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sabato 29 dicembre 2018
Asclepio
Nella versione del mito narrata da Pindaro, Artemide uccise Coronide, rea di aver tradito Apollo. Quest'ultimo decise però di salvare il bambino che Coronide portava in grembo e gli diede il nome di Asclepio.
Crescendo, Asclepio venne addestrato dal centauro Chirone nell'arte della medicina. Secondo alcune versioni del mito, Atena donò ad Asclepio l'abilità di cambiare il proprio sangue con quello di Medusa. Il sangue che sgorgava dalle vene del fianco sinistro del semidio era infatti velenoso, mentre quello del fianco destro aveva il potere di guarire ogni malattia e riportare in vita i morti.
L'abilità di Asclepio di riportare in vita i morti, presente in tutte le versioni del mito, indusse Zeus a fulminarlo per evitare che i mortali diventassero troppo simili agli dei. Apollo si infuriò per il gesto del padre e nella sua ira uccise i tre Ciclopi che forgiavano le folgori di Zeus. Per placare l'ira di Apollo, il padre degli dei rese Asclepio immortale tramutandolo nella costellazione di Ofiuco.
Dalla pagina Facebook “Pillole di Mitologia”, previo permesso
https://m.facebook.com/pilloledimitologia/
venerdì 28 dicembre 2018
Culto eroico, Re Penda
Questo fino a quando non ho poi parlato di quelli che sono gli eroi ai quali dedico culto, fra questi infatti ve n’è uno che se proprio non misconosciuto è, quantomeno, molto poco noto.
Si tratta di Penda, signore della guerra e Re di Mercia, vissuto più di tredici secoli fa.
Ma chi era costui e, sopratutto, perché ritengo sano e sacrosanto annoverarlo fra il numero degli Eroi? Per i cultori degli imperatori e dei grandi conquistatori egli potrà sembrare, nella sua circoscrizione geografica limitata, un personaggio di poco conto, quasi secondario ma per chi, come il sottoscritto, cerca l’eroismo al di là della mera apparenza egli è senza ombra di dubbio ben più che degno di ogni lode.
Di stirpa divina, discendeva per linea maschile dal Woden, il terribile Vate, padre del tutto, così infatti è riportato nella cronaca anglosassone:
“Penda, figlio di Pybba, figlio di Cryda, figlio di Cynewald, figlio di Cnebba, figlio di Icel, figlio di Eomer, figlio di Angeltheow, figlio di Offa, figlio di Wermund, figlio di Wihtlaeg, figlio di Woden”
Egli fu guerriero di grande valore, e grande del suo tempo.
In un’epoca in cui ormai la quasi totalità delle isole britanniche era nelle mani di regnanti traditori degli Dèi e della propria stirpe egli preferì rimanere fedele alla propria fede, non scelse come molti altri la via più comoda per rimanere al potere e non si piegò alle lusinghe e ai denari dei predicatori franchi, resistette e prosperò, pur in un regno circondato da nemici, e morì nella maniera più consona ad un’eroe, in battaglia, spada in pugno nonostante l’età avanzata, aveva infatti ottantuno anni.
Questo è, in breve, il perché, specialmente fra coloro che seguono la via antica con una particolare inclinazione al pantheon germanico, sarebbe d’uopo ricordare nei propri sacrifici questo campione della causa divina.
Concludo con la parte finale di un articolo ben più corposo, scritto sempre dal sottoscritto, dedicato alla storia vera e propria di questo personaggio:
“Finisce qui la vita terrena di Re Penda, morto a ottantun’anni, circondato dai propri amici e consiglieri, spada in pugno. Un uomo coraggioso, estremamente leale agli Dèi, alla propria fede e al proprio popolo, ora festeggia con gli Dèi e gli eroi nelle sale del Valhǫll, in attesa che giunga la fine di questa età del lupo.”
Per chi volesse approfondire le sue gesta consiglio di digitare, nella sezione “cerca” del nostro blog - nella sua versione “desktop” - il nome “Penda”.
martedì 25 dicembre 2018
Bhagavadgītā, parte VI
La mente di un simile uomo non conosce apprensione nelle sofferenze; è libero da ogni attaccamento ai piaceri, affrancato dalla cupidigia, dal timore o dalla collera: tale è l’asceta che si dice saldo nell’alto pensiero.
Colui che, distaccato da tutto, incontrando fortuna o sfortuna non prova né gioia né odio, ecco quegli che è consolidato in saggezza” (II:55,56,57)
Ai praticanti della traduzione Zen (o Chán) non sarà sfuggita la somiglianza del versetto 57 con un celebre passo del “Barbaro dagli occhi Blu”, il 28º Patriarca del Buddhismo indiano Bodhidharma, fondatore della scuola Chán e, presumibilmente, dello stile di combattimento Shaolin.
Lo stesso infatti, nel testo di Red Pine “L’insegnamento Zen di Bodhidharma” spiega un concetto molto simile per quanto riguarda la figura del Buddha:
“Un Buddha è qualcuno che trova la libertà nella buona e nella cattiva sorte. È tale il suo potere che il karma non può vincolarlo. Comunque sia il karma, un Buddha lo trasforma. Paradiso e inferno non sono nulla per lui. (p. 59)”
Comunque, tornando al testo, dopo la descrizione della verità del distacco, Kṛṣṇa descrive la già citata importanza dell’azione e della rinuncia a fini divini:
“In questo mondo, te l’ho già detto, è lecito seguire una doppia vocazione, o eroe senza macchia: disciplina dei filosofi speculativi mediante il metodo della conoscenza (metafisica) e disciplina dei praticanti mediante il metodo dell’azione (Yoga)
Non è soltanto astenendosi dall’agire che l’uomo accede alla libertà del non-agire, non è unicamente rinunziando che egli s’innalza alla perfezione.” (III:3,4)
E ancora:
“Dedicandomi ogni tua azione, con mente perfettamente interiorizzata, libero da ogni desiderio come da ogni spirito di possesso, calmata la tua febbre, combatti.
Gli uomini che, indefettibilmente, con fede e senza mormorare, mettono in pratica questa mia dottrina, anch’essi sono liberati dagli atti.
Quelli che, al contrario, ribellandosi contro di essa, non mettono in pratica la mia dottrina, considerali distolti da ogni saggezza, perduti e incoscienti” (III: 30,31,32)
Il terzo capitolo termina infine con un incoraggiamento da parte del Beato, riguardante il combattimento contro la cupidigia, la collera, il desiderio e tutto quello che “nasce dal fattore passionale, distruttore della scienza e della saggezza”:
“Conoscendo mediante ciò che supera la facoltà intellettuale, rinsaldando il Sé con il Sé, guerriero dalle grandi braccia, distruggi questo nemico che porta i colpi del desiderio e la cui vicinanza è pericolosa” (III: 43)
lunedì 24 dicembre 2018
Bhagavadgītā, parte V
Nel descrivere questa prassi spirituale Kṛṣṇa spiega come sia importante evitare di attaccarsi ai frutti dell’azione ma come sia assolutamente illegittimo e sciocco evitare la stessa, che è preferibile portare avanti anche con risultati mediocri:
«L'uomo che ha realizzato la sua identità spirituale non ha interessi personali nell'adempiere i doveri prescritti né ha motivo di non compiere tali doveri. Egli non dipende da alcuno per nessuna cosa. Si devono dunque compiere il proprio lavoro e le proprie azioni per dovere, senza attaccamento ai frutti dell'azione, perché agendo senza attaccamento si raggiunge il Supremo.» (III:18,19)
Affinché si possa svolgere con serenità e giustizia il proprio dovere il testo spiega come sia importante il distacco sia dai sensi sia dalle cose mondane, fuorvianti e futili, e dell’importanza di fissare la propria azione e il proprio pensiero sulla divinità.
In questo modo Arjuna comprende come non sia l’inazione a sciogliere i legami karmici che costringono l’anima a reincarnarsi in questa realtà senza fine (La ruota del Saṃsāra) ma come questo ruolo spetti all’azione libera e distaccata.
Cosi la rinuncia non diviene solo un elemento negativo e/o distruttivo, non prende la forma di un’ascesi rinunciante fine a se stessa ma, al contrario, si carica di positività e di devozione spirituale verso il Divino.
Prima di citare dei passi del testo riguardanti questi argomenti credo sia interessante notare come con questa narrazione, la Gītā (pur influenzata da queste correnti) prenda le distanze dalla rinuncia proposta dal Jainismo e dalla dottrina dell’Illuminato (Buddhismo); che al tempo, grazie ai loro meriti e alla decadenza del Brahmanesimo, videro un rilevante accrescimento della loro importanza numerica.
domenica 23 dicembre 2018
Bhagavadgītā, parte IV
«Così ogni volta che l'ordine (Dharma) viene a mancare e il disordine avanza, io stesso produco me stesso, per proteggere i buoni e distruggere i malvagi, per ristabilire l'ordine, di era in era, io nasco.» (IV:7,8)
Nella corrente Induista del Visnuismo si tende a considerare quest’ultimo (Visnu) come l’essere supremo.
Nella corrente definita Kṛṣṇaismo invece Kṛṣṇa non viene considerato come un’Avatāra ma è proprio lui ad essere considerato come l’essere supremo stesso (“The Supreme Personality of Godhead”).
Come ci ricorda lapidariamente il Bhāgavata Purāṇa (famoso testo Kṛṣṇaita del IX secolo d.C.):
“Kṛṣṇa è l'Essere supremo stesso”
Chiarito ciò possiamo continuare con l’analisi del secondo capitolo della gītā, a mio avviso uno tra i più belli e tra i più carichi di meravigliose allegorie dell’intera opera.
Il primo tema toccato da Kṛṣṇa è quello della trasmigrazione e dell’indistruttibilità dell’anima.
L’essere supremo spiega infatti al dubbioso Arjuna come lo stesso non debba preoccuparsi di scontrarsi in battaglia contro i suoi familiari, perché:
“Come in un dato corpo, infanzia, giovinezza, vecchiaia toccano in sorte a un’anima incorporata, cosi questa acquisisce successivamente altri corpi. Il saggio non si inganna su ciò” (II:13)
“Ora, riconosci come indistruttibile tutto ciò da cui questo universo è nato. Di ciò che non è immutabile nessuno potrebbe provocare la distruzione.
Questi corpi hanno una fine; lo spirito che vi si incarna è eterno, indistruttibile, incommensurabile.
E perciò combatti, discendente di Bharata” (II: 17,18)
“Alla maniera di un uomo che ha abbandonato le vesti usate e ne prende altre, nuove, l’anima incarnata, abbandonando il proprio corpo usato, si trasporta in altri che sono nuovi” (II:22)
Dopo questa spiegazione sul destino eterno e indistruttibile dell’anima Kṛṣṇa passa a ricordare ad Arjuna il suo dharma/svadharma, (qui intenso come dovere nei confronti della sua casta Kṣatriya di appartenenza e verso le leggi e i doveri dello Stato) e quali conseguenze nefaste gli spetterebbero nel caso di un’eventuale ritirata o fuga dallo scontro.
Citando i versi emanati dallo stesso Kṛṣṇa:
“E considera anche il tuo dovere di Stato: non dovresti, tremando, appartarti, poiché per l’uomo di guerra, secondo la legge sacra del suo Stato, non vi è bene superiore della battaglia. (II: 31)
“Ma se non ti impegni in questo giusto combattimento, rinunci al tuo dovere di Stato, all’onore e ti poni nel peccato.
E inoltre la gente narrerà il tuo imperituro disonore e, per l’uomo rispettabile, il disonore è peggio della morte” (II: 33,34)
sabato 22 dicembre 2018
Bhagavadgītā, parte III
Siamo proprio nella battaglia di Kurukshetra quando, nel primo capitolo dell’opera (chiamato “Angoscia di Arjuna”), il re cieco Dhṛtarāṣṭra si fa dire dal suo consigliere personale Sanjaya (al quale lo stesso Vyāsa aveva dato la magica possibilità di vedere e sentire tutto ciò che accadeva sul campo di battaglia) quali sono i guerrieri che affollano il luogo dello scontro e quanto grande fosse il valore e il merito di ciascuno di essi:
“Ascolta, o migliore fra gli Arya; i più ragguardevoli fra i nostri, capi del mio esercito, io te li nominerò, affinché tu ne prenda conoscenza” (I:7)
Dopo di ciò il cambio di tono è brusco ed immediato: il testo passa da toni di esaltazione e di affermazione di virtù alla più nera disperazione e sbigottito sgomento.
Come già accennato è Arjuna il responsabile di tanta tetraggine, il nobile principe infatti viene preso da vero e proprio sconforto quando si trova davanti ai suoi familiari e parenti, costretto secondo la legge a muovere guerra contro di loro ed estremamente rattristato da questo fatto.
Si rivolge cosi a Kṛṣṇa, per il momento creduto il suo auriga e principe del clan degli Yādava, con un brano che ritengo opportuno riportare in versione quasi integrale tanto è carico di simbolismo e di preziosi riferimenti:
“O Kṛṣṇa, quando vedo i miei desiderosi di combattere, pronti a farlo, mi vengono meno le membra, la mia bocca si dissecca, un brivido si impadronisce del mio corpo, mi si drizzano i peli, il mio arco Gandhiva mi cade dalle mani, la mia pelle è tutta ardente, non posso star dritto e la mia mente sembra presa da vertigine… (I:28,29,30)
Dunque è un’infamia per noi mettere a morte i Dhrtartastridi, nostri parenti; infatti come potremmo essere felici, o Madhava, dopo aver ucciso la nostra parentela, anche se col cuore ferito da cupidigia, essi non vedono che è un errore distruggere la propria famiglia, crimine mortale tradire i propri amici?
Come non sapremo distoglierci da questo crimine, noi che vediamo quale errore sia la distruzione della famiglia, o Janārdana!
Con la distruzione della famiglia perisce anche l’ordine sacro che deve reggere perennemente la famiglia: distrutto l’ordine, il disordine sicuramente domina la famiglia tutta.
Quando il disordine predomina, o Kṛṣṇa, le donne della famiglia si corrompono; quando le donne
sono corrotte, o figlio di Vrsni, si produce la mescolanza delle caste. (I: 37,38,39,40,41)
Per gli uomini la cui famiglia non è più retta dall’ordine, o Janārdana, v’è una dimora sicura all’inferno! L’abbiamo sentito insegnare tante e tante volte!” (I: 44)
Il capitolo si conclude con le parole di Sanjaya che afferma:
“Con tali parole Arjuna, in piena battaglia, lasciò cadere arco e frecce e si sedette in fondo al suo carro, la mente turbata dall’angoscia” (I: 47)
Il disagio di Arjuna quindi, non è solo un “semplice” dispiacere fattuale scaturito dal dover uccidere persone a lui care e familiari, ma è un vero e proprio simbolo del sovvertimento del Dharma (qui inteso ovviamente nella sua accezione Brahmanica e non Buddhista), ossia del sovvertimento di quell’ordine universale che regge l’armonia del mondo e che va mantenuto ad ogni costo; pena la vittoria delle forze del caos (Adharma) e la rovina che cadrebbe sopra l’intera civiltà.
Il mescolamento delle caste è giustappunto uno dei simboli della vittoria delle forze caotiche e dissolutrici, essendo la gerarchia castale una rappresentazione divina dell’ordine e dell’armonia.
venerdì 21 dicembre 2018
Bhagavadgītā, parte II
La guerra, come abbiamo già premesso, è il fulcro, il cuore palpitante e il terreno dove i protagonisti del Mahābhārata poggiano il loro essere, che sarebbe meglio definire il loro “Ātman”.
“La battaglia deve iniziare non prima dell'alba e concludersi esattamente al tramonto.
Non credo eccessivamente azzardata ma anzi, spero stimolante (con l’obbligo pressoché implicito di prendere le dovute precauzioni del caso e le dovute differenze di contesto) fare un breve paragone tra le regole del Dharma-Yuddha e la trattazione che il noto giurista, filosofo e politico teutonico Carl Schmitt analizza all’interno del suo saggio “la Teoria del Partigiano” (1963).
Qui il giurista di Plettenberg prende in analisi le regole della guerra Europea e la divisione tra quegli enti militari considerati “Regolari” (e che quindi muovono guerra conformandosi a regole specifiche, approvate a priori dagli stati Europei e nate dagli eventi dettati dal Congresso di Vienna del 1814-15 e dalla convenzione internazionale dell’Aja del 1907) e gli “Irregolari” ossia i partigiani, tutti colori che di tale regola si fanno beffe e che quindi non meritano nessun tipo di rispetto o pietà da parte degli eserciti regolari ; singolare in tal senso l’espressione che Napoleone Bonaparte usa per chiarire definitivamente questo concetto:
E sarà lo stesso Schmitt a dare un’appropriata definizione della situazione Europea del tempo:
Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"
giovedì 20 dicembre 2018
Bhagavadgītā, parte I
La Bhagavadgītā (traducibile dal sanscrito come “Canto del Divino” o “Canto del Beato”) è prima di tutto un patrimonio spirituale del popolo Indiano e dell’umanità tutta.
Vero e proprio gioiello dottrinale e amatissimo testo sacro dai fedeli del Sanātanadharma (termine sanscrito dentro al quale si racchiude la “Legge/Religione eterna”, che in occidente viene impropriamente chiamata sotto il nome di Induismo) viene da sempre considerata come “Il Vangelo dell’India”, proprio per simboleggiare la cardinale importanza di questo testo e dei contenuti in esso racchiuso.
L’opera, composta probabilmente in un periodo che va dal III secolo a.C. fino al I secolo d.C., è strutturata in 700 versi (chiamate “śloka”, ossia quartine di ottonari) divisi a loro volta in 18 canti (adhyāya), nella versione detta vulgata/settentrionale, collocata a sua volta nel VI parvan (Libro) dell’imponente epopea Indiana chiamata “Mahābhārata” (La grande storia dei discendenti di Bharata).
“Quest’opera dischiude gli occhi del mondo, accecati dall’ignoranza. Al pari del sole, il Bharata disperde le tenebre con la sua esposizione della religione, dei doveri, delle azioni, della contemplazione e così via. Come il plenilunio, diffondendo la sua luce smorzata, favorisce lo sboccio dei fiori di loto, cosi questo Purāṇa (Storia antica) in virtù del suo esposto allarga l’intelletto umano. La lampada della storia illumina “tutta la dimora del grembo della natura”
Vyāsa
E’ indispensabile, per una corretta inquadratura generale storica e letteraria, soffermarsi brevemente sulle mitiche vicissitudini del componimento.
La paternità del testo viene tradizionalmente riconosciuta a Vyāsadeva (o Vyāsa, traducibile proprio come “Il Compilatore”) facente parte di quella tradizione di saggi, cantori e veggenti che sta sotto il termine sanscrito di Ṛṣi o rishi.
E’ sicuramente lecito, visto l’ampio processo temporale di scrittura che accompagna l’opera, credere che sotto il nome di Vyāsa stia una denominazione generica piuttosto che una singola persona ma noi, proprio come il già citato R.K. Narayan, ci atteremo alla Tradizione.
mercoledì 19 dicembre 2018
Di capi e signori della guerra
È in questa spirito cameratesco, di condivisione, che sono nate le basi della grandezza degli uomini d’Eurasia, ciò che ha permesso la nascita di tribù e domini in lungo ed in largo per tutto il continente.
Il valore della gerarchia e di un sano rapporto fra eguali sono imprescindibili per la creazione di ogni società realmente sana, checche ne dicano modernisti e poveri di spirito di ogni risma.
Concludo con una frase a me cara, di una grande personalità del mondo antico:
(Socrate)
lunedì 17 dicembre 2018
Sulla possibilità, e sulla necessità, di un nuovo culto eroico
Ciò che balza più all’occhio della nostra epoca, ma, più in generale dell’ultimo millennio, è la mancanza di eroi e di un culto ad essi dedicato. Occorre quindi agire, nel nostro tempo e per il nostro tempo, perché questi culti vengano restaurati e ripresi per poi poter essere magari ampliati in futuro.
Ma da dove occorre iniziare, quindi? Come sempre da se stessi, dal proprio io e dal proprio rapporto con gli Dèi e la spiritualità, occorre aggiungere alle proprie ritualità anche il culto eroico di quanti ci hanno preceduto distinguendosi agli occhi degli uomini mortali e degli Dèi immortali, tentando di cogliere anche solo un barlume del loro insegnamento e tentando di fare proprio le qualità morali e spirituali di quegli uomini straordinari, siano stati essi figli degli uomini o di sangue divino (caratteristica, questa, comune a molti eroi della nostra bella terra, da Achille a Penda, passando per Perseo e ancora).
Non dimentichiamo che nei tempi antichi esistevano veri e propri culti dedicato ad eroi particolari, con tanto di templi ad essi dedicati, nell’ottica di una restaurazione dei culti antichi questi è un passo imprescindibile, oltre che in grado di avere un peso non indifferente nell’educazione delle future generazioni.
Mobilitatevi quindi è ricordati nei vostri riti anche gli eroi a voi più cari, narrate le loro gesti ai vostri amici e ai vostri figli perché queste siano ricordate in eterno e cercate di applicare i loro insegnamenti. Anche questo è seguire la buona via.
domenica 16 dicembre 2018
Santa Claus, Odino, Befana e Holda/Perchta
Si raccontava inoltre che insieme a questi spiriti di guerrieri egli solcasse i cieli e le dimore degli uomini: questo evento veniva chiamato Caccia Selvaggia.
In epoca cristiana, gli spiriti dei guerrieri divennero spiriti dei morti anzitempo, dei morti per morte violenta, dei suicidi e dei bambini non battezzati. Da qui uno dei suoi altri nomi del periodo medievale: Processione dei Morti.
Essendoci un'ambiguità tra chi raccoglieva gli spiriti dei morti, Odino o le Valchirie, questo portò a un'ambiguità su chi era a capo della Caccia Selvaggia: una figura maschile o femminile.
Per questo motivo in periodo medievale ritroviamo nel folklore Dee, figure femminili quindi, come guide di tale fenomeno. Pensiamo ad esempio a Holda e a Perchta, personaggi del folklore medievale probabilmente derivanti dalla Dea Frigg o dalla Dea Freya del pantheon precristiano.
Queste figure vennero poi assimilate a Diana e ad Hera della mitologia classica e così portarono alle schiere di donne e spiriti associate a Diana e ad Erodiade (personaggio della Bibbia che assimilò Hera, e che venne in seguito chiamata in Toscana "Aradia", in Veneto "Redodesa", in Sardegna "Araja" o "Sa Rejusta", in Romania "Arada" o "Irodeasa").
Il passaggio di questa schiera spesso era preceduto dal lasciare offerte di cibo e bevande, solitamente sul tavolo della cucina o comunque vicino al focolare domestico.
In cambio dell'offerta di cibo, il leader o la leader della Processione avrebbe ricompensato con benedizioni di abbondanza e fortuna l'intera casa e i suoi abitanti.
Questa usanza, durante il periodo natalizio, si unì a quella di scambiarsi regali e da qui deriva il fatto che in cambio dell'offerta di cibo (che oggi sono latte e biscotti per Babbo Natale) si riceve un regalo.
Prima della cristianizzazione, i popoli germanici celebravano un evento di metà inverno chiamato Yule.
Con la cristianizzazione dell'Europa germanica, numerose tradizioni del periodo di Yuletide furono assorbite nelle celebrazioni del Natale moderno. Durante questo periodo si diceva che aumentassero di frequenza fenomeni soprannaturali e spettrali, compresa la Caccia Selvaggia.
Il capo della Caccia Selvaggia è, come abbiamo detto, il Dio Wotan od Odino, recante, tra i suoi molti nomi, quelli di Jólnir, che significa "colui di Yule", Jólfaðr, che vuol dire "padre di Yule", e Langbarðr, che significa "barba lunga".
Il ruolo di Woden durante il periodo di Yuletide si crede abbia influenzato la figura di San Nicola (originariamente un famoso vescovo cristiano del IV secolo che visse nella città bizantina di Mira in Turchia) in sue numerose caratteristiche, tra cui la lunga barba bianca e il suo cavallo grigio per le cavalcate notturne (che viene paragonato al cavallo di Odino Sleipnir) o la sua renna nella tradizione nordamericana.
La folklorista Margaret Baker sostiene che "l'aspetto di Santa Claus o Babbo Natale, il cui giorno è il 25 dicembre, deve molto a Odino, il vecchio portatore di doni del nord con la mantella azzurra, ammantata di bianco, che cavalcava il cielo d'inverno con il suo destriero a otto zampe Sleipnir, visitando il suo popolo con doni. [...] Odino, trasformato in Babbo Natale, poi Santa Claus, prosperò assieme a San Nicola e al Bambin Gesù, divenne un attore di primo piano sul palcoscenico natalizio."
Sempre i popoli germanici, infine, usavano fare sacrifici "appendendo" agli alberi le carcasse delle vittime sacrificate. Probabilmente proprio da un'attenuazione di questa usanza deriva quella di addobbare un albero a Natale.
Articolo dalla pagina Facebook “Stregoneria Italiana”, che consigliamo senza riserve a chi volesse intraprendere un percorso di stregoneria tradizionale; hanno anche un blog, che potete trovare a questo indirizzo: https://tradizioneitaliana.wordpress.com/
venerdì 14 dicembre 2018
Le vie di Wodanaz pdf speciale tribalismo
https://drive.google.com/file/d/1WMjh7ezmKPlmHrVcOOM3UFvFENeO_FFl/view?usp=sharing
mercoledì 12 dicembre 2018
Le Tesmoforie
martedì 11 dicembre 2018
Aldilà
In Ásgarðr (i.e. “terra degli Asi", ossia degli Dèi e quindi slegata dal mondo dove noi risiediamo che è detto Miðgarðr) vi sono due luoghi dove i caduti in battaglia dimorano in attesa del Ragnarök e sono la 'Valhalla' (i.e. “sala dei caduti”) di Óðinn ed il 'Fólkvangr' (i.e. “campo delle genti/eserciti”) di Freyja. Freyja è solita scegliere per sé la metà dei caduti sul campo di battaglia, i restanti vanno ad Óðinn.
Nel Ragnarök gli Æsir avranno bisogno di individui che si sono distinti in battaglia per la difesa di Ásgarđr ed è per questo che nella Valhalla e nel Fólkvangr vi giungono solo coloro che sono morti con onore marziale, ossia l'onore che solo le armi e la guerra possono conferire.
Per quanto riguarda coloro che non muoiono sul campo di battaglia vi sono le sale di Gimlé site nella parte meridionale del Víðbláinn (i.e. “cielo remoto”, terzo cielo della cosmologia scandinava dove dimorano i Ljósálfar ossia gli elfi chiari) citate nella 'Völuspa' (i.e. “profezia della veggente”, Edda, sopravvissute al Ragnarök le sale di Gimlé diverranno residenza escatologica dei giusti di tutti i tempi) e l'Helheimr (i.e. “regno di Hel”).
Nell'Helheimr i giusti ed i rei di delitti infamanti sono divisi dalla stessa Hel la cui parte di volto non tumefatto è rivolta verso i giusti mentre l'altra verso i rei di delitti commessi in aperta opposizione alla legge degli Dèi; i defunti vengono accolti nel ‘Gnipahellir' (i.e. “recesso di Gnipa”, anfratto che conduce all’Helheimr) dal lupo Garmr la cui pelliccia è rossa di sangue; superato questo terribile guardiano i defunti seguono il corso del ‘Gjöll’ (i.e. “Ululante”, fiume sotterraneo sulle cui acque corrono lame) per giungere al Gjallarbrú (i.e. “ponte sul Gjöll”, ponte dorato che sovrasta il precedente fiume) presidiato dalla fanciulla di nome Móðguðr (i.e. “furia guerriera”) in quanto porta dinanzi all’Helgrind (i.e. “cancello di Hel”).
L’Helheimr viene erroneamente descritto come un luogo freddo ed inospitale; questo errore frequente è legato al fatto che spesso l’Helheimr viene confuso con il regno che lo contiene, il ‘Niflheimr’ (i.e. “terra delle nebbie/gelo”, ultimo dei nove mondi). Così recita un passo del ‘Vafþrúðnismál’ (i.e. “Il Discorso di Vafþrúðnir”, Edda Poetica):
“[…] nío kom ek heima fyr Níflhel neðan, hinig deyja ór heljo halir.”
“[…] giunsi nei nove mondi fino al Niflhel in basso, presso Hel, dove vanno i morti.”
C’è da dire che i luoghi dove dimorano i rei non sono per nulla confortevoli; vi è persino una sorta di spiaggia chiamata ‘Nástrǫnd’ (i.e. “lido dei cadaveri”) dove vengono raccolti gli omicidi i quali vengono divorati dal maligno serpe ‘Níðhöggr’ (i.e. “colui che sferza con malizia”).
La sezione dove sono accolti i giusti è invece più accogliente, non è certo la Valhalla ma alla fin fine non è così male; ricordiamo che nell'Helheimr vi dimora Baldr il valoroso, figlio di Óðinn.
lunedì 10 dicembre 2018
Contro gli imperi
domenica 9 dicembre 2018
Le pietre forate
venerdì 7 dicembre 2018
Origine delle Rune,l'ipotesi etrusca -parte seconda
L’iscrizione tipica infatti diventa la forma “nome del dedicante, offre, oggetto, esercizio grammaticale, Reitia, simboli sacri” esattamente come testimoniato per le rune da numerosissimi reperti. Le forme contratte non sono comunissime nella scrittura votiva in altri alfabeti, e ancora meno gli esercizi grammaticali (evidentemente dedicati a un dio eloquente a cui il dedicante desidera mostrare la sua abilità).
Colpisce particolarmente come il verbo votivo usato nella maggior parte di queste iscrizioni sia alu, esattamente come per le iscrizioni runiche che sembrano averlo mutuato intatto, insieme ad alcune sequenze di lettere utilizzate come esercizio grammaticale, che si ritrovano immutate nei reperti di amuleti runici più antichi, probabilmente incisi da germani che avevano visitato questi templi e avevano riportato con sé la sintassi votiva tipica dei santuari di Reitia.
Fig 2 – Iscrizione runica “Alu” su un bratteato
La mappa dei ritrovamenti Etruschi nell’Europa centrale dimostra come, dal nord Italia, questo culto e questo alfabeto si siano diramati oltre le Alpi verso l’attuale Francia, Austria, Slovenia – sono state rinvenute iscrizioni di questo tipoanche in scavi di accertata origine Celtica come quelli di Magdalensberg.
Fig 3 – Mappa dei ritrovamenti etruschi in Europa
Altra testimonianza a favore di questa tesi sono due reperti presenti al Kunsthistoriches Museum di Vienna, e che apparentemente hanno ispirato l’idea dell’origine Etrusca delle rune: in questo museo sono conservati gli Elmi di Negau, di origine etrusca e datati al 400 AC. Sono stati rinvenuti in quella che ora è la Slovenia e presentano due incisioni del tutto differenti: Negau A riporta un’iscrizione Celtica, mentre Negau B riporta un’iscrizione nell’alfabeto etrusco traducibile come “Harigast il sacerdote”, dove Harigast è un nome tipicamente germanico e testimonia che, fra le tribù germaniche, qualcuno doveva essere pratico dell’alfabeto etrusco.
Personalmente, ritengo questi elmi rappresentino benissimo la commistione culturale che ha portato all'origine delle rune.
Tab. 2 – Tabella comparativa fra le varianti Nord-Etrusche e il Futhark
In particolare, è evidente come l’orientamento verticale delle lettere L ed U sia mantenuto fra le forme più comuni dell’alfabeto Nord-Etrusco e di quello Runico.
A livello vocale, i linguisti concordano sul fatto che le lettere b, t e k presentino un evidente parallelismo tra il Futhark, l’alfabeto greco e quello latino; mentre la pronuncia di p, d e g si discosta molto dalle forme mediterranee, laddove l’alfabeto Nord-Etrusco aveva adottato dei grafemi che permettessero di distinguere fra questi due tipi di pronunce.
Sia a livello fonetico che grafico la c Nord-Etrusca si ritrova nella k del Futhark, ed è interessante notare come nell’alfabeto Sud-Etrusco infine si affermi la pronuncia come C e in quello Nord-Etrusco come K, esattamente come Kenaz.
La X nord-Etrusca traslittera con ogni probabilità come g, mantenendo la grafia in Gebo.
Allo stesso modo, la j è rappresentata nel Nord-Etrusco da due linee parallele, successivamente piegate in una forma simile a Jera.
Fig. 5 – L’evoluzione di Jera
La V dell’alfabeto Nord-Etrusco deriva dalla Vau greca, già caduta in disuso al momento della diffusione transalpina, e veniva utilizzata nella forma VH per indicare la f e distinguerla dalla w (indicata semplicemente con V), ma nel tempo V passò ad essere utilizzata per indicare sia w che f. La somiglianza con Fehu è lampante.
Fig. 6 – L’evoluzione di Vau/Fehu
La e Nord-Etrusca appare ruotata in vari reperti, fra cui l’elmo di Negau, nella stessa rotazione di Ehwaz.
La a Nord-Etrusca, che presenta marcate somiglianze con Ansuz, deriva da una forma arcaica che si ritrova anche nel latino ma già caduta in disuso ai tempi dei primi reperti runici.
La h Nord-Etrusca presenta, nel tempo, una semplificazione da 3 a 2 bracci, come mantenuto in Hagalaz.
Figg. 7 e 8 – L’evoluzione di Ansuz e Hagalaz
Anche la disposizione delle lettere e delle parole nelle iscrizioni e la presenza di alcuni “caratteri speciali” presenta evidenti parallelismi.
In entrambe le culture sono presenti lettere o intere frasi invertite, specchiate o capovolte, scritte da destra a sinistra come da sinistra a destra, in scrittura bustrofedica (ovvero continuando fino al margine del supporto e scendendo al rigo successivo a nastro, invertendo l’ordine di scrittura).
Fig. 9 – Pietra runica di Rök con vari esempi di inversioni, scrittura bustrofedica, un motivo fishbone, rune specchiate e bindrune
In entrambi gli alfabeti manca la differenziazione ortografica (le “maiuscole” runiche non sono utilizzate come le maiuscole greche o latine, piuttosto come marker di una parola più significativa, per questo è tra virgolette) anche nella spaziatura, che si presenta talvolta in forma interpuntata nelle stesse modalità nelle due culture.
Allo stesso modo, parallelamente nel tempo i due alfabeti preferirono la scrittura destroversa a quella sinistroversa.
I simboli alberiformi (o fishbone) tipici di alcune iscrizioni votive runiche, si ritrovano nelle iscrizioni votive del Nord-est Italia.
So che sono stato appeso ad un’albero
in balia del vento
Per nove lunghe notti,
Ferito da una lancia, votato ad Odino
Io a me stesso,
Su quell’albero le cui radici
nessun uomo conosce.
Bibliografia e approfondimenti:
. Bernard Mees - The North Etruscan Thesis of the Origin of the Runes (da cui è tratta la tabella comparativa, la mappa dei reperti etruschi e le derivazioni linguistiche contenute nell’articolo)
. Mindy MacLeod - Runic amulets and magic objects
giovedì 6 dicembre 2018
Origine delle Rune, l'ipotesi etrusca - parte prima
Una teoria particolarmente affascinante e documentata vede l’origine del Futhark nell’alfabeto Nord-Etrusco, con cui effettivamente sono evidenti notevoli somiglianze già ad una prima occhiata.
E’ necessario premettere che l’alfabeto Nord-Etrusco deriva dall’alfabeto Etrusco, che ha notoriamente subito influenze greche nella sua genesi; l’alfabeto greco a sua volta raccoglie influenze mediorientali, per cui chi ravvisa nelle rune somiglianze con l’alfabeto armeno o greco sta vedendo bene: le influenze Indoeuropee sono articolate e complesse.
Semplicemente, a mio parere, l’alfabeto Nord-Etrusco è quello da cui l’alfabeto runico prende le sue discendenze più dirette.
Ritengo che la via seguita dalla diffusione degli alfabeti, in questo caso, sia una delle più ovvie: la via dello scambio economico.
Nel Nord-Est dell’Italia era diffuso, già nei secoli AC, il culto di Reitia: questa divinità femminile deriva direttamente dall’Artemide greca (nella sua connotazione di divinità eloquente), ed era venerata principalmente dagli spartani.
Il culto è arrivato nel Nord Italia grazie al commercio lungo i centri economici dell’Adriatico: traccia di questo processo si ritrova nella somiglianza fra l’alfabeto Messapico e tanto l’alfabeto runico quanto quello greco (la cultura autoctona Salentina è riconosciutamente di derivazione greca, molto più che romana).
Tab. 1- Alfabeto messapico
I santuari dedicati a Reitia, associata con l’eloquenza e la scrittura, spaziano dalla zona del Po all’attuale Austria, mostrando una mappa geograficamente favorevole allo scambio culturale fra le tribù germaniche (in particolare, acconta per questo periodo la presenza sia di Cimbri che di Teutoni nell’area, come ulteriore testimonianza di una trasmissione da sud a nord e di un’influenza Celtica che poi spazierà anche nel nord Italia, ricamando influenze sulle tribù locali che ancora andranno ad influenzare quelle germaniche, e ne verranno influenzate a loro volta).
Per quanto riguarda la diffusione ancora più a nord, nei paesi scandinavi, è probabilmente passata per la Danimarca. Intorno al 200 DC, la Danimarca era al centro di un fiorente commercio che univa sud e nord Europa, come dimostrato dai ritrovamenti di beni di lusso importati da Roma e dalle numerose iscrizioni runiche nei reperti dell’epoca (un aumento della scrittura è spesso collegato ad un aumento degli scambi economici, di cui si tiene traccia scritta).
E’ però peculiare come queste iscrizioni non siano di natura contabile, ma vadano a designare la proprietà (di beni di lusso o armi, in molti casi), oppure rappresentino iscrizioni in oggetti votivi.
Personalmente, ritengo che questo utilizzo sia indicazione con l’origine Etrusca delle rune, poichè Reitia vanta una doppia connotazione come divinità guerriera e divinità eloquente, caratteristiche che poi ritroveremo in Odino.
L’associazione con il prestigio e la ricchezza rimarrà una caratteristica tipica delle iscrizioni runiche durante tutta la storia del loro utilizzo, come testimoniato dalla distribuzione delle pietre runiche in Scandinavia, concentrate nelle aree economicamente più ricche.
lunedì 3 dicembre 2018
Teodorico, parte IV
Fra gli altri collaboratori di Tedorico spiccano i due romani Simmaco e Boezio; anche questi avevano in precedenza servito Odoacre. Pur essendo stati irreprensibili funzionari nel 523 i loro rapporti con Teodorico si ruppero; improvvisamente scoppiò quello che potremmo definire ‘il processo del secolo VI’.
Il tutto iniziò quando il referendario Cipriano accusò di tradimento il patrizio Albino dinanzi a Teodorico; Albino si era reso colpevole, secondo Cipriano, dell’aver spedito a Giustino I, imperatore della Pars Orientis, lettere di calunnia ai danni Teodorico e di aver cospirato ai danni di quest’ultimo.
Boezio prese le difese di Albino facendo cadere in un primo momento le accuse di Cipriano; questi di risposta spinse suo fratello Opilione ad accusare Boezio di complicità nel tradimento. In Senato si costituì un tribunale speciale che condannò a morte di Boezio con le accuse di tradimento, spiritismo e magia; questi venne rinchiuso in carcere dove scrisse la sua più celebre opera che fu letta da Dante Alighieri quasi otto secoli più tardi, la “Consolatio Philosophiæ”. Boezio fu poi giustiziato il 23 ottobre del 524 assieme a Simmaco il quale aveva cercato di difenderlo dalle accuse di Albino segnando così la sua condanna.
Nel 523 il figlio di Cassiodoro III, Flavio Cassiodoro, venne nominato ‘magister officiorum’ negli ultimi anni di regno di Teodorico succedendo così a Boezio; questi oltre a rimanere a capo dell’amministrazione gotica in Italia per ben quarant’anni fu anche un grande storico noto per vari scritti quali le “Variæ” (i.e. raccolta di documenti ufficiali redatti fra il 522 ed il 538) sui quali è stato possibile basare la ricostruzione delle strutture amministrative del regno gotico in Italia come pure la sua storia.
Alla stregua di ciò che accadde sotto Flavio Odoacre, negli anni in cui regnò Teodorico la Chiesa di Roma non venne perseguitata; questi garantì la libertà di culto seppur tolse al clero molte immunità.
I rapporti con la Chiesa di Oriente e con l’imperatore Giustino I si incrinarono quando quest’ultimo, fervente niceano, dopo aver abrogato l’Henoticon di Zenone promulgò un editto contro l’arianesimo del quale Teodorico era fervente seguace; questi, piccatosi per l’affronto subito, ordinò al papa Giovanni I di recarsi a Costantinopoli con lo scopo di convincere Giustino I a ritirare il suddetto editto.Non contento dell’esito dell’ambasceria, Teodorico decise di imprigionare il pontefice che morì in catene nel 526.
Non fu però questo il primo screzio fra Teodorico e Bisanzio. Nel 504 i Lepidi della Pannonia rappresentavano una grave minaccia per la Pars Orientis e per questa ragione Teodorico inviò truppe ostrogote le quali, dopo aver scacciato i Lepidi e fortificato la regione, ricevettero l’ordine da Costantinopoli di abbandonare la Pannonia. La crescente tensione fra goti e bizantini sfociò nel sangue quando un contingente composto da Eruli, Goti ed Unni invase la Mesia; ad Horrea Margi vi fu uno scontro con le truppe bulgare capitanate dal magister equitum Sabiniano; questi venne sconfitto e preso prigioniero - secondo altre fonti riuscì a fuggire.
Teodorico negli ultimi anni di vita trasferì la sua residenza a Pavia e fu proprio lì che in punto di morte, non avendo figli maschi, nominò suo successore il nipote Atalarico, figlio di Amalasunta.
Teodorico morì il 30 Agosto 526; Amalasunta assunse la reggenza dacché il figlio era ancora minorenne.
La romanizzazione dei goti e la cattiva educazione impartita al giovane sovrano scatenarono una serie di assassinii; si aprì così una nuova stagione di guerre e complotti che caratterizzarono il panorama italiano durante il Medioevo tutto, a riprova della veridicità del detto "individui fragili e deboli creano tempi avversi".
domenica 2 dicembre 2018
Teodorico, parte III
Negli anni di poco successivi al 494 venne approvato un ‘istitutum’ legislativo dai caratteri tipicamente germanici che permetteva ai contadini vittima di schiavismo di uccidere il proprietario terriero come atto di legittima difesa; numerosi furono i casi ingiusti di assassinii nei confronti dei proprietari latini che una volta deceduti perdevano i loro terreni che andavano a finire nelle mani di goti o di loschi figuri che si erano resi “complici” del malfatto.
Crisi e carestie successive non favorirono la distensione fra occupati ed occupanti accrescendone di molto il malumore; solo un sovrano di un certo livello avrebbe potuto adempire al compito che il fato gli aveva assegnato senza incorrere nel rischio di una guerra civile.
Teodorico non cambiò l’amministrazione statale romana né il sistema di gestione della burocrazia.
- La penisola rimase divisa in diciassette province sotto l’occhio attento altrettanti presidi che dipendevano dal Prefetto del pretorio che risiedeva a Ravenna, capitale del regno, il quale faceva rapporto direttamente al re.
- Le province di frontiera vennero affidate a generali goti che si erano distinti durante la guerra, i quali assunsero il titolo di ‘comites’ (i.e. “conti”). I loro compiti non erano solamente militari ma anche civili e giudiziari.
- Il senato subì una drastica riduzione di personale ed venne posto, come gli stessi funzionari della città di Roma, sotto il controllo del prefetto dell’Urbe che era solito dirigere l’amministrazione e la giustizia nella città.
- La figura del capo dell’esercito andò a coincidere con la figura del sovrano e gote divennero le sue guardie del corpo come pure gli alti funzionari militari.
A guerra finita i militi ostrogoti ottennero dei campi da coltivare; si allontanarono così sempre di più dalla vita nomadica sino a divenire agricoltori come i legionari romani di un tempo.
Ciò dipese dalla riforma del Prefetto del pretorio Felice Liberio che all’epoca ricopriva il ruolo di Ministro delle Finanze; la riforma inizialmente assegnò un terzo delle terre confiscate ai soldati di Odoacre ai goti, successivamente nel computo delle terre rientrarono anche quelle dei privati romani.
Questi cambiamenti radicali accrebbero la diffidenza fra i due popoli; da una parte vi erano i vincitori che reclamavano la terra conquistata e dall’altra i vinti, personificazione vivente dell’epoca passata e di quell’idea di Impero di cui sia i barbari che i latini volevano farsi continuatori.
sabato 1 dicembre 2018
Teodorico, parte II
L’imperatore Zenone Flavio che nel 474, anno della morte di Teodemiro, succedette a Leone I il Trace decise di trattare con gli ostrogoti i quali in cambio del possesso della Macedonia deposero le armi sino al 478 anno in cui invasero la Scizia.
I comportamenti ambigui e imprevedibili spinsero l’imperatore a nominare nel 484 Teodorico console nella speranza di placare la sua sete di conquista; fu però un fallimento politico dacché solo due anni dopo gli ostrogoti guidati dal loro re invasero la Tracia ed assediarono senza risultati la stessa Bisanzio. A quel punto Zenone invitò Teodorico ad occupare la penisola italiana governata dal generale Odoacre, inviso alla corte di Bisanzio per il forte consenso che aveva racimolato fra le fila del senato romano e fra un'ampia fetta della popolazione tanto da ricevere il titolo di ‘rex gentium’ (i.e. “sovrano delle genti”); lo scopo era quello di indebolire in un sol colpo le due più grandi minacce che gravavano sulla corte di Bisanzio, Teodorico ed Odoacre. Teodorico accettò volentieri e nel 488 un intero popolo composto da 250.000 persone di cui 50.000 mila in assetto da guerra emigrò verso la penisola italiana con qualche mercenario greco di rinforzo per conquistarla e crearsi un nuovo futuro.
Giunto ai confini della Dacia Teodorico chiese il permesso di transito ai Gepidi ma questi si opposero fermamente; dopo il loro rifiuto li sconfisse, distrusse i loro accampamenti e arruolò fra i suoi ranghi i pochi superstiti.
L’anno seguente valicò le Alpi Giulie e giunse finalmente in Italia dove Odoacre non si lasciò trovare impreparato; egli aveva costruito preventivamente fortificazioni e scavato trincee sulle rive dell’Isonzo. Il 28 Agosto 489 gli ostrogoti si scontrarono con l’esercito nemico asserraglia sull’Isonzo e lì lo sconfissero; la battaglia di Verona del 30 Settembre 489 si risolse con il medesimo epilogo.
Odoacre spaventato dall’esito delle ultime battaglie si dette alla fuga; optò in un primo momento per Roma ma dovette rinunciarvi data la cattiva fama che aveva tra i romani che lo detestavano. Dopo aver devastato il Lazio Odoacre si rifugiò a Ravenna.
Teodorico a quel punto occupò Milano dove le retrovie avversarie avevano trovato riparo e lì i seguaci di Odoacre vennero fatti prigionieri. Curioso è il caso del generale delle truppe nemiche Tufa che chiese di essere arruolato fra i ranghi ostrogoti; una volta a capo di quel contingente gotico che aveva il compito di assediare Ravenna, Tufa si rimise agli ordini di Odoacre causando la morte e la cattura di molti dei suoi soldati e facendo vacillare le sorti del conflitto.
A quel punto Teodorico lasciò Milano e partì per finire il compito dell’impostore; ammassò le truppe in un ampio fossato intorno alle mura di Ravenna che sembravano imprendibili e lì attese. Con l’assedio di Ravenna ancora in corso, Teodorico partì per Roma, la città eterna, dove venne accolto
come liberatore, per poi continuare verso il Mezzogiorno che pacificamente gli si sottomise. Dopo quasi tre anni di scontri, con il suo porto ostruito da un blocco navale, divorata dalla fame Ravenna capitolò il 25 Febbraio 493. Venne firmata la pace e Odoacre invocò clemenza e consegnò il proprio figlio Telano come ostaggio.
Il 5 Marzo 493 Teodorico, nuovo regnante di ciò che rimaneva della Pars Occidentis dell'Impero, sfilò a cavallo in città tra il popolo entusiasta; ci furono festeggiamenti ed un banchetto in onore dello stesso Odoacre che terminò con l’uccisione di quest’ultimo e dei i suoi parenti. Secondo alcuni cronachisti a lui coevi, Odoacre venne ucciso perché cercò di corrompere i luogotenenti gotici mentre stando a quanto scrisse Procopio perché propose a Teodorico di governare insieme a lui.
In ogni caso ciò dimostra che la sfacciataggine non paga.
venerdì 30 novembre 2018
Teodorico, parte I
Nel 458 Leone I il Trace, imperatore della Pars Orientis, dovette far fronte all’invasione dell’Illiria (i.e. parte occidentale della penisola balcanica) ed al suo successivo saccheggio da parte degli Ostrogoti di re Teodemiro degli Amali; per evitare che questi invadessero anche la Tracia, Leone I gli offrì una cospicua somma di denaro e, raggiunta così la pace, i due popoli si scambiarono come da tradizione gli ostaggi.
Fra gli ostaggi ostrogoti vi era anche il figlio del re chiamato Teodorico (i.e. Theuderik); questo nome che significa “signore delle genti” non poteva essere più adatto. Egli nacque in un accampamento unno dall’unione fra la cristiana Erelieva e Teodemiro quando entrambi erano ancora sotto il comando di Attila; il piccolo aveva solo sette anni quando venne scambiato come ostaggio ma sapeva già cacciare e cavalcare, abilità apprese dai migliori guerrieri goti. Nelle sere della sua breve infanzia i cantastorie gli narravano i miti nordici e gli leggevano la Bibbia gotica (i.e. la traduzione della Bibbia in goto con la quale l’evangelizzatore e saggio Wulfila convertì i Goti all’arianesimo).
Da quanto detto traspaiono le ragioni del perché Teodorico fosse tanto devoto all’arianesimo, dottrina cristologica del presbitero Ario secondo la quale la natura del Cristo era inferiore a quella di Dio in quanto quest’ultimo non poteva condividere la propria essenza divina. Doveroso specificare che per i Goti il Cristo era più un eroe della Valhöll che altro; ciò è forse dovuto alla capacità che questi avevano di assimilare le culture con cui venivano in contatto pur mantenendo intatto quel retaggio indoeuropeo che li contraddistingueva.
Costantinopoli, la più grande civitas della Pars Orientis dell’Impero, era tutt’altra cosa rispetto alle valli a cui era abituato il giovane Teodorico ché al posto dei carri e dei greggi la città traboccava di marmi, statue e mercanti; nonostante questo egli si ambientò rapidamente e l’imperatore Leone I lo prese in simpatia fin da subito. Lo fece alloggiare a corte in un appartamento affacciato sul Bosforo e lo iscrisse nella migliore scuola dell’impero nella quale imparò l’algebra, l’astronomia e il galateo seppur rimase analfabeta. Finita la scuola e compiuti i quindici anni debuttò nella società bizantina. Oltre al gotico, Teodorico parlava un buon greco e masticava un po’ di latino e grazie a questa sua versatilità condusse una vita agiata frequentando sia la corte che i popolani.
Riscattato dal padre a diciotto anni, Teodorico trovò la Pannonia minacciata dai Sarmati; all’insaputa di Teodemiro radunò un piccolo esercito di seimila uomini per mettere fine al problema. Tornò vittorioso con la testa del re nemico su una picca e poco dopo venne nominato re.
martedì 27 novembre 2018
Nerthus
Partiamo da un assunto: questa Dea viene tradizionalmente associata alla madre terra, sarebbe quindi la Dea madre per antonomasia il cui culto è attestato fin dal paleolitico.
Alcune ricostruzioni hanno accostato il nome di Nerthus a quello di Njörðr, arrivando addirittura ad ipotizzare che quest’ultimo fosse un Dio ermafrodita o in grado di cambiare sesso a proprio piacimento, un’altra teoria, che è anche quella del sottoscritto, vede in Nerthus la prima sposa di Njörðr, amante e sorella dalla quale si dovette separare per entrare a far parte delle schiere degli Asi.
Essa sarebbe quindi la madre degli Dèi Freyr e Freyja
Essa è spesso accostata alla figura di Jǫrð, prima sposa e amante del padre del tutto e madre di Þórr.
Del culto ad essa tributato sappiamo grazie a Tacito che, nel suo Germania, ce ne ha parlato in maniera piuttosto esauriente, concludo quindi l’articolo con le sue parole invitandovi, qualora praticaste, a ricordare anche questa Dèa arcaica nei vostri sacrifici.
“Dopo i Longobardi vengono Reudigni, Auioni, Angli, Varni, Eudosi, Suardoni e Nuitoni, tutti ben protetti da fiumi e foreste. Non c'è nulla di importante da dire riguardo a questi popoli tranne il fatto che tutti adorano Nerthus, che rappresenta la Madre-Terra. Credono che lei si interessi degli affari degli uomini e che li guidi.
Si festeggia ovunque quando decide di fare l'onore di presentarsi. Nessuno va in guerra, nessuno usa armi, si vive in pace e quiete finché la dea, avendone avuto abbastanza della compagnia degli uomini, viene infine riaccompagnata dallo stesso sacerdote presso il suo tempio. Dopodiché il carro, il drappo e, se mi credete, la divinità stessa fanno il bagno in una misteriosa vasca.
Questo rito viene svolto da schiavi che, appena finito il compito, vengono affogati nel lago. In questo modo il mistero viene mantenuto, e rimane la beata ignoranza riguardo al suo aspetto, concesso solo a chi è destinato a morire”
- Tacito, Germania
lunedì 26 novembre 2018
L’uomo di Neanderthal, antico abitante d’Eurasia parte quarta
Arriviamo ora alla conclusione di questo articolo, non ci rimane che una sola domanda alla quale rispondere: che fine ha fatto questo nostro antenato? Per più di un secolo studiosi di ogni tipo hanno analizzato la questione formulando decine di ipotesi che potessero spiegare la repentina sparizione di questo protagonista della preistoria euroasiatica, fino a quando, nel 2010, il genetista Svante Pääbo non ha risolto la situazione analizzando un campione di DNA mitocondriale proveniente dallo scheletro di Mettmann.
Il Neanderthal non si è mai estinto, il suo DNA vive in noi.
Tutti gli abitanti nativi dell’Eurasia e delle Americhe infatti portano nel proprio corredo genetico una percentuale variabile (generalmente da 1 al 5%) di DNA Neanderthal.
L’ipotesi più probabile, ad oggi, è infatti che l’uomo sapiens, più numeroso, abbia lentamente “assorbito”, nel corso delle svariate migliaia di anni durante le quali vi è convissuto, il suo meno numeroso cugino.
Come sia avvenuto questo contatto rimane un mistero, ma è lecito sospettare che sia avvenuto in maniera “mista” sia pacificamente che per mezzo di eventi “bellici”.
Questo è quanto, ad oggi, ci è dato sapere sui nostri arcaici antenati che un tempo, prima dell’arrivo dell’uomo sapiens, vissero e prosperarono nel nostro amato continente per centinaia di migliaia di anni.
Anche a loro, come a tutti gli antenati, va tributato il giusto rispetto, ricordatelo quindi, di tanto in tanto, nei vostri sacrifici.