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venerdì 31 agosto 2018

Fortuna e saggezza

Un saggio siede innanzi alla propria dimora, guarda a Nord, ad una coppia di corvi che volano alto e fieri. 

Freddi inverni e lunghi anni ne hanno provato le membra ma una scintilla dell’antico vigore sembra brillare ancora negli occhi del vecchio capo.


Guerra e tregua, vittoria e sconfitta, vita e morte si susseguono nella sua mente, ricordi preziosi di una vita ormai giunta alla sua giusta conclusione. 

Le norne, artefici del destino di ognuno, stanno per tagliare il filo d’argento della sua lunga e fortunata vita. 

Egli sente già i canti del Gimlè e le risa e i racconti dei propri antenati ma il momento, per quanto vicino, non è giunto. 


Non ancora. 

Aspetta, spaziando con la vista nel vasto cielo. Ode gemiti di donna, lievi, poi sempre più forti.

Un urlo strazia la quiete del vecchio casolare racchiuso da una palizzata, seguito da un istante di silenzio e ancora, poco dopo, dal pianto prorompente di un neonato. 

Un giovane uomo si avvicina poco dopo al savio, gli somiglia, i lunghi capelli color della birra che brillano nella luce di quel pomeriggio d’autunno. 

Un maschio.

Un sorriso appena accennato compare sul volta dell’anziano patriarca. 


“Il figlio del figlio di mio figlio” pronuncia a mezza voce il comandante di un tempo “mai avrei pensato di vivere tanto a lungo da godere di una tale gioia. 

Sii il benvenuto Atenulf figlio di Atenulf.”


Una voce femminile richiama all’ordine, la levatrice richiede il piccolo perché questo possa essere porto alla madre. 

Padre e figlio tornano all’interno dell’edificio, seguiti a ruota dalla levatrice, devota a Frea e sempre borbottante.


Poco dopo, quando essa uscì nuovamente per portare al proprio padrone una tazza di brodo lo trovò ormai inerme, rivolto ancora a Nord, un sorriso grato stampato sul volto. 


Questa è la storia degli ultimi momenti di Atenulf figlio di Atenulf i cui antenati portarono lo stesso nome, conquistatore di terre, amante di donne, fedele a Godan e Fairguneis, ad essi elevò sacrifici e costruì altari. 



giovedì 30 agosto 2018

Þūnraz

Teonimo derivante dal sostantivo maschile protogermanico *þūnraz il cui significato è “tuono” (i.e. in antico alto tedesco è donar > in tedesco è Donner, in antico frisone è þuner; in medio olandese donre > in olandese è donder, in antico inglese è þunor > in inglese è thunder ed infine in danese è torden), identifica quella divinità del pantheon germanico che, stando agli scritti riguardanti la mitologia scandinava quali l’Edda Poetica di Snorri Surluson, nacque dall’unione di Óðinn (i.e. Wōđanaz) e Jörð; divenne poi uno dei governatori di Ásgarðr dacché primeggiava per forza e possanza fra gli Æsir tutti.
Il martello Mjöllnir (i.e. “Frantumatore”) è la sua arma e dall’utilizzo di questa sono soliti sprigionarsi tuoni e lampi. Snorri Sturluson nel Skáldskaparmál racconta di come Mjöllnir fu forgiato dal nano Sindri, il quale oltre alla capacità di frantumare ogni cosa gli si fosse parata dinanzi diede al martello la capacità di resuscitare i defunti.
Con il Frantumatore al suo fianco, a bordo del suo carro trainato da capri - da qui deriva uno dei suoi epiteti, Öku-Þórr - Þor si rese protagonista di eroiche imprese quali la pesca del serpe Jörmungandr e la cattura dell’Ase Loki, padre di quest’ultimo.

Þūnraz è attestato come Donar in antico alto tedesco, Thūnor in antico basso tedesco (i.e. sassone) a volte riportato come Thunær nelle abrenuntiationes (i.e. voti di rinuncia al culto di divinità estranee al credo cristiano volti a confermare la piena conversione a quest’ultimo), Þūnor in anglosassone, Þórr/Þor in norreno ed infine come Thor negli scritti latini quali le ‘Gesta Darorum’ di Saxo Grammaticus.

Il culto del suddetto era presente anche fra le genti longobarde; per confermare ciò è sufficiente ragionare sull’origine del toponimo Capracotta, comune del molisano fondato per l’appunto dai Longobardi in età altomedievale.
Quest’ultimo richiama una delle ritualità in onore dell’Ase Þórr compiute dai Longobardi nell’atto di fondare una nuova città. La descrizione di quest’ultima ci è stata tramandata dai ‘Dialogi’ di Gregorio I detto Magno e dal ‘Martyrologium Romanum’ di Cesare Baronio Sorano; il rituale apotropaico prevedeva l’uccisione di una capra alla quale seguiva poi un banchetto rituale con le sue carni, chiaro riferimento all’episodio narrato da Snorri Sturluson che va sotto il nome di Gylfaginningin nel quale l’Ase sfama se stesso ed alcuni suoi compagni con i capri del suo carro e li resuscita il giorno seguente.

martedì 28 agosto 2018

Ruralismo alcolico

Felice colui che vive fra boschi e campi, legna nel suo camino e selvaggina nel suo piatto allieteranno i suoi inverni, così come la benedizione degli Dèi e degli spiriti di ogni luogo. 


Questa è la gioia dell’uomo rurale, dell’uomo realmente europeo in corpo e spirito. 


Nobili e contadini sono alleati in questa lotta, la vecchia aristocrazia si ergerà a difesa di quanto vi è di più sacro e vero, contro tutto ciò che è borghesia, ciò che è indistinto e putrido.


Corpo e spirito contro i senz’anima, birra e canzoni contro il mondo moderno.

domenica 26 agosto 2018

Von Ungern e il sogno di un’Eurasia mistica Parte VI

Fu nella veste di signore di Urga che conobbe Ferdynand Ossendowski, l’uomo destinato a rendere la sua storia immortale non solo in Oriente ma anche in Occidente con il libro “Bestie, Uomini e Dèi”.


Circondato da forze ostili e senza appoggi armati diversi dalla propria divisone asiatica von Ungern lasciò Urga nel Maggio del 1921, con meno di seimila uomini marciò contro le forze sovietiche che contavano duecentocinquantamila uomini nella regione, ottenne alcuni successi e per alcuni mesi riuscì a tenere in scacco le armate bolsceviche fino a quando i pochi fedeli che gli restavano, poco più di un centinaio di uomini, non decisero di abbandonarlo per cercare rifugio in Manciuria (si dice anche che potrebbe essere stato lo stesso von Ungern a scioglierli dal giuramento di fedeltà). 

Rimasto solo, venne tradito e consegnato ai bolscevichi il 21 agosto 1921.


Processato come nemico della rivoluzione sostenne con orgoglio il proprio operato rifiutando l’offerta di entrare fra i ranghi e bolscevichi e la stessa possibilità di chiedere la grazia. 


Venne il 15 Settembre 1921 a Novosibirsk.


Concludo con una citazione di Mabire che nel suo “Il Dio della Guerra” ha reso omaggio alla figura di questo grande del secolo scorso: 


“Nelle yurte dell’Asia centrale, attorno ai fuochi attizzati dal vento della steppa, si racconterà a lungo la storia di un dio della guerra reincarnato. Per i Mongoli, per i Buriati, per i Khirghisi, per i Calmucchi, per i Tibetani, per tutti i figli dei guerrieri di Gengis Khan. Ungern non è morto.”

sabato 25 agosto 2018

Von Ungern è il sogno di un’Eurasia mistica Parte V

Di lui i suoi nemici diranno che il suo buddismo era blando, e che egli appartenesse in realtà ad una qualche “setta” baltica, dedita ad antichi culti solari, la cosa, ad ogni modo, pare non gli dispiacque.


Del resto il von Ungern era sicuramente una persona profondamente spirituale che cercò, tramite il proprio operato, di dare fisicità alle sue visioni religiose ed è improbabile che esse si limitassero al solo buddismo, del quale comunque apprezzava particolarmente le componenti più antiche, sciamaniche. 


Il parere del sottoscritto è che egli guardasse molto più indietro, ai culti ugrici, indoeuropei e orientali che in tempi antichi avevano caratterizzato l’Eurasia e che, molto semplicemente, avesse trovato tracce meglio conservate di questi culti nel buddismo mongolo/tibetano, caratterizzato da una notevole influenza delle pratiche arcaiche, un punto di partenza sul quale ricostruire un Eurasia tradizionale, teocratica, eterna ed arcaica. 


A seguito dell’invasione cinese della Mongolia, conseguenza questa dell’evacuazione del corpo di spedizione giapponese dai territori della Transbaikalia, la Divisione di Cavalleria Asiatica si dirige verso la Mongolia dove dopo una campagna di alcuni mesi riesce a prendere Urga liberando il Buddha Vivente Jebtsu Damba, meglio noto come Boghdo Khan, e sconfiggendo la guarnigione cinese locale (forte di ottomila uomini, più del doppio di quelli a disposizione del Barone).


Diviene quindi Ungern Khan, Primo Signore della Mongolia e Rappresentante del Sacro Monarca, proclamato reincarnazione di Mahākāla da Thubten Gyatso, XIII Dalai Lama. 

venerdì 24 agosto 2018

Von Ungern è il sogno di un’Eurasia mistica Parte IV

I concitati eventi che portarono alla caduta dell’Impero e al vigliacco assassinio della famiglia dello Zar ebbero un effetto devastante sul nostro, il mondo che aveva conosciuto, la società nella quale era cresciuto era stata spazzata via dalla rivoluzione.


Combattuto fra la fedeltà ad un regime ormai decaduto e la sua volontà di creare una società nuova si recò in Oriente dove collaborò a lungo con Semenov, ufficiale “bianco” autoproclamatosi Atamano, con il quale ebbe sempre un rapporto di rispetto misto a ribellione, pur rimanendone, almeno formalmente, il capo di stato maggiore. 


La sua Asiatskaja konaja divizija (Divisione di Cavalleria Asiatica) accoglie truppe provenienti da molti dei territori orientali del fu Impero, tutte animate da spirito controrivoluzionario e dalla fedeltà al proprio comandante, buriati, cosacchi, calmucchi e perfino volontari mongoli, coreani e giapponesi. 

La divisione trascorre il 1918 operando in Siberia, sulle coste del lago Baikal, arrivando talvolta a penetrare in Manciuria.


Nel 1919 lo ritroviamo a Cita, organizzatore di una conferenza pan-mongola nella quale espone, per la prima volta, il suo progetto di una teocrazia lamaista, che possa fungere da polo di unione per mongoli, tibetani, buriati e siberiani. 

giovedì 23 agosto 2018

Von Ungern è il sogno di un’Eurasia mistica parte III

Del resto, nonostante l’occupazione subita, i mongoli rimanevano i discendenti dei guerrieri di Gengis Khan, il conquistatore che con le sue gesta fece tremare le genti di tre continenti.

Con il 1914 vediamo Roman tornare in patria, inconsapevole di quanto il destino aveva in serbo per lui, egli, che temeva, come ogni spirito guerriero, di arrivare alla vecchiaia senza avere la possibilità di combattere in una grande guerra, vide con favore la possibilità che veniva offerta dal nascente conflitto. 


L’esperienza del fronte, del grande massacro del primo conflitto mondiale, nel quale si contraddistinse per il valore e l’ardimento delle sue gesta (nel solo biennio che va dal 1914 al 1916 condusse, inquadrato nella cavalleria cosacca, non meno di dodici assalti all’arma bianca, subendo diverse ferite ma dimostrando la capacità di suscitare un grande attaccamento nei suoi uomini che spesso rischiarono, e persero, la propria vita terrena per salvare quella del loro condottiero), gli fornì materiale spirituale e pratico per poter diventare ciò che doveva essere. 

Dalle sue lettere traspare copiosamente lo spirito di un uomo nel suo elemento naturale, pronto a mettere la propria vita a repentaglio senza indugio e senza ripensamenti, traendo gioia ed esaltazione della propria gesta più che da ogni riconoscimento formale (in questi anni rifiutò diverse promozioni per il timore, più che giustificato nell’armata zarista, di non poter più partecipare ad azioni in prima linea).


Queste sue gesta, come amava definirle, gli diedero un certo lustro fra i suoi commilitoni, anche fra gli ufficiali che generalmente non lo guardavano con favore a causa della sua volontà di condividere la vita della truppa, egli infatti mangiava dalla gavetta e soleva dormire con loro, sulla nuda terra, senza curarsi delle convenzioni che volevano gli ufficiali distaccati dal comune soldato. 

I suoi uomini, dal canto loro, lo adoravano, condizione comune a tutti i soldati che avrebbe poi comandato in futuro. 

mercoledì 22 agosto 2018

Von Ungern e il sogno di un’Eurasia mistica Parte II

Gli sconvolgimenti politici che portarono alla caduta dell’Impero cinese, antico e forte ma marcio nelle fondamenta, e che provocarono la liberazione dei mongoli dopo secoli di sudditanza agli Han, impressionarono il giovane Roman che, abbandonata momentaneamente la carriera militare nell’Impero Russo, si recò, senza nemmeno attendere il permesso di pensionamento, nelle aride steppe mongole.

Su questa prima esperienza mongola le teorie si sprecano, di sicuro sappiamo che von Ungern viaggiò a lungo, a cavallo, scarsamente accompagnato ed equipaggiato, in un ambiente per lui nuovo.

C’è chi dice che combatté al servizio di alcuni Principi locali, chi sostiene che, messa insieme una oste, si diede al banditaggio ai danni degli occupanti e dei mercanti cinesi, altri ancora dicono che non ebbe modo di prendere parte ai combattimenti, se non in minima parte.

Quale che fu il suo comportamento di certo questa esperienza ebbe un grande valore nella formazione del suo progetto futuro, egli vide nei mongoli i cavalieri del destino, assopiti, apparentemente spenti come il fuoco di una yurta, dopo secoli di dominio straniero, ma pronti come il focolare domestico a riprendere vita tra le abili mani di un condottiero.

martedì 21 agosto 2018

Von Ungern e il sogno di un’Eurasia mistica Parte I

Su questo personaggio, spesso poco conosciuto o eccessivamente mistificato, non è facile trovare informazioni senza cadere nella parzialità o, ancor più facilmente, nella banalità.

Chi fu, chi è, realmente, Roman von Ungern Sternberg? Fu “solo” un signore della guerra, un soldato di indubbio coraggio capace di svettare fra i propri simili o fu qualcosa di più? 

Occorre andare per gradi, l’argomento è tutt’altro che semplice ed occorre separare la realtà dalle mistificazioni, adottare un occhio critico e saper diffidare sia dei suoi numerosi detrattori (che furono molti, specialmente in seno all’ideologia da lui a lungo combattuta) che dei suoi acritici fan.

Partiamo da un presupposto: von Ungern non è un’icona pop, tutto il suo operato, oserei dire la sua intera vita, è stata dedicata alla lotta contro la massificazione degradante, egli non è stato nemmeno il coraggioso difensore delle brave genti di Russia e Oriente dalla barbarie rivoluzionaria come molti suoi ammiratori, specialmente in ambito cristiano ortodosso, vorrebbero dipingerlo.


Ungern fu molto, molto di più, fu un personaggio eroico che disprezzava i valori borghesi ben più di quanto non disprezzasse l’opera rivoluzionaria, ben sapeva, del resto, che la seconda è l’ovvia evoluzione della prima. In un mondo senza principi, senza spiritualità, nel quale gli Dèi e i templi giacciono dimenticati o ridotti ad una mera rappresentazione approssimativa ed in salsa monoteista egli vide nel ritorno ad una nuova epoca di mezzo la via per la salvezza dell’Eurasia.

La spiritualità orientale, che egli conobbe fin dalla primissima infanzia, fu per lui di primaria importanza, essa gli permise, in un’epoca ancora fortemente compromessa dagli i flussi del Dio del deserto, di riscoprire Dèi assai più antichi, di poter sognare un mondo realmente eterno. 

lunedì 20 agosto 2018

Le vie di Wodanaz pdf, secondo numero

Ecco a voi il secondo pdf stampabile de "Le vie di Wodanaz", il nostro augurio, come sempre, è che vi possa piacere e che vogliate condividerlo.

https://drive.google.com/open?id=1D4SQXjtBu679Xft8di565tYAFxqfpid7

La redazione de "Le vie di Wodanaz"

domenica 19 agosto 2018

Guerrieri d’Eurasia, gli Sciti

« Se voi, o Persiani, non volerete in cielo, divenuti uccelli o, fatti topi, non penetrerete sotto terra oppure, trasformati in rane, non vi tufferete negli stagni, voi non ritornerete al vostro paese, trafitti qui da queste frecce. »

Interpretazione di un saggio del dono recapitato dagli Sciti a Dario, Re persiano ed invasore della loro terra, consistente in un uccello, un topo, una rana e cinque frecce.

(Erodoto, Storie, IV, 132,3)

Di questo grande popolo guerriero di stirpe indoeuropea sappiamo molto grazie all’opera degli scrittori greci e grazie ai resoconti di quanti, e furono molti, dovettero subire una o più incursioni da parte di questi fieri cavalieri. 

Guerrieri valorosi e temibili essi rappresentarono, in epoca storica, la figura di ciò che dovettero essere i primi indoeuropei giunti in terra d’Europa: cavalieri nomadi, assai versati nell’arte della guerra. 

Dalla rovente terra d’Egitto passando per la ricca Persia fino si confini più remoti delle terre d’Oriente gli Sciti rappresentarono per secoli il terrore del cosiddetto mondo civilizzato.

Sappiamo che combattevano a cavallo, con tattiche assai simili a quelle utilizzate secoli dopo dagli Unni e più avanti ancora dai Mongoli (la paternità della “guerra con l’arco a cavallo” è discussa, potrebbe essere un’invenzione indoeuropea o asiatica, forse persino ugrica, di sicuro fu comunque adottata da numerosissime tribù).
Essi non costruivano, se non le proprie tombe, vivevano di razzia o delle proprie terre coltivate da schiavi di preda bellica. 

Fisicamente possenti, assai simili agli slavi e ai germani, amanti dell’oro, dell’ebrezza, dei propri Dèi e del proprio stile di vita essi rappresentarono l’incarnazione perfetta e tribale del guerriero indoeuropeo a cavallo sull’Eurasia.

sabato 18 agosto 2018

Il tempo

Si è sempre discusso del tempo. Un’entità reale quanto apparente che da sempre si è resa protagonista del pensiero umano: quello della morte correlato con quello della vita, il futuro e il passato, spettatori silenziosi delle vicende umane quanto giudici delle azioni compiute da essi.

Il tempo non è altro che un torrente che scorre dentro di noi e non il solo spostamento della terra in relazione con il sole, è il cambiamento e l’iniziazione che prima o poi dovrà fare ciascuno. Il passaggio all’età adulta o la scelta di guardare nell'abisso e sconfiggere i demoni che compongono la parte inferiore di ogni individuo e che lo spingono verso il basso annullandone la scintilla divina che lo farebbe emergere dalla mediocrità padrona dei nostri giorni.

Come la vita stessa che muore e si rigenera negli ospedali, nelle stagioni e nelle piante e che va a comporre quel ciclo vizioso che definisce l’ouroboros: magnifico simbolo dell’eterna rinascita, noi dobbiamo assimilare ciò che ci hanno lasciato i nostri antenati continuandone il percorso medesimo.

La vecchia via diventerà rivoluzionaria e con essa la coscienza di una nuova aristocrazia spirituale devota ai divini.

giovedì 16 agosto 2018

La magia delle Mainarde, parte V

Ossa e pelli di Cervo

E mentre tutte queste connessioni si accalcavano nella testa e i fili si riannodavano mentre parlavamo nella piazza di Castelnuovo, ecco che arriva un uomo magro e slanciato che subito si presenta: è Ernest e scopriamo che è il presidente dell’associazione che organizza la pantomima del Cervo. Gli facciamo subito leggere delle pagine dai libri che portiamo con noi che parlano di uomini che diventano cervo, di ossa e di pelli, scatta delle foto, cominciamo a discutere e gli spieghiamo cosa ne pensiamo della festa dell’Uomo Cervo. Ernest subito si rende disponibile per una visita alla sede dell’associazione dove sono conservati i costumi e alcune importanti memorie in merito al rito dell’Uomo Cervo. Pochi minuti dopo siamo nella sede dell’associazione, visitiamo il primo piano che ospita una mostra con tutti i costumi della pantomima: Cervo, Cerva, Martino, Cacciatore e le nostre Janare dalle maschere terrificanti, Ernest ci mostra orgoglioso una serie di maschere appese al muro frutto dello scambio e della contaminazione dell’Uomo Cervo di Castelnuovo con tanti rituali simili diffusi in tutta Europa dalla Sardegna all’Inghilterra. Scendiamo quindi nel piano interrato che è il laboratorio dove vengono custoditi e assemblati i costumi del rito dell’Uomo Cervo e mentre vediamo come sono fatti e ne proviamo alcuni, Ernest mentre parla come un fiume in piena, ci regala una di quelle "anomalie" all’interno della narrazione che tanto ricercavamo per una decifrazione del rito del Cervo. Ci dice infatti che ora l’Uomo Cervo indossa un costume già pronto, un vero e proprio vestito con casco cornuto, casacca e coprigambe di pelle, ma un tempo, e fino a pochi decenni fa, la pelle veniva cucita a mo' di costume poco prima del rito intorno al corpo di chi impersonava l’Uomo Cervo. Questo particolare tipo di pratica magico-rituale ci riporta immediatamente ai racconti sullo sciamanesimo caucasico ed europeo: la cucitura delle pelli addosso all’uomo ricalca uno schema magico di trasmutazione dell’uomo in animale, un ritorno alla ferinità, alle sensazioni e ai bisogni primordiali, una pratica in definitiva estatico-sciamanica. È necessaria un’estasi, che possiamo definire "mistica", per fare in modo che lo spirito del cervo (e della natura selvaggia che incarna) entri in contatto con quello dell’uomo, che, in perfetta linea con gli attributi sciamanici tradizionali, non si lascia dominare dagli spiriti, ma li conduce, li guida, fa si che essi diventino suoi ausiliari: nel caso dell’Uomo Cervo di Castelnuovo, affinché lo spirito dell’animale aiuti la comunità ad uscire dal rigore dell’inverno e la conduca a una primavera ed una estate ricche di messi e frutti. Era proprio questo l’anello che ha unito gli altri anelli della catena e ha, possiamo dire, chiuso il cerchio nel "gioco" di isomorfismi e serie di similitudini. Il rito dell’Uomo Cervo di Castelnuovo è quindi quasi certamente un mito ancestrale che affonda le radici almeno al neolitico, estatico, sciamanico, legato al ciclo infinito di morte e resurrezione, all’Eterno Ritorno, alla trasmutazione dell’uomo in animale (ma anche dell’animale in uomo), al ciclo delle stagioni e quindi, solare e beneagurale per il mondo contadino e pastorale. 

Prima di lasciare l’associazione visitiamo una stanza a pian terreno dedicata al pittore Moulin, di cui gia abbiamo parlato, ma qui tra le foto dei suoi lavori, troviamo alcune "ricette" di preparati a base di erbe selvatiche, scopriamo che Moulin oltre ad essere pittore, nella sua casa-grotta, aveva messo su un eccellente laboratorio erboristico e conosceva le virtù e le proprietà di tutte le piante autoctone, in tanti in paese hanno usato i suoi rimedi medici e hanno imparato da lui l’utilizzo delle erbe. Tanto sapere erboristico ci ha subito riportato alle piante di noce metella viste poche ore prima a Scapoli: in questo posto magico dove sopravvivono rituali e miti antichissimi e musiche arcaiche legate al mondo agricolo e pastorale, c'è anche una forte tradizione di conoscenza del mondo delle piante e dei suoi poteri, non ultimo grazie alla figura di Moulin che, magico e inafferrabile quasi come un folletto, ha popolato queste montagne solo pochi decenni fa.

Ritorniamo in piazza per salutare tutta la compagnia che ci ha accolti come stessimo a casa e ci ripromettiamo di ritornare presto con un po' di materiale in più per decifrare non solo la figura della Janara ma anche quella altrettanto intrigante e magica dell’Uomo Cervo e queste righe sono il risultato delle prime ricerche. Torneremo presto a Castelnuovo per continuare il lavoro di ricerca sul campo. Ritorniamo giusto in tempo al lago per il tramonto e lo spettacolo è eccezionale: le guglie irte e rocciose sovrastano i boschi e tra questi ci sembra di scorgere l’Uomo Cervo, o Cernunno, o il Rex Nemorensis che tira i fili che fanno muovere la ruota delle stagioni e quelli del ciclo del Sole e della Luna, mentre intorno danzano eteree janare, quasi ninfe del lago e dei boschi, illuminate dalla Luna piena delle magiche Mainarde.

NOTE:

1) Storia Politica della Longobardia Minor - I principati longobardi di Benevento, Salerno e Capua, T. Indelli, Editrice Gaia

2) Sciamanismo e tecniche dell’estasi, M. Eliade, Edizioni Mediterranee

3) Storia Notturna - Una decifrazione del Sabba, C. Ginzburg, Adelphi / Capitolo “Ossa e pelli”

4) Le Dee e gli Dei dell’Antica Europa, M. Gimbutas, p. 178

5) Capua Epigrafica ed altro, G. Centore, Capua Speciosa, p 70

6) I calderoni unni: un’ipotesi micologica, G Spertino, Eleusis N* 3 dicembre 1995, pp. 20/24

7) I miti Nordici, G. Chiesa Isnardi, pp 557,558,559

Pubblicato su gentile concessione dell'autore Massimiliano Palmesano, amministratore della pagina FB Janara

mercoledì 15 agosto 2018

La magia delle Mainarde, parte IV

Il Cervo archetipo celtico-italico

“Il prestigio del cervo nel simbolismo non è semplicemente connesso al suo aspetto - bellezza, grazia, agilità - ma anche al fenomeno del ciclo di crescita e rigenerazione del suo palco di corna. Quest’ultimo aspetto è profondamente interiorizzato dalla mente dei contadini neolitici. Il palco di corna cervide svolge un ruolo importante […] . Il ruolo del cervo nel mito dell’Antica Europa non è una invenzione dei contadini neolitici. L’importanza della cerva gravida deve essere stata ereditata da un’epoca preagricola. I popoli nordici nello stadio della caccia credono ancora che la madre dell’universo sia una cerva-alce o un a renna-cerva. I miti parlano di donne gravide che governano il mondo ed hanno le sembianze di cervi: coperte di pelo e con palchi di corna ramificate in testa” (4). 

Ci troviamo quindi di fronte a un simbolo “totemico” antichissimo e soprattutto comune in tutta Europa. Non solo, la figura del cervo è ancora ampiamente utilizzata e centrale anche durante l’epoca romana, infatti l’animale è sacro alla dea Diana, protettrice, tra le altre cose, dei boschi e della vita selvatica. Una leggenda narra che quando l’esercito romano pose d’assedio l’antica città Capua, questa riuscì a resistere finché dal monte Tifata, luogo su cui sorgeva l’importantissimo tempio di Diana Tifatina, non scese un cervo bianco, simbolo e totem della dea, che si prostrò al generale romano facendosi uccidere. Questa uccisione mitica, ritualizzata e sacra ci riporta a un’altra ulteriore similitudine morfologica tra il mito del Cervo di Castelnuovo e il culto di Diana e cioè con il racconto che fa Frazer ne “Il Ramo D’Oro”, della figura del Rex Nemorensis. Il Rex Nemorensis era un re-sacerdote che viveva nel tempio di Diana presso il lago di Nemi (vicino Roma), la Diana Nemorensis (da nemur > bosco o piú precisamente bosco sacro) ha affinitá precise con la Diana Tifatina, infatti anche il termine “tifat” indica un bosco di lecci (5). Il Rex Nemorensis custodiva e difendeva il tempio all’ombra di una grossa quercia sacra e brandiva costantemente una spada perché la successione tra vecchio e nuovo re-sacerdote (di solito uno schiavo liberato) avveniva con un omicidio rituale: il nuovo re-sacerdote riusciva a diventare tale solo dopo aver ucciso il vecchio. Queste implicazioni cruente di morte e rinascita sono assimilabili alla morte e resurrezione rituale del Cervo nella pantomima di Castelnuovo ed hanno quasi sicuramente una comune radice sciamanica e arcaica: anche il Cervo di Castelnuovo muore solo nella misura in cui è già assicurata la nuova ri-nascita, proprio come il Rex Nemorensis che muore solo ad opera di chi prenderà immediatamente il suo posto in un ciclo continuo, circolare e non lineare, secondo una visione del tempo tipica del mondo antico.
Ma esiste anche un altro ambito di connessioni morfologiche e di analogie che risultano ancora piú interessanti da mettere a confronto e da analizzare che ci riportano direttamente al mondo celtico/germanico. Infatti sul cosiddetto Calderone di Gundestrup, un manufatto risalente al II secolo aC ritrovato in una torbiera dell’Himmerland nel nord della Danimaca nel 1891, è raffigurato un Uomo Cervo che brandisce un serpente, attorniato da animali selvatici, tra cui anche un cervo: la somiglianza con il Cervo di Castelnuovo è impressionante. L’essere mitico raffigurato sul calderone è il dio Cernunno, divinitá con corna cervine e rivestito di pelliccia animale, deputata alla vita selvatica, ai boschi e al ciclo delle stagioni. Il culto di Cernunno (o anche Kernunnos) era diffuso in tutto il mondo celtico e sempre sul Calderone di Gundestrup troviamo incise delle piccole figure tripuntute che assomigliano a tre piccoli funghi uniti al gambo, dalla forma del cappello è possibile tracciare delle similitudini con funghi psicoattivi del genere psylocibe, il che ci fa supporre una relazione tra i riti legati al mondo dei boschi e della natura selvaggia impersonata da Cernunno e l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo religioso-rituale, ipotesi che è stata formulata da numerosi archeologi ed etnobotanici anche per quanto riguarda alcuni calderoni unni e al loro utilizzo rituale in cerimonie che prevedevano l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo estatico-sciamanico. (6)
Proprio questo particolare ci ha riportati alla mente un aneddoto raccolto durante il lavoro di ricerca ambientato poco più a nord della zona delle Mainarde e cioè in Abbruzzo all’inizio del ‘900. Abbiamo raccolto il racconto di una donna che di ritorno dalla montagna all’improvviso ebbe una visione: vide un grosso calderone, ripieno d’oro e ricoperto da una pelliccia, corse quindi a prendere l’oro, ma si accorse immediatamente che dalla cima di una roccia un essere munito di corna (che la protagonista ha associato al diavolo per un chiaro transfert di carattere culturale) l’aveva puntata e stava correndo verso di lei che si diede alla fuga per evitare l’incontro. Risulta stupefacente la presenza di similitudini archetipe tra il racconto di questa “visione” e l’universo mitico celtico: (a) visione estatica, (b) calderone, (c) oro, (d) pelliccia, (e) essere cornuto e furente. Una serie di connessioni e di similitudini che sembrano provenire da un unico universo mitico ma possiamo ancora continuare. 

Nel mondo germanico continentale - come anche in quello scandinavo - il cervo “è animale di simbologia solare poiché le sue corna che perennemente si rinnovano (emblema dell'eternità) sono considerate corrispettive dei raggi del sole dotati di virtù vivificanti. […] Il cervo è altresì strettamente legato all’albero cosmico Yggdrasyl. Al pari di esso infatti partecipa ai tre strati dell’essere: le zampe toccano la terra, il corpo appartiene al mondo di superficie, le corna ramificate sono come le fronde che si protendono nel cielo. Secondo il racconto di Snorri quattro cervi saltano tra i rami di Yggdrasyl e ne brucano le foglie: essi sono Dainn (Morto), Dvalinn (quello che indugia), Duneyrr (quello che fa rumore sul terreno ghiaioso), Duradror (cinghiale sonnacchioso). Legate al cervo sono anche la figura e la vicenda di tale Dorir, grande adoratore pagano soprannominato cervo (hjortr). Re Olaf Tryggvason lo aveva sconfitto in battaglia ed egli si era dato alla fuga. Uno degli uomini del sovrano aveva scagliato una lancia contro di lui ed egli era caduto a terra moribondo. Dal suo corpo era uscito allo un grosso cervo.” (7).

Ancora una volta quindi il cervo come simbologia positiva e solare legata al mondo dei boschi, ancora una volta una morte e resurrezione sotto le sembianze di un cervo, ma è veramente possibile intravedere un tratto di unione tra il Cervo di Castelnuovo e il mondo celtico? Il realtà la congettura è meno azzardata di quanto possa sembrare a prima vista e a darci una traccia sono alcune iscrizioni sannite risalenti al tempo della I Guerra Sannitica (343-341 aC) in cui si dice a chiare lettere che l’esercito sannita che si accingeva a scontrarsi contro quello romano, fu benedetto da un collegio sacerdotale composto da sacerdoti autoctoni e da druidi celti. Il rapporto quindi tra le genti appenniniche e quelle di stirpe celtica che popolavano le terre un po più a nord è verificato da iscrizioni risalenti almeno a 300 anni prima della nostra era, celti e osco-sanniti, forse anche grazie al mondo nomadico-pastorale, si sono quindi incontrati già in tempi antichissimi.

Pubblicato su gentile concessione dell'autore Massimiliano Palmesano, amministratore della pagina FB Janara

martedì 14 agosto 2018

La magia delle Mainarde, parte III

Magnifiche e magiche Mainarde

Restiamo a primo impatto disorientati da questo simpatico e vitale signore avanti negli anni, dalla sua energia, dal suo modo di accoglierci, dal suo sorriso, d’altronde anche la musica, il saperla creare, l’essere veicolo per trasmetterla alle persone per infondere loro sensazioni é da sempre una prerogativa sciamanica e non possiamo non collegare il motivo delle nostre ricerche con questa ulteriore resistenza culturale legata al mondo delle zampogne e degli zampognari in questo fazzoletto di terra. Ci sediamo a tavola con lui, subito capiamo che Peppe non ci venderá nulla, il vino ce lo regalerá, insieme a gustosi pomodori e peperoncini del suo orto. Ci parla della sua vita, dei figli, della campagna e soprattutto della sua vita di zampognaro, dell’arte ereditata dal padre, dei lunghi giri in lungo e in largo per lo stivale, ci parla di Moulin, il pittore francese che decise di ritirarsi a vivere in una grotta sulle Mainarde dopo aver ascoltato per caso uno zampognaro suonare restandone ammaliato. Gli diciamo del Cervo e delle Janare e con gran sorpresa ci dice che la moglie fa parte del gruppo di persone che mettono in scena il rituale del Cervo ogni anno. Dopo poco torniamo in piazza e ad attenderci c’é proprio lei, cominciamo a parlare, piú che altro riproponiamo in modo spezzettato e discorsivo le domande del questionario che stiamo sottoponendo a scopo di ricerca. Comincia a formarsi un capannello, cominciamo a parlare della festa del Cervo e delle Janare, ci confermano che sono state immesse nella pantomima in tempi recenti, ma che popolano da sempre la credenze locali, e come in altri luoghi escono di notte volando, si trasformano in animali, soprattutto gatti e serpenti, procurano e tolgono il malocchio, scopriamo che resiste l’usanza dell’astenersi dall’avere rapporti sessuali il 24 marzo perché in caso di concepimento c’é la possibilitá che il bambino nasca a Natale, e chi nasce in quella notte diventa janara o lupo mannaro. Insomma ritroviamo tutta la serie di stereotipi che conosciamo benissimo, ma noi siamo venuti fin qui alla ricerca di “anomalie” all’interno della narrazione standard che troviamo un po’ ovunque dai manuali di antropologia ai libretti di folklore locale. Una prima anomalia la riscontriamo proprio nel racconto di una storia di lupi mannari ambientata a inizio del 900, da sempre, il lupo mannaro e la janara (o la strega) convivono all’interno dell’orizzonte mitico e superstizioso delle comunitá agricolo-pastorali un po’ in tutta Europa. Infatti nel racconto la persona trasformata in licantropo, andava in giro nella notte di Natale terrorizzando le persone coperto da una grossa pelliccia, addirittura coprendosi il volto con essa. In questo racconto abbiamo immediatamente trovato una somiglianza morfologica, nelle pagine di Eliade (2) e Ginzburg (3), con pratiche affini dello sciamanesimo centro asiatico e antico-europeo, secondo cui, lo sciamano andava in estasi coprendosi interamente con una pelliccia animale, il piú delle volte quella del suo animale totemico, volando via o trasformandosi in animale per combattere con altri sciamani. L’isomorfismo tra pratiche cosí distanti tra di loro nello spazio e nel tempo ci fanno pensare a un sostrato arcaico comune o comunque a una affinitá cultuale, soprattutto qui, dove oltre al racconto del lupo mannaro abbiamo un’altra ben piú importante figura che non é piú completamente animale, ma nemmeno definitivamente uomo e cioè “Gl Cierv”: vestito di pelli di capra, con addosso rumorosi campanacci e con in testa un copricapo con due grosse corna cervine. Ma cerchiamo a questo punto di costruire una serie. Il mito di Castelnuovo infatti ci tramanda la viva memoria di (a) un culto ancestrale legato al (b) passaggio tra il furore del periodo invernale a quello vitale della primavera, (c) un culto che é soprattutto estatico, l’uomo travestito da cervo che scende nel paese é contraddistinto da (d) un “furor” sovraumano, scende in paese urlando e travolgendo ogni cosa che trova sul suo cammino, nessun intervento riesce a domarlo, il suo palco di grandi corna di cervo tiene tutti alla larga, finché non arriva (e) il cacciatore che lo colpisce a morte ma solo affinchè (f) possa risorgere di nuovo, come ogni anno la stagione invernale muore per lasciare il posto alla primavera.

Morte e resurrezione rituale del ciclo delle stagioni attraverso l’elemento magico delle pelli (il vestito dell’Uomo Cervo) e delle ossa (il suo copricapo cervino). Visto da questa prospettiva il mito del cervo di Castelnuovo ci fornisce una serie completa e chiara di elementi di carattere sciamanico che ci suggeriscono sue radici antichissime.

Pubblicato su gentile concessione dell'autore Massimiliano Palmesano, amministratore della pagina FB Janara

lunedì 13 agosto 2018

La magia delle Mainarde, parte II

Magnifiche e magiche Mainarde

Appena arrivati in zona la sensazione é quella di un luogo magico in cui la natura conserva tutti i suoi poteri e dove il tempo si é ritagliato uno spazio di fissitá cessando il suo ritmo infinito, un luogo insomma che dal punto di vista della ricerca etnologica sulla Janara e di quella che piú sopra abbiamo chiamato “Geografia della janara”, si pone come un vero e proprio tesoro. Facciamo base sul lago di San Vincenzo, bacino artificiale costruito a metá del secolo scorso per alimentare una centrale idroelettrica ma che si é inserito perfettamente nel territorio, per restare un paio di giorni per avere un primo approccio con il mondo del Cervo e delle Janare di Castelnuovo. Prima peró facciamo (con nostra infinita gioia) un salto all’area archeologica dell’Abbazia di San Vincenzo a Volturno che é definita da tanti la Pompei altomedievale, e a Scapoli, patria dei costruttori di zampogne, altro elemento, quello della zampogna e degli zampognari, che ci mostra una resistenza culturale forte in queste terre. Il primo incontro con le Janare ( e con il Cervo) lo facciamo proprio a Scapoli, dove, nella bottega del maestro Izzi, situata all’interno del camminamento di ronda della cittadella medievale, tra tornii, zampogne e ciaramelle, alcune finite altre ancora abbozzate, ne’ approfittiamo per fare alcune domande anche sul motivo della nostra visita. Scopriamo, che una delle ipotesi che ci ha portati fin qui va riformulata: le Janare all’interno della pantomima del Cervo sono state immesse successivamente e in epoca recente, certo la janara é una figura centrale anche nelle credenze di queste terre, ma quello che avevamo ipotizzato come possibile mezzo magico per evocare il Cervo diventava una ipotesi che andava riformulata. Scopriamo peró anche un dato interessante: in tempi remoti la festa del Cervo era praticata in tutta la zona e non era solo una prerogativa di Castelnuovo, proprio a sottolineare il comune sostrato culturale arcaico degli abitanti di queste zone. Lasciando Scapoli e scendendo a piedi tra le viuzze del centro storico, notiamo in ben due giardini di case private, due rigogliose piante di noce metella (datura metel), appartenente alla famiglia delle solanacee e stretta parente dello stramonio (datura stramonium), la noce metella é una delle piante magiche utilizzate da quella che per facilitá definiamo la stregoneria europea. Certo due piante non possono indicare in alcun modo un dato etnologico o etnobotanico, non abbiamo avuto modo di intervistare i proprietari dei giardini, ma ci é piaciuto lasciarci suggestionare dalla loro presenza subito dopo aver parlato di janare e di uomini che si trasformano in cervi e ne raccogliamo la caratteristica sfera pungolata per conservarla e catalogarla nella nostra sezione “Herbaria”.

Nel pomeriggio del primo giorno arriviamo finalmente a Castelnuovo e con il pretesto di chiedere informazioni ci fermiamo al bar della piazza dove avviene la pantomima del Cervo, in macchina abbiamo anche alcuni volumi sul cui contenuto vogliamo discutere con qualcuno del luogo non appena se ne presenti l’occasione. Fuori al bar ci sono due anziani sorridenti, ci fermiamo a chiedere loro un posto dove possiamo comprare una bottiglia di buon vino. Tra qualche diffidenza iniziale, cerchiamo di rompere il ghiaccio utilizzando il dialetto: ma non utilizziamo il dialetto campano piú vicino al napoletano, utilizziamo una forma dialettale ibrida tra campano settentrionale e dialetti appenninici con desinenza in “u”, antica eco delle lingue osco-sannite e l’espediente ci aiuta non poco. Scopriamo che entrambe sono zampognari da sempre e hanno “girato il mondo con zampogna e ciaramella” e subito entriamo in empatia con uno di loro, Giuseppe, che dopo pochi minuti di silenzio ci invita a seguirlo a casa: il vino ce lo dará lui.

Pubblicato su gentile concessione dell'autore Massimiliano Palmesano, amministratore della pagina FB Janara

domenica 12 agosto 2018

La magia delle Mainarde, parte I

“Gl’ Cierv” ovvero l’Uomo Cervo

C’è una festa che si celebra l’ultima domenica di carnevale a Castelnuovo al Volturno (Isernia), una festa che ci riporta direttamente alla notte dei tempi quando tra uomini e animali non era ancora avvenuta una differenziazione cosí netta e anzi, i primi riuscivano a trasformarsi in secondi e questi ultimi riuscivano a comunicare coi loro spiriti con gli uomini: é la festa de “Gl cierv”, ovvero dell’Uomo Cervo. La festa, che pare sia una ritualizzazione mitica del passaggio dai mesi invernali a quelli primaverili/estivi con il ciclico risveglio della natura, è una pantomima in cui oltre all’Uomo Cervo, compaiono anche altre figure come la Cerva, il Cacciatore, la maschera molisana di Martino e tra gli altri anche le Janare e il Maone, loro oscuro capo. La presenza delle Janare all’interno della pantomima è ancora piú interessante soprattutto perché durante il rito queste compaiono per prime e oltre agli stereotipati attributi negativi che le accompagnano un po’ ovunque in tutta la vasta area in cui sono presenti, presentano anche connotazioni piú tipicamente ancestrali e sciamaniche: sembra infatti che l’Uomo Cervo sia quasi evocato dal corteo e dalle danze estatiche di queste donne vestite di nero, mascherate e con lunghi capelli di rafia. Decidiamo quindi di recarci sulle Mainarde sulle tracce di quella che a prima vista ci era sembrata una interessante “anomalia” da analizzare nel percorso, parafrasando Carlo Ginsburg, di “decifrazione” della janara, quasi del tutto spogliata, nel rito del cervo, delle sue prerogative demoniache e negative, prerogative “offuscate” dal ruolo magico di evocatrici dello spirito ancestrale del cervo. In realtá le anomalie interessanti sono due, la seconda, che é parte integrante del nostro lavoro di ricerca da qualche tempo, é quella che rientra nell’ambito che chiamiamo la “Geografia della Janara”, ambito di studio abbastanza ampio che si occupa dei rapporti tra centri e periferie, da un lato, e dall’altro, quella che riguarda i confini di quella che chiameremo la “Nazione Janara”, ovvero tutto il territorio interessato nella tradizione e nella superstizione dalla presenza delle janare. Su questo ultimo punto c’é da fare una precisazione: tra i tanti stereotipi che accompagnano la storia nera della Janara, uno dei piú diffusi é quello che la vuole semplicemente come una “traduzione” beneventana della figura della strega, considerazione che é quantomeno una mezza veritá, se non proprio la spiegazione superficiale di un fenomeno ben più complesso. La “Nazione Janara” comprende infatti certo tutto il beneventano, ma le sue propaggini si estendono a sud per pochi chilometri sotto Benevento fino al nord del salernitano, infatti nell’avellinese gia compare la figura della “maciara” o “magara” piú affine al mondo magico lucano studiato da De Martino, se saliamo verso nord invece troviamo la sua presenza pressoché ovunque nelle province di Napoli e Caserta, ma non solo, nel basso Lazio almeno fino a Terracina e a Fondi (a Formia c’é addirittura il toponimo Grotta della Janara), in quasi tutto il Molise e in alcune zone del basso Abbruzzo, e, ipotesi su cui siamo ancora in fase di studio, in parte della provincia di Foggia. Un’area vastissima che ci suggerisce che non basta spiegare questa diffusione con la sola influenza di Benevento come capitale della Longobardia Minor nell’alto medioevo e cioé nell’epoca in cui, secondo alcuni, si è formata la figura della janara. Cosa c’entra Benevento in tutto questo discorso allora? C’entra, cosi come c’entrano i longobardi e il principato della Longobardia Minor.
 
Quando i longobardi arrivarono a Benevento nella seconda metá del VI secolo dC, guidati da un capo guerriero chiamato Zottone (ca. 570-591), che la tradizione dipinge come fondatore del ducato longobardo di Benevento (1), erano giá quasi tutti cattolici, con piccole minoranze ariane, ma avevano ufficialmente abbandonato i loro antichi culti da un bel po’ di anni. Questa “conversione” delle genti longobarde era avvenuta peró piú per motivi di carattere squisitamente politico che “spirituale”, la conversione al cristianesimo infatti procurava loro una piú ampia rosa di possibilitá di confronto (che nella realtá fu quasi sempre riottoso) con il papato: era per loro fondamentale infatti rendere la loro presenza quanto meno “aliena” possibile dal contesto che intendevano dominare anche se il grosso del lavoro lo facevano con la spada. Nella realtá peró tanti di quei guerrieri conservavano vive le usanze rituali e religiose dei loro avi con cerimonie praticate all’aperto, tra gli alberi e forse proprio sotto ad una pianta di noce, con la presenza di simulacri rituali caprini affini a tanti popoli nomadico-guerrieri provenienti dall’Europa del nord e dell’est e forse anche con sacrifici rituali di capri, un corollario cultuale che se da un lato, a cominciare da San Barbato che nelle sue predicazioni cominció a parlare di raduni di streghe e diavoli sotto il noce di Benevento, fece facilmente associare questi culti pagani al sabba stregonesco, dall’altro lato quasi sicuramente, queste stesse forme di cultualitá vennero da subito riconosciute come affini dalle donne che praticavano culti ancestrali nati, a nostro avviso, prima del periodo romano, culti italici legati alla Madre con forti affinitá con il mondo celtico/germanico, affinitá su cui torneremo tra poco. Insomma se da un lato, nella narrazione pubblica, fu lo stereotipo demoniaco e pagano a prendere il sopravvento, dall’altro lato furono possibili anche forme di sincretizzazione o forse solo di affinità archetipo-simbolica tra i culti delle Janare e quelli dei conquistatori longobardi. Questa digressione risulta utile per porre una necessaria problematizzazione sulla superficiale attribuzione di una sorta di centralitá di Benevento come punto di emanazione del fenomeno, crediamo infatti che la realtá e la ricostruzione congetturale di essa necessitino di un lavoro più approfondito e meno semplicistico: era necessario rimarcare questo aspetto all’interno di queste righe, aspetto su cui si fonda gran parte del lavoro di studio che stiamo portando avanti. Ma torniamo alle Mainarde.

Pubblicato su gentile concessione dell'autore Massimiliano Palmesano, amministratore della pagina FB Janara

sabato 11 agosto 2018

La magia delle Mainarde - Premessa

Sulle tracce ancestrali e sciamaniche delle Janare e dell’Uomo Cervo!

Lo scritto che segue è a metá strada tra il diario di viaggio e delle considerazioni di carattere piu’ marcatamente scientifico, abbiamo volutamente mantenuto questo taglio narrativo cogliendo l’occasione per introdurre per la prima volta una serie di considerazioni e di problematizzazioni. In primis è la prima volta in assoluto che si parla di “Geografia della janara” e di “Nazione Janara”, due concetti che abbiamo introdotto per definire da un lato, con “Geografia della janara”, tutti i rapporti di carattere geografico-territoriale, dalle differenze tra centri urbani e campagne e all’interno degli stessi territori tra centro e periferia, nello sviluppo e nella sopravvivenza della figura delle janare, e dall’altro con “Nazione Janara”, tutto il territorio in cui si é sviluppata e vive a tutt’oggi questa credenza. Abbiamo inoltre problematizzato per la prima volta, e messo in discussione, la centralitá di Benevento e del beneventano come luogo di origine e di appartenenza esclusiva della figura della Janara, assunta molte volte con superficialitá da chi si approccia all’argomento, fornendo una prima e sicuramente non esaustiva ipotesi in merito al periodo della dominazione longobarda e tralasciando, volutamente in quanto non la sede adatta, l’analisi del periodo antico a Benevento e in particolare i legami con il culto di Diana/Iside, argomenti su cui sicuramente torneremo, insieme a un’analisi di un’altra interessantissima figura della cittá di Bevenento e cioé “la Zucculara”, entitá femminile magica che a nostro avviso rimanda direttamente al discorso sulla zoppaggine mitica e quindi anche questa figura ci suggerisce un sostrato sciamanico, ma appunto dedicheremo all’argomento piú spazio in futuro. L’introduzione dei concetti di “Geografia della janara” e di “Nazione Janara” e la problematizzazione della centralitá di Bevento sono parte del lavoro di ricerca che portiamo avanti. Non abbiamo tra l’altro indugiato su quella che poteva essere una facile traccia di ricerca e cioé la congettura che vede le Janare come sacerdotesse di Diana, congettura che sicuramente ci poteva fornire elementi di connessione maggiori (e piu facilistici) tra la figura del cervo, le janare e i riti legati ai boschi, ma riteniamo che tale ipotesi sia se non del tutto errata, quantomeno passibile di forti lavori di revisione e di rielaborazione che ci riserviamo di affrontare prossimamente.

Pubblicato su gentile concessione dell'autore Massimiliano Palmesano, amministratore della pagina FB Janara

giovedì 9 agosto 2018

L'estasi presso i popoli germanici

Secondo ciò che Snorri riferisce, Odino conosceva e praticava la magia detta seiðr: grazie ad essa poteva prevedere il futuro e causare la morte, la sciagura o la malattia. Però Snorri dice che questa stregoneria implicava una «turpitudine» tale che gli uomini non l'usavano mai «senza vergogna»: il seiðr era piuttosto una prerogativa delle gydhjur («sacerdotesse» o «dee»). E nel Lokasenna si rinfaccia ad Odino l'uso del seiðr, cosa «indegna di un uomo». Le fonti parlano di maghi (seiðmenn) e di maghe (seiðkonur) e si sa che Odino apprese il seiðr dalla dea Freyja. Pertanto, si può supporre che questa specie di magia sia stata una specialità femminile: per tale motivo venne considerata «indegna di un uomo».

Di fatto, le sedute di seiðr descritte dai testi ci presentano sempre una seiðkona, una spàkona (una «chiaroveggente», una profetessa). La descrizione migliore si trova nella Eiriks saga rautha: la spàkona possiede un costume cerimoniale tutt'altro che primitivo: manto azzurro, gioielli, un copricapo di agnello nero con pelli di gatto bianco; porta anche un bastone e, durante la seduta, si siede su di un cuscino di penne di gallina su di un piedistallo alquanto elevato. Aggiungiamo che certi tratti «sciamanìci» nel senso lato del termine traspaiono nella assai complessa figura di Loki; su questo dio, vedi l'eccellente opera di Dumezil (Loki, Paris, 1948). Trasformatosi in giumenta, Loki generò con lo stallone Svadhilfari, il cavallo ad otto gambe, Sleipnir. Loki può assumere varie forme animali, quella di una foca, di un salmone, ecc. Genera il Lupo e la Serpe del Mondo. Vola anche negli spazi dopo aver indossato il costume di penne di falco; ma questa veste magica non gli è propria, essa appartiene a Freyja. Ci si ricorderà che Freyja ha insegnato a Odino il seiðr; pertanto, questa tradizione la si può raffrontare con le idee circa l'arte del volo magico insegnato da una dea o da una maga ad un dio o ad un sovrano, ed analoghe leggende cinesi, Freyja, maestra del seiðr, possiede un costume magico di penne che le permette di volare alla stessa guisa degli sciamani; Loki sembra aver in proprio una magia più tenebrosa il cui senso è nettamente indicato dalle sue trasformazioni animali. La seiðkona (o valva, spàkona) va di fattoria in fattoria per rivelare l'avvenire degli uomini e predire il tempo, la qualità del raccolto, ecc. Porta con sé quindici giovinette e altrettanti giovani che cantano in coro. La musica ha una parte essenziale nella preparazione dell'estasi. Durante la trance l'anima della seiðkona lascìa il corpo e viaggia nello spazio; per lo più, assume la forma di un animale, come nell'episodio più su citato.

Per vari aspetti il seiðr si avvicina alla seduta sciamanica classica: il costume rituale, l'importanza del coro e della musica, l'estasi. Non ci sembra però che per questo si debba considerare il seiðr come sciamanismo stricto sensu: il «volo mistico» è un leit-motiv della magia universale e specialmente della stregoneria europea. I temi specificamente sciamanici - discesa agli Inferi per riportare l'anima del malato o per accompagnare il defunto - benché, come si è visto, siano presenti nelle tradizioni della magia nordica, non rappresentano un elemento essenziale nella seduta del seiðr. Questa sembra invece incentrarsi nella divinazione, il che vale quanto dire che ha piuttosto attinenza con la «piccola magia».

Orlando, in collaborazione con le vie di Wodanaz

martedì 7 agosto 2018

Contro il lassismo

L’ambito dei fedeli dell’antica via, come buona parte degli ambiti religiosi o spirituale, è infestato da masnade di idioti, ciarlatani e compagine. 
Fin qui, immagino lo sappiate tutti, non vi è nulla di nuovo, a tutti capita prima o poi l’elemento fuori di testa, che incide rune sulle saponette e prega gli angeli mentre pratica reiki con in sottofondo inni tendenzialmente tamarri di dubbia qualità ed utilità.
La verità è che mancano, specialmente tra coloro che per la prima volta si approcciano all’antica via, informazioni corrette e guide, quantomeno, preparate a spiegare quelle che sono le basi di un percorso tutt’altro che lineare e uguale per tutti.

È in questo clima che prosperano, spesso indisturbati, talvolta addirittura riveriti, ciarlatani di ogni risma, gente disposta a mescolare senza criterio pratiche e divinità di ogni pantheon (spesso tirando in ballo anche entità prettamente monoteiste o legate comunque a queste) pur di raccattare due soldi dal beota di turno.

Questo non è accettabile, non più.

Il lassismo, il vivi e lascia vivere ha segnato il passo e si rende ora necessario riunire tutte le forze sane del nostro ambiente ed opporsi in maniera dura ad ogni visione petalosa, postmoderna e fondamentalmente idiota della nostra fede.

Nessuna tolleranza può esserci per questi imbecilli che, con buone o cattive intenzioni che siano, mettono in cattiva la fede negli Dèi, coprendosi al contempo di ridicolo.
Essi vanno allontanati, emarginati ed esclusi da ogni spazio pubblico e da ogni associazione seria fino a quando non rinsaviranno e la smetteranno di comportarsi come hippies che hanno scoperto per caso qualche pessimo libro sulle rune.

Non vi è altra via, non vi sono altre soluzioni praticabili.

L’invito è quindi a coloro che ci seguono, ma anche e soprattutto a tutte le altre realtà degne e sante presenti nel panorama nazionale, occorre agire ora è formare comunità salde, solo così sarà possibile una vera rinascita del nostro culto.

lunedì 6 agosto 2018

Guerra

Poche cose sono malviste nei nostri tempi oscuri quanto la guerra.
La guerra, croce e delizia dell’uomo, essa rivela la vera natura di ciascuno, può essere terribile quanto generosa e donare a chi si distingue notorietà, terre e titoli. 
Il solo pronunciare questa parola, specialmente se accompagnata ad elogi, provoca isteriche reazioni negli imbelli, gente insulsa e codarda, buona a malapena per starnazzare come un oca (senza offesa per questo nobile animale, ovviamente). 
 
Ma perché essa spaventa tanto? La pace artificiale nella quale viviamo, figlia bastarda delle armi nucleari e della mutua distruzione assicurata, ha contribuito non poco alla formazione di questo sentimento, ma non ne è l’unica responsabile.
È cosa nota, infatti, che i valorosi, per quanto numerosi, sono e saranno sempre una minoranza fra le genti, se essi non vengono additati ad esempio il loro coraggio si rivela fine a se stesso, grande nella misura in cui può esserlo un uomo ma nulla di più.
Solo tramite l’esempio esso può aiutare i suoi simili ad essere migliori, e solo tramite la guerra, dura, ma necessaria e giusta come tutto ciò che è eterno, egli può espletare questo afflato divino, ciò che gli è stato donato.

domenica 5 agosto 2018

Mjolnir, parte II

...
Prymr, signore dei giganti, si preparava ad accogliere la sposa. Egli disse: “Presto, preparate le panche per ricevere Freyja figlia di Njörðr! Io possego vacche e buoi dalle corna d’oro e ho molti gioielli, collane e tesori, tuttavia lei sola mi manca”.

Alla sera fu preparato un grandioso banchetto e ai giganti fu servita la birra. Thor era assai affamato e mangiò avidamente: da solo divorò un bue e otto salmoni, bocconi prelibati destinati alle donne; inoltre bevve ben tre litri di idromele. Prymr ne fu meravigliato e insospettito; perciò disse: “Hai mai visto una sposa mangiare tanto avidamente e una donna bere tanto idromele?” L’ancella espertissima e astuta che stava che stava seduta di fronte s’affrettò a spiegare: “Freyja non toccava cibo da otto giorni tanto era il suo desiderio di venire in Jotunheimr”. Prymr parve convinto; di nuovo tuttavia si meravigliò e si insospettì quando si chinò sulla sposa per baciarla: lo sguardo era così infuocato che egli fece un balzo all’indietro nella sala del banchetto. Allora domandò: “Perché sono tanto terribili gli occhi di freyja? Sembra proprio che in essi vi sia fuoco che arde”. L’ancella espertissima e astuta che stava seduta di fronte s’affrettò a spiegare: “Freyja non chiudeva occhio da otto notti, tanto era il suo desiderio di venire in Jotunheimr”.

In quel momento entrò nella sala la sorella del gigante e volle chiederle un dono nuziale; ella disse a Thor: “Togli dalle tue mani gli anelli d’oro se vuoi conquistarti la mia benevolenza e il mio amore!” Allora parlò Prymr, signore dei giganti: “Portate il martello per consacrare la sposa, ponete Mjollnir sul suo grembo e consacrateci insieme per la mano di Vàr!” Gioì Thor nel profondo del cuore, quando riconobbe il martello: subito lo afferrò e colpì a morte Prymr per primo e subito dopo tutti i suoi. Né risparmiò la vita alla sorella del gigante: lei, che aveva osato chiedere i doni nuziali, ebbe una martellata al posto dell’oro, botte sonanti invece che anelli.

Così il figlio di odino recuperò il martello prezioso.
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Questo mito presenta molti particolari interessanti, primo fra tutti il furto del martello di Thor, strumento vitale per l’equilibrio cosmico.
Vi è poi l’aiuto di Loki, emblema dell’inaspettato e necessario supporto dettato dalla condizione ontologica dell’essere umano - ricordiamoci che gli inganni e la furbizia sono sempre esistiti - per un fine superiore e sacro.
L’aiuto iniziale di Freyja e il rifiuto di andare in sposa al gigante vanno a dimostrare che non bisogna mai vendersi a nessuno.
Il travestimento di Thor è un semplice mezzo per raggiungere un fine superiore; nonostante questo gesto sia degradante per Thor, egli lo compie per il bene della comunità tutta.
La sorella del gigante che chiede gli anelli al dio del tuono a causa del suo mammonismo, mettendo non solo a repentaglio il matrimonio ma vendendo il suo rispetto per cose materiali sono la prova che atteggiamenti contro la famiglia portano solo a una meritata e triste fine.

Il paganesimo ai nostri giorni è spesso inteso come un semplice veicolo di modernità e di degenerazione ma quando la scintilla divina tornerà ad animare gli animi esso ritornerà a splendere come il tuono.

Fonti:
- I miti nordici, Gianna Chiesa Isnardi, pag. 118-121.

Riccardo Ghergia in collaborazione con le vie di Wodanaz

sabato 4 agosto 2018

Mjolnir, parte I

Molti sono i miti nordici da cui prendere spunto, vere e proprie guide lungo il sentiero della vita che da sempre è stata lotta.
Uno in particolare fra la vastità di questi è degno di nota; riguarda il furto del martello di Thor, di quella magnifica arma simbolo di forza e fecondità della quale da sempre le forze distruttici bramano impossessarsi.

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Una notte, mentre dormiva, Thor fu derubato del prezioso martello. Il ladro era un gigante di nome Prymr. Al risveglio, nell’accorgersi del furto, il dio fu scosso dall’ira e tormentato dalla preoccupazione: si confidò allora con Loki il quale, per l’intelligenza e l’astuzia, era l’unico in grado di aiutarlo. Loki non perse tempo: con Thor si recò da Freyja per chiederle in prestito il suo travestimento da falco. La dea lo cedette volentieri: "Te lo darei", disse, "anche se fosse d’oro, te lo d’arei anche se fosse d’argento". Volò dunque Loki oltre il recinto degli Asi, volò finché raggiunse Jotunheimr. Prymr sedeva su una collinetta, pettinava la criniera dei suoi cavalli e serrava un collare d’oro ai cani. Egli domandò a Loki: "Che cosa accade mai fra gli Asi e fra gli elfi perché tu venga in Jotunheimr?" "Un guaio c’è fra gli Asi e fra gli elfi", rispose Loki. "Sei tu che hai nascosto il martello di Thor?" Prymr rispose che si, era stato proprio lui: aveva sottratto il prezioso martello. "Io l’ho celato", disse, "otto miglia sotto terra: nessuno potrà riaverlo se non mi portate Freyja in sposa."

Volò dunque Loki e tornò nel recinto degli Asi. Thor gli si fece incontro tutto ansioso e lo invitò, prima che a sedersi, a riferire il risultato della missione. Andarono dunque Thor e Loki dalla dea Freyja e le proposero d’essere sposa del gigante. Freyja montò su tutte le furie e si adirò terribilmente, tanto che tutte le dimore degli dèi ne furono scosse; persino il prezioso monile Brìsingamen le schizzò via dal petto. Ella disse: "Credi davvero che abbia una voglia così sfrenata di maschi da venire con te in Jotunheimr?"

Gli dèi si riunirono al consiglio: ora dovevano assolutamente trovare il modo di recuperare il prezioso martello di Thor. Il suggerimento migliore venne da Heimdallr, dio degli Asi assai luminoso, che tuttavia conosce il futuro come i Vani. Heimdallr dunque disse così: "Adorniamo invece Thor con la veste nuziale, mettiamogli al collo il monile Brisingamen! Appendiamo al suo fianco un mazzo di chiavi e facciamo che una veste da donna gli copra le ginocchia! Poi simuleremo il petto con grosse pietre e bene gli acconceremo la chioma". A Thor questo suggerimento piacque assai poco: "Gli dei mi daranno dell’invertito", disse, "se mi lascio vestire da sposa". Loki rispose: "Ben presto i giganti abiteranno in Asgaror se tu non recuperi il martello!" Questa osservazione eliminò qualsiasi esitazione.

Thor venne dunque adornato con vesti nuziali ed ebbe al collo il monile Brisingamen Di Freyja; un mazzo di chiavi gli fu appeso al fianco e una veste di donna gli coprì le ginocchia. Poi gli fu simulato il petto con grosse pietre e gli fu ben acconciata la chioma. Quando ciò fu fatto Loki disse: "Io sarò la tua ancella e ti accompagnerò in Jotunheimr".

Partirono dunque Loki e Thor sul carro del dio trainato dai capri. Essi correvano così velocemente che le montagne cadevano in pezzi e in fiamme bruciava la terra.
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Fonti:
- I miti nordici, Gianna Chiesa Isnardi, pag. 118-121.

Riccardo Ghergia in collaborazione con le vie di Wodanaz

venerdì 3 agosto 2018

Elogio del guerriero a cavallo

Figli prediletti degli Dèi, seguaci di Biflindi, i combattenti a cavallo hanno sempre ricoperto una funzione di primaria importanza nella nostra terra di mezzo. 

Essi sono manifestazione terrena e tangibile della furia e dell’impeto, la carica è cavalcata fra i mondi, luogo e accadimento sempre in essere ed in divenire, esaltazione mistica tesa alla prova del sé e al raggiungimento di un fine ultimo e sacro. 

La sua funzione sacra non è, e mai sarà, esaurita, così come la sua utilità militare, la meccanizzazione non potrà mai spazzare via questo legame, mai del tutto, zoccoli e cingoli marceranno ancora insieme, in nome di quanto vi è di solare, prima che il mondo crolli per poi rinascere. 

giovedì 2 agosto 2018

Wōđanaz

"Wodan, id est furor"
- 'Gesta Hammaburgensis Ecclesiæ Pontificum' di Adam Bremensis

Teonimo derivante dalla radice protogermanica *wōđ- (i.e. gotico Wōds "posseduto", anglosassone wōð "canto", norreno óðr "ebbrezza poetica", tedesco Wut "furore") che identifica quella divinità del pantheon germanico descritta da Tacito nel 'De origine et situ Germanorum' con l'epiteto di regnator omnium deus (i.e. "dio, regnante del tutto"), Wōđanaz è attestato come Wōtan/Wōdan in antico alto tedesco, Wōdan in antico basso tedesco (i.e. sassone), Wōden in anglosassone, Óðinn in norreno ed infine come Godan in longobardo per via di una particolare forma ortografica della semiconsonante [w].

La radice *wōđ- è esemplificativa dei ruoli che questa divinità ricopre; omen nomen.
Wōđanaz è considerato dio dei poeti e dei veggenti; il suo teonimo è legato infatti al termine protogermanico *wōþuz (i.e. "furor poeticus") - nella mitologia germanico scandinava è il protagonista del recupero dell'idromele della poesia dal gigante Suttungr che ne era custode.
Wōđanaz è dio mutaforma - basti pensare all'abito d'aquila di cui egli si riveste per sfuggire al gigante Suttungr - è signore delle forche - ricordiamo che stando alla mitologia scandinava egli pendette per nove notti dalle fronde di un frassino, forse lo stesso Yggradsil, dopo essersi ferito con una lancia al fine di ottenere sconfinata sapienza.
Wōđanaz è personaggio di rilievo nella caccia selvaggia e per questa ragione viene associato alla guerra; è infine portatore di vittoria - basti ricordare il mito di fondazione longobardo narrato da Paul Warnefried nella 'Historia Langobardorum' da lui scritta; fu Godan, convinto da Frigg, a sancire la vittoria dei Winnili sui Vandali dopo avergli fatto dono del nome "Longobardi".

mercoledì 1 agosto 2018

La caccia selvaggia, un mito pan-indoeuropeo

Dalle nebbie lombarde alle brume del Sussex, dalla foresta nera agli acquitrini del Lazio, non vi è terra in Eurasia che non sia mai stata toccata dalla caccia selvaggia. Chiamata in molti modi, talvolta evocata, spesso temuta e demonizzata, la caccia selvaggia rappresenta il perfetto esempio di come un mito arcaico riesca a sopravvivere, nonostante tutto, ad ogni cosa.
Ecate, Wotan, Artemide e Arlecchino sono solo alcuni dei personaggi che la popolano e la guidano, insieme a soldati, morti anzi tempo, belve ed ogni altro genere di creatura.
Essa è presenza tangibile, solco indelebile in terra di mezzo della potenza e della gloria antica.
Gli Dèi, anche se dimenticati, rimangono; essi sono eterni come eterni sono i cicli.