grande. Non siamo diplomatici, non siamo democratici, siamo ciò che siamo perché i nostri antenati erano ciò che erano. 

Siamo soldati spirituali, disposti a tutti perché il culto eterno torni a risplendere e perché ogni cosa sia come deve essere. 

Contro ogni ateismo, contro ogni materialismo o capitalismo. Noi andiamo oltre, non cerchiamo ciò che è mera utilità personale ma lottiamo ed amiamo per ciò che è eterno.

Dèi, sangue, suolo, forza. 

Solo questo importa, non ci interessiamo di menate per poveri di spirito, non vogliamo piacere a chiunque ma selezionare solo coloro che davvero possono rappresentare la futura élite, capi in grado di guidare le nostre genti in una nuova ed eterna età dell’oro. 


Uomini liberi, innanzi agli Dèi. 


Hailaz Wodanaz! 

giovedì 14 novembre 2019

Sceafa, parte IV

A parer mio, partendo dall’interpretazione etimologica che il filologo tedesco Karl Müllenhoff restituisce di Beow figlio di Scyld Scefing, è possibile fondere in un unicum compatto le due posizioni precedentemente esposte; entrambi i punti di vista si ricollegano ad un Leitmotiv tipicamente germanico, l’affiancare simboli che manifestano volontà di comando e protezione ( e.g. Scyld, nome che deriva dal sostantivo anglosassone ‘sċield’ ossia “scudo” ) a simboli che incarnano la prosperità agricola ( e.g. Scēf, nome che deriva dal sostantivo anglosassone ‘sċēaf’ ossia “covone” & Beow, nome che deriva dal sostantivo anglosassone ‘beow’ ossia “orzo” ). Ecco che il terzetto Scyld, Scēf, Béow si configura come triade primigenia di divinità legate alla protezione, all’unità ed alla fertilità che presenta immediata somiglianza alla triade Þórr - Óðinn - Freyr del tempio di Ubsola di cui ci parla Adam Bremensis nelle ‘Gesta Hammaburgensis ecclesiæ Pontificum’. 
La natura di questa triade spiegherebbe la presenza in un documento così antico come il poema Widsið del longobardo Sceafa; questi non sarebbe altro che la riproposizione in chiave longobarda dello Scēf che è mitico iniziatore e custode dell’ordine della stirpe in quanto covone che racchiude e trattiene in sé numerose spighe che altrimenti andrebbero sparse qua e là.

Ecco che si è aggiunto l’ultimo tassello che descrive la natura di Sceafa il longobardo; da figura mitica va a cristallizzarsi in una dimensione storica.
Ad ulteriore supporto di questa tesi seguirà l’analisi di alcuni passi delle genealogie dei re
anglosassoni. Iniziamo dunque con il ‘Chronicon Æthelweardi’ ( i.e. “Cronaca di Æthelward”, redatto fra il 975 ed il 983 ) dove nella sezione del libro terzo dedicata ad Æthelwulf ( i.e. sovrano del Wessex, padre del futuro re Alfred e figlio di re Egbert ) è contenuto il seguente passo dove viene presentata l’origine di Scef, padre di Scyld ed avo di Geat:

Anno 857

Denique post annum Athulf rex obiit, cuius corpus requiescat in urbe Vuintona. Igitur præfatus rex fuit filius Ecgbyrthi regis, cuius auus Ealhmund, proauus Eafa, atauus Eoppa, abauus Ingild, Ines frater, Occidentalium Anglorum regis, qui Romæ finierat uitam, traxeruntque supra dicta reges a Cenred rege originem. Cenred fuit filius Ceoluuald. Auus [1] quippe eius Cuthuuine [2], proauus Ceaulin, atauus Cynric, abauus Cedric, qui et primus possessor Britanniæ partis occidentalis superatos exercitus Brittannorum, cuius pater fuit Elesa, auus Elsa, proauus Geuuis, atauus Vuig, abauus Freauuine, sextus pater eius Frithogar, septimus Brand, octauus Balder, nonus Vuothen, decimus Frithouuald, undecimus Frealaf, duodecimus Frithouulf, tertius decimus Fin, quartés decimus Godulfe, quintus decimus Geat, sextus decimus Tetuua, septimus decimus Beo, octauus decimus Scyld, nonus decimus Scef. Ipse Scef cum uno dromone aduectus est in insula oceani que dicitur Scani, armis circundatus, eratque ualde recens puer, et ab incolis illius terræ ignotus. Attamen ab eis suscipitur, et ut familiare diligenti animo eum custodierunt, et post in regime eligunt; de cuius prosapia ordinem trahit Aðulf rex. Transmeatusque est tunc numerus annorum quinquagessimus quintus, ex quo Ecgbyrth cepit regnare. 

- Chronicon Æthelweardi, libro III, anno 857

che tradotto suonerebbe più o meno così:

Infine, dopo un anno re Æthelwulf morì, il suo corpo riposa nella città di Winchester. 
Ora, il suddetto re fu figlio del re Egbert, suo avo [fu] Elmund, suo bisavolo [fu] Eafa, suo trisavolo [fu] Eoppa, suo bisarcavolo [fu] Ingild, fratello di Ina, re degli Angli Occidentali, che a Roma finì la [sua] vita; e i suddetti re ebbero origine da re Cenred. Cenred fu figlio di Ceolwald. In più suo avo [fu] Cuthwin, suo bisavolo [fu] Ceawlin, suo trisavolo [fu] Cynric, suo bisarcavolo [fu] Cedric, il quale - sconfitta l’armata dei Britanni - fu il primo signore delle parti occidentali della Britannia; suo padre fu Elesa, suo avo [fu] Elsa, suo bisavolo [fu] Gewis, suo trisavolo [fu] Wig, suo bisarcavolo [fu] Freawin, figlio di Frithogar, figlio di Brond, figlio di Beldeg, figlio di Woden, figlio di Frithowald, figlio di Frealaf, figlio di Frithuwulf, figlio di Finn, figlio di Godwulf, figlio di Geat, figlio di Tætwa, figlio di Beaw, figlio di Scyld, figlio di Scef. 
Questo Scef fu portato su una lunga nave in un’isola dell’Oceano che è detta Scani, cinto di armi, ed era poi un giovane fanciullo, ed ignoto agli abitanti di quella terra. Ciononostante fu da questi accolto, e come loro familiare - con animo diligente - lo custodirono, e più in là lo elessero loro sovrano; da questa stipe il re Æthelwulf trasse la discendenza. A quel tempo si concluse il cinquantacinquesimo degli anni dal quale Egbert prese a regnare.

Ecco che Scef viene presentato come sovrano di coloro che abitavano l’isola di Scani, il cui nome non viene riportato da Æthelward.

È possibile però rifarsi al passo del libro IV delle ‘Gesta Regum anglorum’ ( i.e. “Gesta dei re Angli”, completato nel 1125 ) di quel William di Malmesbury che si riteneva erede di Beda il Venerabile ( i.e. monaco anglosassone che a buon diritto viene considerato padre della storiografia inglese, nacque intorno al 672/3 e morì il 26 Maggio 735 ) e che desiderava riempire quei buchi che erano rimasti nella storiografia anglosassone dalla morte di Beda sino ai suoi giorni. 
Nel redigere la sua opera egli attinse al patrimonio storiografico precedente; si ispirò alla ‘Vita Ælfredi regis Angul Saxonum’ ( i.e. “Vita di Alfred re degli Anglosassoni”, risalente al 893 c.ca ) del monaco Asser ( i.e. termine ebraico, usato ad esempio nel secondo libro di Ester, che sta per “beatitudine” ) come anche all’opera di Æthelward. Da quest’ultima riprese la narratio dell’arrivo di Sceaf e la inserì, come in precedenza aveva fatto lo stesso Æthelward, nella genealogia di re Æthelwulf seppur mutandone alcune parti.

[…] Sceldius Sceaf. Iste, ut ferunt, in quandum insulam Germanniæ Scandzam, de qua Jordanes historiographus Gothorum loquitur, appulsus naui sine remise puerulus, posito ad caput frumenti manipulo dormiens, ideoque Sceaf nuncupatus, ab hominibus regionis illius pro miraculo exceptus et sedulo nutritus, adulta ætate regnauit in oppido quod tunc Slaswic, nunc uero Haithebi appellatur. Est autem regio illa Anglia Vetus dicta, unde Angli uenerunt in Britannia, inter Saxones et Gothos constituta. Sceaf fuit filius Heremodii; Heremodius Stermonii; Stermonius Hadræ; Hadra Gwalæ; Gwala Bedwegii; Bedwegius Strefii ( hic, ut dicitur, fuit filius Noe in archa natus ).

- Gesta Regum anglorum. libro IV

La traduzione di questo passo segue ora:

[…] Sceld di Sceaf. Questo Sceaf, come raccontano, approdato appena fanciullo su quell’isola della Germania [detta] Scandza, di cui parla lo storico dei Goti Jordanes, con una barca senza rematori, dormiente con un fascio di frumento posto vicino al capo - per questo venne chiamato Sceaf - dopo essere stato accolto dagli uomini di quella regione come un prodigio degli dei e diligentemente nutrito, in età adulta regnava su quella città che ora è chiamata Hedeby ma che allora [era nota come] Slaswic. Proprio quella regione è detta Old Anglia, dalla quale gli Angli giunsero in Britannia, stretta fra Sassoni e Goti. Sceaf fu figlio di Heremod,; Heremod di Stermon; Stermon di Hathra; Hathra di Gwala; Gwala di Bedwig; Bedwig di Streph ( questi, si dice, fu figlio di Noè nato sull’arca ).

Tralasciando l’indiretta citazione dell’opera di Asser ( i.e. ‘hic, ut dicitur, fuit filius Noe in archa natus’, “questi, si dice, fu figlio di Noè nato sull’arca” ) e l’accenno al fascio di frumento che contraddice la versione di Æthelward che vede il piccolo Scef attorniato da armi, è importante notare come qui William di Malmesbury sostituisca il sostantivo ‘Scani’ di Æthelward con ‘Scandza’. 
Non è un caso che all’inizio del primo libro della ‘Origo Gentis Langobardorum’ ( i.e. “Origine della stirpe dei Longobardi” ) sia citata come sede di origine del popolo longobardo un’isola il cui nome, Scadanan, è affine a Scandza:

Est insula qui dicitur scadanan, quod interpretatur excidia, in partibus aquilonis, ubi multae gentes habitant […]

- Origo Gentis Langobardorum, libro I

ossia:

Nelle zone molto settentrionali vi è un’isola che è detta Scadanan, traducibile con ‘tramonti’, dove vivono molte stirpi […]

Ecco che si riaffaccia ancora un possibile legame fra Sceaf e la stirpe longobarda, la quale, secondo quanto sinora riportato, lo accolse “come un prodigio degli dei”. Sceaf sembrerebbe dunque avere forti legami con il divino; ecco che le asserzioni fatte in precedenza sulla natura mitico divina di Sceaf e sul suo legame al mondo agreste ricevono ulteriore conferma.

L’ultima attestazione in ambito medievale anglosassone di Sceaf e di suo figlio Scyld coincide con un diploma genealogico del secolo XV stilato per il re Enrico VI nel quale il riferimento alle figure di Sceaf e di Scyld è duplice. 
Nel diploma vi è uno stemma araldico che mostra Steph ( i.e. Sceph, ossia Sceaf ) come padre di Steldius ( i.e. Sceldius, ossia Sceld/Scyld ), il quale a sua volta era padre di Boerinus, che a sua volta era padre di “Cinrinicius, Gothus, Jutus, Wandalus, Gethius, Fresus, Suethedus, Dacus et Geate”, ossia dei progenitori di tutte le stirpi germaniche che allora risiedevano nella Scandinavia e nella Mitteleuropa.
Oltre allo stemma vi è poi una glossa il cui testo in latino ripropone quanto in precedenza detto:

Iste Steldius primus inhabitator Germaniæ fuit. Que Germania sic dicta erat, quia instar ramorum germinancium ab arbore, sic nomen regnaque germania nuncupantur. In nouem filiis diuisa a radice Boerini geminauerunt. Ab istis nouem filiis Boerini descenderunt nouem gentes septentrionalem partem inhabitantes, qui quondam regnum Britannie inuaserunt et optinuerunt, videlicet Saxones, Angli, Iuthi, Daci, Norwagences, Gothi, Wandali, Geathi et Fresi.

che tradotto suonerebbe più o meno così:

Questo Steldius fu il primo abitante della Germania. In più la Germania fu così chiamata, a guisa dei rami che si sporgono da un albero; in tal maniera il nome ed i regni sono chiamati germania. Riguardo a quei nove figli originatisi dalla radice di Boerin, essi si moltiplicarono. Da questi nove figli di Boerin discesero le nove stirpi che vivono nella regione settentrionale, le quali un tempo invasero e tennero il regno di Britannia, ossia i sassoni, gli Angli, gli Juti, i Dani, i Norvegesi, i Goti, i Vandali, i Geati ed i Frisoni.

In conclusione, da quanto sinora detto, Scyld e Sceaf sono figure appartenenti ad un mito fondativo legato all’antico passato germanico che rimane avvolto nelle nebbie della Storia.


Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

- Testi in traduzione inglese online:
- Testi in latino online:

lunedì 11 novembre 2019

Sceafa, parte III

Uno Scēf è poi indirettamente menzionato al verso 4 del prologo del Beowulf, prologo che ha funzione didascalico introduttiva dacché nei suoi 52 versi narra le gesta dei ‘gar-Dena’ ( i.e. “Dani delle lance” ); fra questi risalta un certo Scyld Scefing che nei versi 18 e 19 sembra essere presentato come padre di Beowulf.
Prima di presentare quei versi del prologo che introducono la figura di Scyld Scefing è necessario chiarire come in realtà il Beowulf figlio di Scyld non coincida affatto con il protagonista eponimo del poema; questi è quel Béowulf Scyldinga che nelle cronache genealogiche anglosassoni viene presentato come Beow(a) o Béaw - nel manoscritto Parker della Cronaca anglosassone del secolo IX il figlio di Scyld ha nome Beaw. John M. Kemble vide questa diacronia come un errore di un copista il quale, conoscendo superficialmente il poema epico ed il suo protagonista, decise di rettificare Beow in Beowulf anticipandone l’ingresso in scena; Kevin S. Kiernan in tempi recenti è arrivato a sostenere che le diverse lectiones restituite dal prologo del Beowulf e dal manoscritto Parker in merito all’identità del figlio di Scyld siano da ascriversi a due differenti tradizioni epiche di cui una a più vasta diffusione era incentrata sulla figura di Beowulf.
Ciò che realmente è importante ai fini della nostra narrazione è l’interpretazione etimologica che il filologo tedesco Karl Müllenhoff restituisce del nome Beaw ( o Beow ); egli lega il suddetto alla radice protogermanica *bhú che in anglosassone ha dato origine al verbo būan ( i.e. “coltivare” ) inerente alla sfera agreste. Ancora, il sostantivo anglosassone dal quale deriva il nome Beow è ‘beow’ ( i.e. “orzo”, dal protogermanico *bewwu ) ed è anch’esso legato al mondo agricolo e per questa ragione viene identificato da Müllenhoff con il dio Ing e dunque con Fréa ( i.e. anglosassone per Freyr ).
Presentiamo ora i versi che ci interessano:

Oft Scyld Scefing sceaþena þreatum,
monegum mægþum meodosetla ofteah,
egsode eorl[as], syððan ærest wear.
feasceaft funden; he þæs frofre gebad,
weox under wolcnum weorðmyndum þah,
oð þæt him æghwyle ymbsittendra
ofer hronrade hyran scolde;
gomban gyldan; þæt wæs god cyning!

- Beowulf, Prologo, versi 4-11

che tradotto suonerebbe più o meno così:

Spesso Scyld Scefing a schiere ( i.e. þreatum, dativo plurale di þrēat ) di nemici ( i.e. sceaþena, genitivo plurale di sceaþa ),
a molte ( i.e. monegum/manegum, dativo plurale dell’aggettivo maniġ ) nationes ( i.e. mægþum, dativo plurale di mægþ ) sottraè ( i.e. ofteah, terza persona singolare del præterito di ofteon verbo che regge come oggetto il genitivo plurale di meosetl, ossia meodosetla ) le panche dell’idromele,
terrorizzò guerrieri, dopo che fu trovato
derelitto, di questo ebbe conforto,
fu grande sotto il cielo, prospero d’onori
finché a lui le genti tutt’intorno
oltre la via della balena dovettero obbedienza,
pagarono tributo; fu un grande re.

- NB. i primi due versi sono tradotti ed analizzati dall’autore dell’articolo, i restanti vengono dalla seguente traduzione:
http://www.maldura.unipd.it/dllags/brunetti/OE/TESTI/Beowulf/DATI/testotra.html

Ecco che al verso 4 affianco al nome proprio Scyld compare il termine Scefing, composto da Scēf e dal suffisso -ing. Sulla natura di questo composto si sono interrogati molti studiosi dacché il suddetto suffisso, derivante dal protogermanico *-ingaz, in ambito anglosassone è solito dare origine a forme derivate di nomi maschili aventi funzione di patronimico o più raramente, in tempi arcaici, di epiteto. Due sono le correnti di accademici che tutt’ora si fronteggiano sulla funzione che il suffisso -ing assegna al nome Scēf.
Secondo alcuni il suffisso -ing darebbe origine ad un nome avente funzione di patronimico e dunque il termine Scēf andrebbe a coincidere con il nome del padre di Scyld e quindi ‘Scyld Scefing’ andrebbe tradotto come “Scyld, figlio di Scēf”; se questo Scēf abbia o meno qualche legame con lo Sceafa a cui accenna il Widsið è tutto da dimostrare. Stando alle poche informazioni dirette che le fonti ci restituiscono, entrambi questi personaggi avrebbero guidato/regnato su popoli votati alla guerra ed entrambi avrebbero portato ordine fra la loro gente ma null’altro si può dire oltre questo senza un’analisi più approfondita delle fonti, analisi che compiremo a breve.
Secondo un gruppo ristretto di studiosi il suffisso -ing andrebbe invece a creare un epiteto di Scyld dall’oramai noto sostantivo maschile ‘sċēaf’ ( i.e. “covone” ); ecco che in questa prospettiva ‘Scyld Scefing’ andrebbe tradotto come “Scyld del covone”. Quanto appena detto è in aperta opposizione con le teorie di Raymond W. Chambers secondo le quali Scyld e Scēf sarebbero due distinte figure, arcaici fondatori di dinastie famose.



Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
https://archive.org/details/beowulfintroduct00chamrich
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
https://archive.org/details/atranslationang00kembgoog
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

Sceafa, parte II

Partendo da questi presupposti analizziamo ora il passaggio del primo þula nel quale viene menzionato il sovrano longobardo di nome Sceafa

Sigehere lengest Sædenum weold,
Hnæf Hocingum, Helm Wulfingum,
Wald Woingum, Wod Þyringum,
Sæferð Sycgum, Sweom Ongendþeow,
Sceafthere Ymbrum, Sceafa Longbeardum,
Hún Hætwerum & Holen Wrosnum [...]

- Widsið, þula I, versi 28-33


che tradotto suonerebbe più o meno così

Sigehere più a lungo regnò sui Dani del mare,
Hnæf sugli Hocing, Helm sui Wulfingas ( i.e. Ylfingar ),
Wald sui Woingas, Wod sui Þyringi,
Sæferð sugli Sycgans, Ongendþeow sugli Sweonas ( i.e. Sueoni o Svear),
Sceafthere sugli Ymbran, Sceafa sui Longobardi,
Hun sugli Hætwere e Holen sui Wrosnan [...]


Seppure Sceafa qui sia appena citato è possibile fare ipotesi sul suo ruolo in seno ai Longobardi; questi ultimi, all’epoca in cui si presume regnasse Sceafa, risiedevano in quella regione posta fra il fiume Weser ed il basso Elba. I Longobardi vivevano dunque a sud degli Angli ed ad est dei Sassoni ed erano, per un certo grado, separati dai germani del Nord che abitavano l’odierne Danimarca, Svezia e Norvegia; la presenza in ambito onomastico longobardo del nome anglosassone ‘Sceaf’ è espressione di quel substrato culturale comune a Longobardi e Sassoni di cui si parla nell’Historia Langobardorum. È necessario però notare come in ambito anglosassone il suddetto nome sia etimologicamente legato all’ambito agricolo; il sostantivo ‘sċēaf’ rimanda alle messi.
I Longobardi sui quali Sceafa regnava vennero descritti da Velleio Patercolo ( i.e. storico romano del secolo I ) come “gens etiam Germana ferocitate ferocior” ossia come una ‘stirpe ancor più ferina della ferinità germanica’; sempre nel secolo I lo storico Tacito li descrisse così “Contra Langobardos paucitas nobilitat: plurimis ac valentissimis nationibus cincti non per obsequium sed proeliis et periclitando tuti sunt” che tradotto ‘Al contrario [dei Suebi], lo scarso numero nobilita i Longobardi: circondati da molti e valenti popoli trovano la loro sicurezza non nell’obbedienza bensì nei conflitti e nell’esporsi al pericolo’. Entrambe le fonti concordano sulla natura guerriera di questo popolo sul quale Sceafa ‘weold’ ( i.e. terza persona singolare del præterito del verbo ‘wealdan’ il cui significato è indubbio, “regnare” o “guidare”, ed è legato al comando militare tipico dei ‘bretwaldan’ ossia dei signori di uomini del secolo V ); non abbiamo altre informazioni oltre il nome ed il fatto che fosse a capo dei Longobardi eppure queste sono sufficienti per delineare l’essenza di questa sfuggente figura.
Riallacciandoci alle cronache anglosassoni di cui parleremo poi, si può ipotizzare che Sceafa fosse un signore di uomini di stirpe semidivina, con buone probabilità persino antecedente ai due figli di Gambara ( i.e. Ibor ed Aion ) riconosciuti dalle fonti peninsulari come i primi mitici re longobardi.
Ecco che l’etimologia del nome Sceafa, dipendente dal sostantivo agricolo ‘sċēaf’ ( i.e. “covone” ) come anche dal sostantivo ‘sceafa’ ( i.e. “[strumento] che rasa”, spesso interpretato come falce ), assume una valenza particolare; Sceafa equivarrebbe a quella figura atemporale e metastorica avente valenza unificante ed ordinatrice - il covone riunisce in sé numerose spighe che altrimenti andrebbero sparse qua e là - che portò fra i Longobardi l’aratura divenendone così il primo signore di uomini essendo già signore del suolo.


Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
https://archive.org/details/beowulfintroduct00chamrich
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
https://archive.org/details/atranslationang00kembgoog
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

Sceafa, parte I


In ambito peninsulare vi sono due fonti nelle quali sono riportate le varie figure che regnarono sul popolo longobardo; la più antica fu redatta nel secolo VII da un anonimo ed è nota con il nome di ‘Origo Gentis Langobardorum’ ( i.e. “Origine della stirpe dei Longobardi” che dalle origini arriva a trattare il secondo regno del sovrano Perctarit, nel testo latino Pertarito, del 671-688 ) mentre la più recente risale all’ultima metà del secolo VIII e fu redatta dal longobardo Paul Warnefried, la ‘Historia Langobardorum’ ( i.e. “Storia dei Longobardi” che dalle origini arriva sino al 744, anno della morte del re Liutprand ).
Da entrambi questi “cataloghi” di regnanti longobardi è assente però Sceafa, figura delle origini, che viene invece citata in ambito epico anglosassone - nel poema ‘Widsið’ ( i.e. “lungo viaggio”, è il nome del protagonista dell’opera ) e forse anche nel ‘Beowulf’ - e sembra trovare più di un riscontro nelle genealogie dei re anglosassoni quali il ‘Chronicon Æthelweardi’ ( i.e. “Cronaca di Æthelward”, redatto fra il 975 ed il 983 ) e le ‘Gesta Regum anglorum’ ( i.e. “Gesta dei re Angli”, completato da William di Malmesbury nel 1125 ).
Al fine di comprendere al meglio la figura di Sceafa è necessario compiere un’analisi separata delle fonti sopra elencate in base al genere letterario delle suddette.

Iniziamo dunque con l’analisi dei due poemi epici anglosassoni.
Entrambi i due poemi attingono ad un sostrato di memoria storica proprio dell’immaginario germanico ossia quel periodo di due secoli che va dalle incursioni delle orde unno-alaniche e la conseguente morte del sovrano grutungo Ermanaric - noto come *Aírmanareiks in lingua gota - che nel 375 aveva cercato di opporvisi sino all’inizio della conquista longobarda della penisola italiana operata da Alboin nel 658-659 alla quale avrebbero dovuto partecipare gli stessi Sassoni.

NB. Non è un caso che le fonti anglosassoni facciano menzione di una figura legata all’universo longobardo dacché, come lo stesso Paul Warnefried afferma nella sua opera, il popolo sassone e quello longobardo avevano molto in comune. Basti pensare allo stesso nome longobardo Alboin, composto derivante dai due termini del protogermanico *albiz ( i.e. “elfo” ) e *winiz ( i.e. “amico” ); esso presenta una variante anglosassone, Ælfwine, presente al verso 70 del Widsið.

Nel Widsið viene menzionato un sovrano longobardo noto come Sceafa, nome che sembra avere forti legami etimologici con lo Scēf di cui accenna il prologo del Beowulf. Nonostante questo legame - entrambi i nomi sono legati al sostantivo anglosassone ‘sċēaf’ ( i.e. “covone” ) - alcuni studiosi, fra i quali vi è Alexander M. Bruce, sono inclini a ritenere che Sceafa e Scēf siano due figure distinte; seppur di non secondaria importanza la questione verrà approfondita in seguito dacché ai fini della spiegazione è necessario prima di ogni altra cosa analizzare la datazione e la natura dei due poemi epici.
Il Widsið, databile fra la fine del secolo VI e gli inizi del secolo VI, contiene al suo interno tre ‘þulas’ ( i.e. “cataloghi” ) incentrati sulle figure di re ed eroi fra le quali spicca la figura di Alboin a cui il protagonista accenna nel descrivere la discesa longobarda in Italia della seconda metà del secolo VII. Da qui è naturale affermare che questi þulas vennero progressivamente ampliati nel periodo di poco precedente alla canonizzazione del poema, canonizzazione che sembra coincidere con la messa per iscritto del poema che in seguito a questa si cristallizza. Buona parte dei 143 versi che compongono il poema è senza alcun dubbio antica, difficile è stabilire quanto queste sezioni siano antiche e se queste siano antecedenti o meno al Beowulf; secondo Raymond W. Chambers il primo þula del Widsið - quello che accenna a Sceafa per intenderci - è con buone probabilità il più antico frammento di poesia anglosassone, antecedente di alcune generazioni al Beowulf che egli data intorno al 700. Alla stregua di Chambers, Kemp Malone ritiene che la terminologia arcaica e la struttura sintattica leghino indissolubilmente la canonizzazione del poema alla fine del secolo VII, sul principiare dell’epoca di Bede il Venerabile. Altri studiosi come John Niles ritengono che l’opera sia posteriore al regno di re Ælfrēd il Grande e dunque al secolo IX e che fosse stata redatta come strumento di propaganda al fine di giustificare, mostrando un’origine comune delle genti anglosassoni, l’unificazione dei regni dell’eptarchia anglosassone nel regno di Inghilterra avvenuta nei primi del secolo X. Inutile dire che l’autore di questo articolo rigetta in toto quest’ultima ipotesi e sposa la precedente dacché nessun dotto anglosassone della fine del secolo IX avrebbe potuto falsificare fin nelle minuzie uno stile scrittorio ormai da tempo desueto; anche se così fosse di certo non avrebbe usato uno stile desueto allo scopo di redigere un’opera di propaganda che proprio per questo sarebbe risultata di non facile fruizione per la gran parte della nobiltà anglosassone alla quale, secondo il Niles, tale opera era destinata.
Parte del materiale al quale attinge il Widsið sembra essere più antico di quello del Beowulf; nonostante gli studiosi continuino a dibattere su quale fra questi due scritti sia stato il primo a canonizzarsi in forma scritta, la precedente affermazione ha un elevato grado di veridicità come sostiene lo stesso Chambers nella prima sezione dell’opera ‘Beowulf, an introduction to the study of the poem’.


Bibliografia

- Alexander M. Bruce ‘Scyld and Scef, expanding the Analogues’, 2002
- Raymond W. Chambers “Beowulf, an introduction to the study of the poem”, 1921
https://archive.org/details/beowulfintroduct00chamrich
- John M. Kemble “A Transaltion of the Anglo-Saxon Poem of Beowulf”, 1837
https://archive.org/details/atranslationang00kembgoog
- Kevin S. Kiernan “Beowulf and the Beowulf Manuscript”, 1997

domenica 10 novembre 2019

Le vie di Wodanaz speciale Weltanschauung

Il consueto benvenuto a voi che seguite il nostro progetto, eccovi il nostro nuovo pdf, dedicato a quella che è la nostra visione del mondo.
Che gli Dèi vi guidino.

-La redazione de Le vie di Wodanaz

https://drive.google.com/file/d/1u1TJfxK8cMpbKLuP-tGppkzmM9giOVlQ/view?usp=sharing

sabato 2 novembre 2019

Tauromachia antica e moderna

O sull’anemia dell’onore occidentale


La taurocatapsia antica, diffusa dal mediterraneo all’india, che prevedeva il salto di un toro o di un uro da parte di un giovane aveva un significato rituale molto potente ed era legata a pratiche religiose connesse agli antichi culti indoeuropei, si trattava di una prova di forza e coraggio, di un scontro fra pari tra l’uomo e l’animale in cui l’atleta accettava un forte rischio personale.

Era anche, allo stesso modo, un’offerta, l’accettazione della possibilità di un tributo di sangue.

Era una prova riservata solo ai migliori, ai giovani, a coloro che più erano cari agli Dèi.

La tauromachia, evoluzione o differenziazione della taurocatapsia, prevedeva in origine lo scontro fra un giovane, a cavallo o a piedi, ed un toro, senza intermediazioni, ed era anch’essa espressione di ideali di coraggio e onore.

Con l’avanzare della “civiltà” e l’indebolimento dei valori di cui sopra altri elementi si aggiunsero alla pratica, i partecipanti diventarono più numerosi mentre il toro iniziò ad essere indebolito o reso meno pericoloso con stratagemmi di ogni genere fino ad arrivare alla sua rappresentazione attuale, volgarmente detta corrida.

La toreada, divisa in tre parti, le prime due (tercio de varas, tercio de banderillas) hanno il compito di indebolire il toro, ferendolo e stancandolo mentre la terza (tercio de muleta) è la fase finale, nella quale il toro, ormai spossato, viene finito (o, talvolta, risparmiato).

Si tratta, in definitiva, di una versione edulcorata del rito originale, una parodia vigliacca di quello che, un tempo, era uno scontro rituale e leale fra l’uomo ed un fiero animale e va per questo condannata, senza alcuna esitazione, da quanti propugnano una società sana.