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martedì 28 aprile 2020

Lo Swastika e il Labirinto - Parte IV

La figura del toro era molto venerata a Creta ed aveva un posto di rilievo nella religiosità etrusca e romana.
In alcuni rilievi di urne etrusche risalenti all’età ellenistica è possibile trovare scene affettuose di una Pasifae che si prende cura del piccolo Asterione come anche riferimenti a Fufluns (o Puphluns), Areatha e Semia; questi ultimi nomi sono le versioni etrusche di Dioniso, di Arianna e di Semele.
Per i romani il toro divenne emblema di numerose legioni, basti pensare alla legio X Equestris, segno del fatto che i miles romani ne controllassero la forza attraverso una rigida disciplina, forza che per i Galli andava a coincidere con una delle tre virtù rappresentate dai raggi del triskelis ma da essi spesso solamente subita e raramente controllata (da qui deriva l’espressione furor gallico).

statuetta votiva in bronzo

Riprendendo il concetto di stella posta al cento assoluto del labirinto e dunque dello Swastika, gli induisti identificano nel toro Nandi la cavalcatura di Śiva e della sua consorte, Parvati.
Nandi è guardiano del Dharma ed è anche portatore di Verità, di forza controllata, di virilità e fede nel divino. Essendo Nandi intermediario tra Śiva e gli uomini, questi prima di adorare la divinità debbono necessariamente ottenere la benedizione di questi la cui statua è posta all'entrata di ogni tempio śivaita.
Nandi fu anche maestro dei diciotto Siddhars, personalità versate in svariate dottrine ed arti che si spinsero sino agli angoli del mondo per potervi diffondere la loro conoscenza.
Nandi fu colui che insegnò agli uomini come danzare sulla scia della Danza di Śiva, parallelo di quella danza delle gru eseguita da Teseo dopo esser uscito dal labirinto ed aver così raggiunto Dioniso grazie ad Arianna, la sua Śakti.

statuetta bronzea di Nandi

La figura di ‘Asterione - Nandi’ è dunque legata a quelle di fondatori e di re arcaici, una figura avversa che è sempre presente in quei miti dove gli eroi affrontano varie prove per poter ascendere alla realizzazione.
In conclusione si può asserire che ‘Asterione - Nandi’ sia il centro assoluto, statico ed immobile del Labirinto e dunque anche dello Swastika, un passaggio obbligato per qualsiasi iniziato che intenda raggiungere la beatitudine divina.

Gianluca Vannucci, in collaborazione con le vie di Wodanaz


P.S. L'autore di questo articolo ha anch'egli un suo blog di cui il link ora segue: https://ilfuocoeterno.blogspot.com/


lunedì 27 aprile 2020

Lo Swastika e il Labirinto - Parte III

Torniamo ora al Minotauro cretese Asterione.
Stando a quanto racconta il mito, questi era stato generato dall’unione fra il Toro di Creta e la regina cretese Pasifae, unione scaturita da un impulso irrazionale ed irresistibile che rapì quest’ultima. Questo impulso fu istillato in lei dal dio Poseidone, irato per non aver ricevuto in sacrificio dal re Minosse il migliore fra i tori che questi possedeva; l’esemplare più prestante era proprio il Toro di Creta di cui Poseidone aveva fatto temporaneamente dono al re cretese con la condizione di riceverlo poi in sacrificio, condizione che Minosse violò.
Essendo il Toro di Creta filiazione diretta del dio Poseidone, si può asserire che il Minotauro non sia altro che l’ipostasi del Toro Divino. Ciò che vale per il minotauro Asterione vale anche per il Tarvos neolitico (fra i Celti divenne noto come Tarvos Trigaranos), per il toro celeste sumero, per la cavalcatura di Europa come pure per quel toro che è al servizio di Tarhunt (dio hurrita del cielo e della tempesta).

Il Toro è l’emblema di quell'energia caotica che può essere domata solo dalla divinità.
Seguendo questa linea di pensiero, il Toro è l’equivalente del serpente cornuto che affianca Kernunnos ed è identificabile con quel Zagreo multiforme che, secondo Eschilo, va a coincidere con quel Dioniso generato dall’unione fra Plutone, tramutatosi in serpe, e Proserpina.
Zagreo è deificazione di quella scintilla divina che riluce nel profondo degli Inferi come anche nel profondo di noi stessi; egli è intelletto cosmico come anche è guida posta al centro del mandala dell'universo, ossia al centro del Labirinto.

Gianluca Vannucci, in collaborazione con le vie di Wodanaz


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domenica 26 aprile 2020

Lo Swastika e il Labirinto - Parte II

Il centro dello Swastika e dunque del Labirinto è quel punto assolutamente immobile che nell’iconografia cretese non a torto viene rappresentato come una stella. Quelle stelle della costellazione dell’Orsa Maggiore che vanno a comporre il Grande Carro, ruotano attorno alla stella del Nord, la stella polare, e con il mutare delle stagioni creano nella volta celeste il seguente disegno:

Rotazione annuale del Grande Carro attorno alla stella polare.

Ecco che il Labirinto rappresenta il viaggio dell’anima verso la luce che questo custodisce nel suo centro; durante questo viaggio l’anima lascia dietro di sé tutte le illusioni della vita terrena, quelle apparenze esteriori create da Maya, per arrivare allo stato di pura beatitudine che è assoluta veritas e consapevolezza.

Analizziamo ora la figura del cosiddetto Minotauro, ai più nota grazie al mito attico di Teseo.
Seppure la narrazione del suddetto mito sia in parte inficiata dall’insofferenza che Ateniesi e Cretesi provavano l’uno per l’altro, ragione per cui nella narrazione attica la dimensione cretese è attanagliata dal mostruoso che ha personificazione nel suddetto Minotauro, è necessario andare oltre queste minuzie fuorvianti che null’altro sono se non illusioni da sciogliere nel percorrere il sentiero che porta alla verità.
L’essenza del Minotauro, il cui stesso nome Asterion (italianizz. ‘Asterio, Asterione’, ossia “stellato”) racchiude nel suo etimo una dimensione astrale, rimanda ai versi misterici delle lamine orfiche (i.e. Totenpass, ossia passaporti per l’aldilà che vengono riposti nelle sepolture dei defunti in area mediterranea) «son figlio della Terra e del Cielo stellato; sì, la mia preghiera è celeste» (lamina orifica della Tessaglia del IV secolo a.e.c.).
Le sette sorelle (i.e. le Pleiadi), astri che regolavano lo scorrere delle ritualità contadine nel mondo greco classico (e.g. «Quando sorgono le Pleiadi, figlie di Atlante, incomincia la mietitura; l'aratura, invece, al loro tramonto. Queste sono nascoste per quaranta giorni e per altrettante notti; poi, inoltrandosi l'anno, esse appaiono appena che si affili la falce.» Esiodo, Le opere e i giorni, III 383-86), in alcuni periodi dell’anno assumono la forma di un Liṅga (i.e. sanscrito per “segno, marchio”), simbolo di forma ovale che spesso rappresenta la forma dell’Assoluto trascendente privo di fine e di inizio; per questa ragione è legato a Shiva.

Moneta cretese con minotauro e labirinto stellato.
Si noti la forma a swastika del suddetto labirinto.






Gianluca Vannucci, in collaborazione con le vie di Wodanaz


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sabato 25 aprile 2020

Lo Swastika e il Labirinto - Parte I

Lo Swastika è un antichissimo simbolo che compare in tutte le antiche civiltà del mondo, dalla Grecia all'Europa, dall'India all'Asia sino ad arrivare alle Americhe.
Creta non faceva eccezione, dacché lo Swastika appare spesso infatti in artefatti come anfore o affreschi palaziali chiaramente legati alla simbologia della Labrys, del Toro e dei Serpenti, parte del culto misterico minoico. Lo Swastika infatti può rappresentare il Labirinto, il quale è spesso raffigurato in varie culture con una forma circolare o talvolta quadrata avente un centro ed un'uscita posti vicino all'entrata; non era quindi un complesso progettato per farvi perdere l'iniziato bensì per fare uscire quest'ultimo solo dopo che questi avesse raggiunto il centro del labirinto. L'iniziato tornava così indietro sui propri passi dopo aver colto l'essenza del nucleo.


Per capire la simbologia del Labirinto ed il perchè della sua estrema importanza per gli Avi dobbiamo carpire l'essenza dello Swastika, simbolo con il quale, si pensi alla civiltà cretese, il labirinto spesso condivide un significato interscambiabile.

Moneta cretese con labirinto
Lo Swastika è un simbolo che consiste in due linee intersecate al loro centro e che può essere quadrato, tondo o spiraliforme; basti pensare agli affreschi in Val Camonica. Le "braccia" di cui è dotato denotano un movimento, un movimento che è rotazione.
Un'interpretazione di questo simbolo può essere data partendo dalla diade Shiva - Shakti, diade che è espressione di due aspetti del Divino: la pura, infinita ed assoluta Coscienza Cosmica (Shiva) nel Suo stato non manifesto ed il movimento dell'Energia Cosmica (Shakti) che agisce sulla Coscienza pura.
La Shakti genera, manifesta onde di forma ed Essere dal non manifesto che appare nella forma varia della creazione.
Shiva invece rappresenta il Divino assoluto, il trascendente, la pura beatitudine, la Verità e la Consapevolezza.
Shakti è Potenza divina, la forza dietro l'infinito flusso della Creazione, la Potenza dell'illusione che crea diversità dall'unicità; ecco che Shakti è anche Maya, l'illusione che seduce, ammalia ed "intrappola" le anime e gli esseri viventi nel dramma, nel dolore e nel piacere dell'esistenza materiale.
Si può asserire che l'aspetto manifesto di Shiva/coscienza coincida con un braccio dello Swastika mentre Shakti/energia coincida con l'altro e nell'eterno danzare di questi bracci, nel ciclico movimento di creazione e di dissoluzione, Shiva e Shakti restituiscono l'interezza della creazione.

Nell'induismo Shiva e Parvati, la Signora e la Sposa, hanno diversi simboli correlati, tra i quali il Tridente, il Serpente arrotolato - ovverosia la Shakti-Kundalini, l'energia da domare dentro ognuno di noi - lo Swastika, la Luna crescente ed il Toro Sacro, Nandi, che è loro veicolo e Guardiano.

Gianluca Vannucci, in collaborazione con le vie di Wodanaz


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martedì 21 aprile 2020

Il sacrificio umano alla "Stella del Mattino"

Il sacrificio umano nelle popolazioni del centro e sud america era molto diffuso, mentre nell'America settentrionale era quasi assente, tranne per una popolazione, i Pawnee.
I Pawnee, popolazione stanziatosi nell'odierno Nebraska, si dividevano in quattro gruppi: Chaui, Pitahauerat, Kitkehahki e Skidi.
I guerrieri di questa popolazione erano caratterizzati dalla pettinatura a cresta, detta Pariki.
Come anticipato, questo popolo era solito al sacrificio umano, in questo caso in onore della Stella del Mattino, che secondo le loro credenze, si congiunse con la Stella della Sera per dare vita al primo essere umano, il sacrificio serviva inoltre per benedire il raccolto, caratterizzato da mais, fagioli e zucche.
Le vittime erano ragazzine catturate nelle incursioni contro i nemici di sempre, Lakota e Cheyenne, questo rito veniva celebrato in primavera.
Vi sono varie testimonianze e versioni di questa pratica, ne citeró due delle più affidabili.
In una versione, una ragazzina di quattordici anni fu dipinta per metà di nero e per l'altra metà di rosso, condotta su una impalcatura costruita per la cerimonia, e legata ad una forca o croce.
Al culmine delle danze rituali, la vittima veniva diciamo "rosolata" con fiaccole, per poi essere bersagliata dalle frecce dei guerrieri presenti.
Infine il capo cerimonia, aveva l'onore di strapparle il cuore e mangiarlo, mentre il compito dei guerrieri consisteva nel fare a pezzi il corpo, per poi mettere le parti in ceste, una volta giunti ai campi in semina, le parti amputate venivano "strizzate" per farne uscire il sangue rimasto, spargendolo sulla semina stessa.
Anche nella seconda versione che cito, la ragazza era legata ad una sorta di forca, da est giungevano due guerrieri, che con delle fiaccole la marchiarono nelle cavità delle braccia e dell'inguine, in seguito la vittima veniva colpita da altri quattro uomini, con le mazze.
Infine lo stesso guerriero che la catturó, scagliava contro la vittima sacrificale una freccia dritta al cuore, contemporaneamente un'altro con una "mazza sacra ornata con i segni della stella del mattino" le sfondava il cranio.
Prima di essere slegato, il corpo senza vita della giovane, veniva squarciato dal sacerdote, il quale si cospargeva il corpo col sangue della vittima stessa.
Prima di concludere la cerimonia, tutti i membri maschi, facevano quattro giri intorno alla forca, bersagliando il corpo con frecce, vi è anche una parte diciamo sessualmente macabra, ma non la citeró, essendo anche la testimonianza di essa, non certa.
Infine la salma veniva adagiata su di una impalcatura costruita nel mezzo al campo seminato, con il volto rivolto verso il terreno, per benedire il campo con le ultime gocce di sangue.
L'ultima vittima di questa pratica, fu una ragazza Oglala di nome Haxti, sacrificata ​​il 22 aprile 1838.

Articolo di Pedro Bondanini in collaborazione con le vie di Wodanaz

sabato 4 aprile 2020

Il mito di Shambala - parte III

Comunque, dopo questa breve panoramica iniziale passiamo al nodo centrale della questione: quale è l’utilità di questa ipotetica città? Perché esiste? Tutto nel Buddhismo (anche nelle sue incarnazioni più mistiche ed esoteriche), è direttamente o indirettamente finalizzato ad uno scopo preciso, pratico, attuabile e la città santa non è ovviamente da meno: Shambala rappresenta una roccaforte del Dharma, dell’ordine cosmico, ed il suo obiettivo è quello di intervenire in modo drastico, attraverso il suo Re, laddove questo ordine sembra essere destinato a rovesciarsi fatalmente. Ed infatti all’interno del Kālacakratantra è possibile ritrovare una profezia molto simile (con tutta probabilità direttamente debitrice) del mito indiano del Kali Yuga: all’interno di essa viene spiegato come il mondo cadrà vittima di ideologie materialiste e di false religioni/dottrine (il testo attacca direttamente le religioni monoteiste-abramitiche, con particolare astio riservato all’Islam, chiamato “mleccha-dharma” ossia religione dei barbari, data la sua invasione dell’India e la sua violenta persecuzione del Buddhismo) e prevede la scomparsa del Dharma dalla terra e le inevitabili perversioni/degenerazioni che si abbatteranno su di essa in modo implacabile. Alla fine di questa epoca oscura sembrerebbe esserci un vero e proprio terzo conflitto mondiale, atroce e violentissimo (indicativamente tra il 2300 e il 2400) che finirà con l’intervento risolutivo del Re Rudra Chakrin, incarnazione del Bodhisattva Manjusri:

Il cakravartin emergerà alla fine del tempo, dalla città che gli dei crearono sul Monte Kailasha. Ucciderà i barbari in battaglia con il suo esercito a quattro reparti, sull’intera superficie della terra. ... Raudra Kalki ucciderà Krinmati .... Poi andranno alla città che gli dei crearono sul Monte Kailasha dove vive Cakri. Allora, tutte le famiglie dell’uomo sulla terra godranno del dharma, di benessere e ricchezza. La terra selvaggia diventerà feconda e gli alberi si piegheranno sotto il carico di frutti – questo accadrà.
(Kālacakratantra)

Come si evince chiaramente dopo il conflitto la terra e l’umanità tutta vedranno la fine di ogni decadenza morale e spirituale: la realtà di Shambala infatti sarà estesa a tutto il pianeta inaugurando una vera e propria età dell’oro. Impossibile, come abbiamo detto, non farci venire in mente l’intervento di Kalki avatara di Vishnu descritto all’interno dei Purāṇa che, sopra al suo cavallo bianco, porterà la fine del caos e l’instaurazione dell’ordine sacro sulla terra. Ovviamente le interpretazioni del mito sono varie e molteplici e non ritengo qui necessario dilungarci su questo argomento controverso ulteriormente ma, concludo, puntualizzando come ogni ricerca spirituale vada, prima di ogni altra cosa, fatta all’interno di sé stessi con piena e severa determinazione:

“Monaci, siate di voi stessi un’isola, di voi stessi un rifugio, null’altro; fate che il Dharma sia per voi un’isola ed un rifugio, null’altro.”
(Samyutta Nikaya – 22,43)

Saverio Diomedi, in collaborazione con le vie di Wodanaz

Il mito di Shambala - parte II

Tornando ora alla Shambala Tibetana sarà interessante notare come il suo stadio di esistenza e/o ubicazione sia molto spesso stato dibattuto dai monaci e che le interpretazioni siano decisamente numerose e spesso contrastanti tra di loro; tralasciando le sue possibili (e spesso fantasiose) ubicazioni ci concentreremo su una sua possibile descrizione:

“Una prima catena circolare di alte montagne ricoperte di ghiaccia ne costituisce la difesa esteriore, inaccessibili e perdute nelle nuvole le alte cime formano un’immensa corona scintillate intorno al santo Regno. All’interno di questo cerchio sorge un immenso mandala naturale composto da montagne ancora più alte, separate fra loro da fiumi ed altipiani, il cui insieme ha la forma di un loto a otto petali regolari. Ciascuno di questi petali contiene dodici principati che in tutto formano settantasei piccoli reami i cui principi sono signori al servizio del re di Shambala. Un terzo occhio di montagne di Ghiaccio immacolato circonda il centro di questo immenso loto, li si trova Kalapa, la capitale di Shambala” 
(J.M. Riviere – Kālacakra, iniziazione tantrica del Dalai Lama, pg 31) 

Non è difficile comprendere come questa descrizione favolosa si appelli principalmente al lato spirituale/meditativo del praticante e del ricercatore spirituale e di come, ovviamente, Shambala non vada ricercata in un senso strettamente fisico e geografico; a controprova di ciò è possibile analizzare la descrizione delle varie vie utilizzate per arrivare nella città sacra, tutte ricolme di potenti metafore e di interventi divini/magici.

Saverio Diomedi, in collaborazione con le vie di Wodanaz

Il mito di Shambala - parte I

Il mito di Shambala è indubbiamente una delle tradizioni tibetane più famose sia nella stessa Asia che nell’occidente, da sempre infatti i popoli e le civiltà hanno richiamato la loro attenzione verso regni mistici, favoleggianti, spesso espressioni di un’età dell’oro persa in netta contrapposizione alla loro attuale percepita come irrimediabilmente decadente e in stato avanzato di degenerazione. In occidente il mito di Shambala è principalmente conosciuto con il nome di Shangri-La, la fantastica città immaginata e descritta da James Hilton all’interno del suo romanzo “Orizzonte perduto” del 1933. Leggendo il romanzo appare immediatamente evidente come la descrizione di Shangri-La sia quasi interamente ripresa dalle cronache che i gesuiti portarono in Europa, basati sulle immagini mitiche e sui racconti di Shambala, presi dal Kālacakratantra. Rimettere insieme la storia e i protagonisti principali che hanno narrato questo mito è decisamente complesso ma possiamo indicativamente considerare tra i primi (se non il primo) narratori del mito il monaco Somanatha che iniziò la sua predicazione nella terra delle nevi nel 1027 d.C. dalla quale, grazie alla sua opera di diffusione del Dharma e traduzione dei testi, l’iniziazione al Kālacakratantra assunse un ruolo segretissimo ma cardine all’interno del tantrismo tibetano, venendo considerata come la più alta e segreta di tutte. La grande maggioranza dei protagonisti e le maggiori autorità del Buddhismo tibetano (Vajrayāna) ricevettero infatti questa iniziazione indipendentemente da lignaggio e dalla carica ricoperta e possiamo notare come anche l’attuale Dalai Lama (S.S. Il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso) continui nel solco di questa tradizione ormai millenaria. Sempre secondo la tradizione, la predicazione del Kālacakratantra (e di conseguenza quella di Shambala) inizia col il discorso tenuto dal Buddha Śākyamuni davanti allo stupa di ShriDhanyakataka e tenuto davanti a monaci, Bodhisattva, Deva, Asura e anche al sovrano di Shambala stesso (che attualmente sarebbe il Re Aniruddha). Risulta interessante notare come anche la religione autoctona del Tibet, lo sciamanesimo Bon, abbia all’interno dei suoi miti e dei suoi racconti un luogo molto simile a quello di Shambala chiamato “Olmolungring”, regno potente ed inaccessibile situato nel Nord-Ovest del Tibet che sembra far risalire la sua lunga lista di maestri e discepoli fino a 18.000 anni fa.

Saverio Diomedi, in collaborazione con le vie di Wodanaz

mercoledì 1 aprile 2020

Cernunnos ed i cavalieri del Ni

Nel film 'Monty Python and the Holy Grail' realizzato nel 1975 da nientepopodimeno che i Monty Python in persona [1] vengono presentati, fra le varie figure cavaliercarnascialesche, i cosiddetti cavalieri del Ni, il cui leader presenta incontrovertibili somiglianze con la divinità silvana Cernunnos [2].
Entrambi posseggono una folta barba, dei lunghi capelli ed hanno il capo adornato da corna di cervo [3].
Entrambi sono signori e custodi del mondo selvatico; sono proprio i cavalieri del Ni ad impedire ad Artù, sovrano dei bretoni in cerca del Graal, d'attraversare il più vasto fra i boschi britannici. Per ottenere un lasciapassare da questi cavalieri Artù dovrà portar loro un'aiuola ben curata.
Nella tradizione galloromana il dio celtico Cernunnos è detto 'Pilier des nautes' (i.e. "pilastro dei naviganti"). Non è un caso che il leader dei cavalieri del Ni sia così alto da risultare simile ad una colonna. Non è un caso che al ritorno di Artù, recante con se l'aiuola tanto agognata dai cavalieri, il leader di questi gli abbia affibbiato, sulla scia del topos epico delle fatiche impossibili, come ulteriore compito quello di tagliare il più alto albero della foresta con una semplice aringa.
Segue il link YouTube ad un breve estratto sui cavalieri del Ni con i sottotitoli in italiano tratto dal film dei Monty Python:
https://youtu.be/GxsZvtBev_A

Buona visione e buon primo d'Aprile!


Note:
[1] chi l'avrebbe mai detto
[2] l'etimologia del nome Cernunnos è legata, stando a quanto afferma Delmarre, al sostantivo in gallico - che è una lingua celtica - 'carnon/cernon' (i.e. "corno"). Da quanto appena detto è possibile ricostruire la forma protoceltica di *Carno/Cerno-on-os (i.e. "divinità maschile cornuta")
[3] la più antica effige del dio Cernunnos con il capo adornato da corna di cervo risale al secolo IV ante era comune e la si può ritrovare fra le incisioni rupestri della Val Camonica: