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venerdì 9 luglio 2021

Kalevala. Una breve presentazione - parte II

 «Il modo in cui i canti alla base del Kalevala venivano recitati trova le sue radici nella tradizione sciamanica dei Finnici: un primo cantore e un secondo cantore battono il tempo con le mani eseguendo i canti in canone, accostandovi formule magiche e incanti. È questo un uso che ricalca - tranne che nel nome dei due praticanti - quello delle figure più arcaiche dello sciamano e del suo aiutante. Le consuetudini sciamaniche storicamente si costruivano attorno all'uso di tamburi e al canto, due peculiarità che sono proprie dei laulajat[5] finlandesi»[6]. Gli stessi protagonisti dei runi del Kalevala erano sciamani e cantori, primo fra tutti Väinämöinen a cui si deve la fabbricazione del secondo kantele[7], su ispirazione del primo kantele realizzato dal fabbro Ilmarinen. Si può dire che per quei cantori rurali con cui Elias Lönnrot entrò in contatto nel corso dei suoi viaggi, il recitare gli antichi canti avesse ancora una forte connotazione sacrale. È importante ricordare che spesso la figura del cantore kareliano collimava spesso con quella di guaritore-consigliere.
 
Con il suo sesto viaggio, da lui compiuto sul finire del 1834, Elias Lönnrot concluse la sua prima raccolta di canti che pubblicò fra il 1835-1836 in due volumi con il titolo di Kalewala, taikka Wanhoja Karjalan Runoja Suomen Kansan muinoisista ajoista (i.e. Il Kalevala, ossia antichi poemi kareliani sui tempi passati delle genti finlandesi). Subito dopo la pubblicazione di questa prima edizione, Lönnrot continuò a raccogliere testimonianze orali sinché nel 1849 pubblicò una nuova versione della raccolta ampiamente rimaneggiata. Secondo lo storico Väinö Kaukonen, un 3% dei versi di questa nuova versione fu composto autonomamente dallo stesso Lönnrot senza far riferimento a varianti di qual sorta, un 14% fu composto dal Lönnrot basandosi sulle varianti esistenti dei vari canti, un 50% subì un minimo rimaneggiamento per renderlo più comprensibile al lettore finlandese ignaro del dialetto kareliano e l’ultimo 33% rimase intaccato[8].

 

Note:

[5] Finn. nominativo plurale del sostantivo laulaja "cantore, cantante", in questo caso "cantore".

[6] cfr. R. Giddings, Sami Culture. «Shamans of the Kalevala: a Cultural Analysis» [In rete] https://www.laits.utexas.edu/sami/diehtu/siida/shaman/kalev.htm (11 Giugno 2021):

The manner of delivery for the songs which constitute the basis for the Kalevala has roots in the shamanic tradition of the Finns, with a foresinger and aftersinger clutching hands as they invoke the songs, charms and incantations which mirror the precursor roles of shaman and shaman’s helper in everything but name. Shamanic tradition historically relies on drumming and singing, both of which characteristically are featured in the Finnish laulajat.

N.B. Sull’argomento si consiglia: https://www.spiritboat.ca/2012/04/the-rise-of-kalevala-era-shamanism.html?m=1.

[7] Strumento musicale tipico della tradizione ugrofinnica. La creazione del secondo kantele è narrata nel quarantaquattresimo runo

[8] cfr. V. Kaukonen, Lönnrot ja Kalevala, in «Finnish Literature Society», 1979.

Kalevala. Una breve presentazione - parte I

Alla stregua di quanto stava accadendo in tutta Europa, con la riscoperta da parte del mondo accademico del materiale epico-mitologico afferente al popolo germanico e a quello celtico, anche in Finlandia si venne a creare una raccolta dei canti legati alla tradizione ancestrale delle genti che un tempo l’abitavano. Filologo nato in una povera famiglia nella Finlandia del Sud nei primi dell’800, in un’epoca in cui la Finlandia era ancora un ducato sotto il controllo dell’Impero russo e la lingua ufficiale era lo svedese[1], Elias Lönnrot prese l’impegno, assieme ad altri intellettuali, a strutturare le basi per la nascita di una coscienza nazionale finlandese.
Lo sforzo principe compiuto da Lönnrot fu quello di riunire in un unico corpus quei vari canti epici della tradizione orale della Karelia e del resto della Finlandia orientale il cui materiale poetico risaliva a più di tre millenni fa. I suddetti iniziarono a essere messi parzialmente per iscritto sin dai primi anni del secolo XVII da figure vagamente interessate alla materia ma fondamentalmente sino al secolo XIX rimasero per lo più diffusi per via orale. Fra il 1828 e il 1834, Elias Lönnrot compì sei viaggi in varie zone della Karelia con lo scopo di mettere per iscritto l’epica kareliana e salvarla dalle nebbie del tempo.
Numerosi erano i cantori kareliani che mantenevano intatta questa tradizione; fra tutti questi spiccava Arhippa Perttunen il quale nel 1834, durante il quinto viaggio compiuto da Lönnrot nella Finlandia rurale dell’Est, cantò nel dialetto careliano alcuni dei poemi di sua conoscenza. Questi, dotato di un’eccezionale memoria, recitò un numero elevatissimo di versi dinanzi a Lönnrot. Stando allo studioso Väinö W. Salminen, i versi che Arhippa Perttunen conservava nella sua virsilippaansa[2] ammontavano a più di diecimila, un repertorio quindi sconfinato[3]. Si può affermare con certezza che ben un terzo dei versi contenuti nei runi[4] della prima edizione del Kalevala è da attribuire al Perttunen.

 

Note:

[1] Prima di passare all’Impero russo, in seguito alla guerra di Finlandia fra Svezia e Russia del 1808-1809, il granducato di Finlandia era territorio svedese.

[2] Finn. composto di virsi - troncamento di virsien, genitivo plurale del sostantivo virsi “canto, inno sacro” - e lippansa - possessivo di terza persona singolare del sostantivo lipas “baule, scrigno”; insomma “scrigno dei canti”, metafora per ‘memoria’.

[3] cfr. H. Sihvo, Karjala - Laulun ja sanan maa, Karisto Ed., 1983, ISBN 9512320894, pp. 11-16.

[4] I runi (dal finn. runo - sostantivo che sta a indicare un poema o una sua sezione; nom. plur. runot) sono i vari canti di cui il Kalevala è composto. I suddetti sono in tetrametri trocaici, aventi però foggia peculiare, e venivano eseguiti dai cantori su due linee melodiche antifoniche costruite sulla serie musicale del pentacordo. Il ritmo della melodia era solitamente in cinque quarti ed il tutto era accompagnato dal kantele, strumento a corde della tradizione finlandese la cui creazione è da attribuirsi allo stesso Väinämöinen (uno dei protagonisti del Kalevala).

mercoledì 30 giugno 2021

Regnum Langobardorum, Regnum totius Italiæ

I longobardi hanno goduto per secoli di cattiva fama presso la storiografia italiana, fino a parte del secolo scorso di matrice generalmente cattolica. 

Troppo barbari, troppo pagani, troppo riottosi e con il vizio di bruciare e saccheggiare chiese, monasteri e compagine (vizio che, per amor di verità, va detto che non persero mai, nemmeno nelle fasi finali del regno quando dovevano essere, almeno in parte, più cristianizzati). 

Eppure, se analizziamo la storia del nostro paese con sguardo sincero e senza preconcetti più o meno filo-papali, possiamo trovare nei longobardi ben più che un mero popolo barbarico, capitato per caso in un mondo, quello tardo romano, che gli era completamente alieno. 

E non siamo i primi a farlo, ed anzi fortunatamente negli ultimi anni stiamo assistendo sempre più ad una riscoperta, e ad una conseguente rivalutazione, del prezioso apporto longobardo alla nostra Patria, apporto di sangue, che rimpolpò le campagne cisalpine e non dopo la disastrosa guerra greco-gotica, e di spirito con la prosecuzione, almeno per il primo secolo e mezzo di dominazione (e a livello popolare molto più a lungo), di sacri riti in onore degli Dèi immortali e della nostra terra. 

Perché i longobardi non furono un incidente nella storia d’Italia, si insediarono nella nostra penisola, la tennero, la protessero e vi rimasero facendo di essa la propria Patria, la terra alla quale il Fato e la volontà degli Dèi li aveva destinati. 


E qui taluni, probabilmente ancora preda di una visione manzoniana, ben più romanzata che veritiera, del Regnum Langobardorum (che ricordiamolo era anche detto Regnum totius Italiæ) potrebbero vedere in essi degli invasori, ma la cosa sarebbe forse veritiera per pochi decenni e non certo applicabile all’intera esperienza politica longobarda. 

Va infatti considerato che i Longobardi, a differenza dei bizantini, che furono in diverse occasioni realmente invasioni e ai quali si devono le peggiori distruzioni che la nostra terra abbia mai subito, non avevano altri centri di potere, altra “Patria” che non fosse quella in cui erano stanziati. 

Erano giunti per restare, e avevano bisogno dai nativi italici e questi ultimi, in breve tempo, si resero conto di avere bisogno di questo nuovo popolo al punto da preferirlo, e di gran lunga, alla presenza bizantina. 


È lo stesso Papa Gregorio a dircelo arrivando a lamentarsi, in alcune epistole dirette all’Imperatore Maurizio, che non solo gli italici preferivano la dominazione longobarda ma che addirittura molti abitanti di Corsica, Sicilia e Sardegna avevano abbandonato Bisanzio per unirsi alla “nefandissima nazione dei Longobardi”. 

Del resto il ricordo del buon governo ostrogoto, il cui regno ricordiamolo era caduto da soli quindici anni al momento dell’arrivo dei longobardi, era ancora vivo fra le genti d’Italia e il confronto con i nuovi dominatori, che vedevano nell’Italia poco più che una colonia, era impietoso. 

E sono le stesse fonti romee a dircelo, la corrispondenza fra l’Imperatore ed il Papa in primo luogo. 

Tasse arbitrarie, troppo alte per dei territori prostrati dalla trentennale e crudele guerra appena passata, ed eccessivo uso di truppe mercenarie, spesso mal pagate e comandate, alienarono velocemente a Bisanzio il supporto degli italici, se mai lo aveva avuto si intende. 

E cosa c’entra questo con il Regno Longobardo? Ben più di quanto non paia ad occhio profano, vi erano infatti forti legami fra i popoli, politici e di sangue, ed è quindi sempre più accettata l’idea che la conquista longobarda altro non fosse, agli occhi di Alboino e della nuova élite langobarda, una sorta di restaurazione del fu regno teodoriciano, legittimata dai legami di stirpe che univano il sovrano con il leggendario Teodorico il grande.

L’inizio di una nuova era, certamente, ma in continuità con un passato la cui grandezza era ancora scolpita nella memoria popolare delle genti d’Italia. 


I longobardi si insediarono quindi prima a Nord del fiume Po e successivamente in buona parte dell’Italia continentale, inizialmente come forza di occupazione finendo però con il fondersi, con percentuali diverse a seconda della zona geografica, con gli italici presenti sul territorio e dando alla nostra Patria nuova rilevanza, elevandola dallo stato di sudditanza ad una patria straniera, maledizione che purtroppo, caduti i longobardi come potenza militare autonoma, tormenterà per secoli queste terre. 


La stessa differenza fra autoctoni e nuovi dominatori diventa via via sempre più labile e già dopo cinquant’anni dalla conquista iniziano a comparire fra i ranghi degli Arimanni, gli uomini liberi membri dell’esercito, al fianco di nomi chiaramente longobardi, nomi latini, a testimoniare una avvenuta integrazione fra le nuova stirpe e quelle già presenti sul territorio italico. 


I longobardi divennero quindi più romani ed i romani più longobardi, al punto da arrivare, già dal tardo VII secolo, a definirsi longobardi anch’essi, e non solo nelle zone a più forte stanziamento longobardo. 

Vuoi per legami di sangue, dopo quasi un secolo e mezzo in molti avevano almeno un parente o due tali, vuoi per motivi giuridici (il diritto longobardo e quello romano convissero a lungo, e ciascuno aveva il diritto di essere giudicato secondo quello nel quale si riconosceva) fino ad arrivare a questioni identitarie (i romani, o più precisamente romei, erano a livello popolare identificati come i bizantini, visti sempre più come nemici dalla popolazione).


Del resto si viveva nel regno longobardo, il sovrano era il Re dei Longobardi oltre che Re d’Italia e divenne quindi naturale, per la maggior parte degli appartenenti a questo regno, ritenersi tali. 

In definitiva di può quindi affermare senza eccessiva difficoltà che lo scambio fu proficuo e condiviso, e che andò a plasmare l’Italia per come la conosciamo, con il suo insieme di genti, differenze e tradizioni che ne fanno la nostra comune Patria. 







giovedì 27 maggio 2021

Di pace, guerra e Dèi

 

“Per i valorosi, i doni offerti dalla guerra sono la libertà e la fama.”

Licurgo di Sparta, attribuita

 

La pace.

Cos’è la pace? Illusione, prima di tutto, ma anche prosperità, tranquillità e riposo.

Essa è il naturale contraltare della guerra, periodo necessario alla riflessione e alla creazione, di preparazione per il momento dell’azione.

E la guerra, cos’è la guerra? Azione e impeto, distruzione e trasformazione.

In essa si compie la necessaria esplosione delle forze che si sono accumulate nei periodi di pace, in lei, amante volubile, si compie il destino degli uomini, taluni, se sufficientemente abili e coraggiosi, ne possono cogliere i frutti più dolci nella forme della gloria e del potere, altri, molti altri, non ottengono altro che morte e dolore. Così va il mondo del resto, e questa è la volontà del Fato.

Nel nostro tempo oppresso dalla minaccia nucleare la pace è diventata un dogma, una costrizione a-naturale che blocca l’uomo in un’unica fase della propria esistenza, che non permette alcuna elevazione ad una gloria realmente eterna.

Viviamo in un ciclo interrotto, una anomalia fatta di prosperità decadente, nevrosi di massa e illusioni, ci dibattiamo in questa epoca sterile, che esalta la meschinità e l’ignavia, la tolleranza e la debolezza e che teme gli eroi mentre esalta ogni genere di feccia.

Alle leggi della natura, alle leggi del Cosmo e degli Dèi, abbiamo sostituito il culto della debolezza, al culto degli eroi e degli antenati l’esaltazione di folli imbelli e fanatici, il risultato non poteva essere molto diverso. Il fatto che ora questi ultimi siano stati sostituiti da feticci altrettanto imbelli non cambia la solfa: il culto della debolezza non giova che ai deboli, esso odia profondamente e ferocemente tutto ciò che è alto e superiore, ed è per questo che desidera livellare ogni cosa, quale che sia il prezzo che questa nostra terra di mezzo dovrà pagare questa follia.

Opponetevi a tutto questo, siate uomini e donne liberi, formate delle Fare, seguite gli Dèi, tributate loro il giusto culto, riunitevi fra voi, migliorando nella competizione e nella fratellanza, tenendo viva la fiamma fino a quando il mondo crollerà per poi rinascere nuovamente in un ciclo che nessuno, nemmeno gli idolatri del nulla, potranno bloccare.

 

 

giovedì 29 aprile 2021

Il carme di Ildebrando, l’ipotesi longobarda

Di questo celeberrimo poema è stato scritto moltissimo, meraviglioso esempio di letteratura germanica esso rappresenta mirabilmente uno dei topoi più ricorrenti nelle saghe germaniche ed indoeuropee: l’incontro fra un padre e un figlio che, a causa di un Fato ineluttabile e dei propri doveri tribali di stirpe, sono costretti a combattere fra loro.

L’ambientazione è quella della conquista della nostra penisola da parte di Teodorico, che sarà successivamente ricordato come “il grande”, quello stesso Flāvius Theoderīcus la cui importanza nella storia Patria non è seconda a nessuno dei grandi eroi di cui il nostro passato è costellato e a cui è da attribuirsi la fondazione del Regnum Italiae in forma geograficamente simile a quanto è oggi inteso.

 

Non è dato sapere quale battaglia, fra le molte combattute fra Teodorico ed Odoacre, faccia da sfondo a questo duello, per quanto alcuni indizio, come il fatto che i contendenti si trovino a piedi a fronteggiarsi fra le fanterie (è lo stesso Hildebrand a ricordare quale sia sempre stato il suo ruolo in battaglia “Vagai, per estati e inverni, sessanta, lontano dalla patria; e sempre fui assegnato tra le schiere dei lancieri”) fa propendere per la battaglia di Verona lungo il fiume Adige o per quella di Pizzighettone, nel cremonese, lungo il fiume Adda, sono infatti queste quelle ad aver coinvolto più duramente la fanteria.

Ma quali sono le origini di questo poema? Quale popolo lo ha composto?

L’argomento ha interessato, e continua ad interessare, diversi studiosi, la lingua è sicuramente germanica, e rientra nell’alveo continentale e/o anglosassone ma l’attribuzione è tuttora assai discussa pur essendovi almeno quattro filoni principali per la stessa: quello anglosassone, ormai poco supportato in quanto non presenta altri indizi se non una certa affinità stilistica e lessicale, quello basso-tedesco, quello gotico, anch’esso considerato desueto ed infine quello longobardo bavarese, sul quale verte questo articolo.

I legami fra il Regnum teodoriciano e quello Longobardo sono infatti fittissimi, specialmente in quella che un tempo era detta Langobardia Maior, e ben anteriori alla conquista longobarda della penisola e alla conseguente collaborazione militare e politica.

Oltre ai contatti dovuti alla comune presenza in area danubiana durante il V secolo ve ne sono altri, attestati, di natura genealogica e matrimoniale.
Alboino, il conquistatore d’Italia e primo Re dei longobardi della nostra penisola discendeva infatti per parte materna da Amalaberga, sorella di Teodorico e non è certo un caso che, giunto in Italia, questi si sia stanziato in Verona nel palazzo del proprio celebre parente.

La distanza fra la caduta del regno Goto (553 era comune) e quella della conquista longobarda (568) è infatti minima ed i nuovi dominatori inglobarono fra le proprie schiere non solo i goti già presenti sul suolo italiano ma anche la memoria del loro illustre predecessore e dell’epoca aurea ad esso legata.

L’inserimento del grande Re, e delle sue gesta, fra le canzoni eroiche dovette quindi risultare naturale al fine di garantire, per legami di stirpe, maggior legittimità alla recente conquista.

Il contesto storico culturale, oltre ad indizi linguistici quali il “-brant” presente nei nomi dei due protagonisti e riferibile specificatamente all'antroponimia longobarda e bavarese, è quindi decisamente favorevole e rende questa tesi assai rappresentata oltre che ovviamente affascinante per chi, come me, ha fatto dell’amore per le proprie origini uno dei punti cardine della sua esistenza.

Vi lascio con gli splendidi versi finali del poema, presi dalla traduzione curata dal sito Bifrost (e che potete trovare a questo indirizzo: https://bifrost.it/GERMANI/Fonti/Sapienzatedesca-Hildebrand.html)

 

“Allora scagliarono dapprima

le lance di frassino,

raffiche aguzze

si conficcarono negli scudi.

Poi avanzarono insieme,

spaccarono i ripari decorati,

percossero con violenza

i bianchi scudi,

e le tavole di tiglio

andarono in pezzi

colpite dalle armi…”

sabato 24 aprile 2021

Speranza

Qualche tempo fa, un utente commentò così sotto un post della nostra pagina Facebook:

è proprio dalla lotta contro gli dei che nasce la speranza

Il post era il seguente:
 

La domanda che in me sorse spontanea nel leggere quel commento fu questa:
Quanto senso ha l’asserire che la speranza nasca e che essa nasca proprio dalla lotta contro gli Dèi?
Orsù, scopriamolo assieme.

A parer mio la speranza non nasce, la speranza la si possiede e basta. Anzi, il termine "speranza" presenta un'accezione vaga; è meglio utilizzare il termine "sentimento" dove con "sentimento" si va a definire quella pulsione irresistibile che ci spinge addentro il nostro futuro.
La speranza come viene oggi intesa è menzognera. Il sogno, di questi tempi spesso erroneamente legato al concetto contemporaneo di speranza, diviene ragione di vita e motore delle proprie aspettative e delle proprie azioni. Un tempo il sogno era inteso come esperienza rivelatrice del proprio fato e non come rifugio dalla realtà circostante. La realtà, fosse essa futura o passata, diveniva componente primaria del sogno, ne diveniva oggetto e al tempo stesso soggetto. Il reale e il metafisico erano fusi assieme indissolubilmente nella dimensione onirica del sogno tanto da rendere il confine fra i due indistinguibile.
Il sogno nella società moderna è legato invece al fantastico e all’immaginazione. Il sogno diviene dunque un qualcosa che non è né reale, né metafisico ma puro e semplice canovaccio su cui scrivere un finale alternativo, un esercizio narrativo nato da quella insoddisfazione per il proprio presente che spesso attanaglia l’uomo contemporaneo. Nascono così differenti desideri, differenti aspirazioni che distolgono l’individuo da quel sentire, da quella pulsione irresistibile che ogni individuo dovrebbe seguire.
Nel corso della vita, numerose volte ci siamo sentiti dire frasi all’apparenza fra loro differenti ma in realtà afferenti al tipo standard del «come fai a essere così sicuro del tuo essere?». In un mondo in cui tutto è incentrato sulla relatività del reale e sull’inesistenza del metafisico e dunque sul rigetto del concetto di “unica verità perseguibile ma spesso inconoscibile in quanto posta al di là di ciò che è tangibile”, l’innumerevole schiera di sensazioni e di desideri fa nascere nell’individuo il germe dell’insoddisfazione portandolo sempre più verso l’incertezza. Il “sentimento” di cui si era accennato in apertura viene così dai più confuso con la sensazione, una pulsione più bassa che esige e richiede soddisfazione.
Numerosi membri dell'intellighenzia contemporanea sono poi soliti ripetere che «gli archetipi decadono perché non più utili». Nulla di più sbagliato. Gli archetipi, ossia i valori fondanti di un popolo, vengono meno proprio perché la maggioranza di quel determinato popolo, con il progredire della tecnica e con il sorgere di comodità artificiali, rinuncia al suo essere, divenuto troppo scomodo da portare avanti se posto a confronto con il nuovo stile di vita che gli viene offerto. Gli archetipi vengono dai più abbandonati proprio per soddisfare quelle sensazioni, quelle bramosie passeggere che attanagliano l'uomo contemporaneo. Gli archetipi però restano immutati, sono gli uomini invece a cadere.
Ecco che il tendere verso il proprio fato, ossia il manifestare la propria volontà di potenza a scapito delle sensazioni, è un qualcosa che non ha più posto in un simile schema di pensiero dove la realtà fisica viene mutata in legge assoluta e dove la sua componente metafisica diviene mera superstizione da rimuovere allo scopo di poter meglio soddisfare quelle sensazioni che ci appaiono così reali e tangibili. Le sensazioni restano però semplice proiezione nel reale della propria insoddisfazione, ossia manifestazione delle proprie speranze dettate da un bisogno passeggero, individuale ed effimero, in quanto risultato del modus vivendi dell’individuo che lo prova.
Il Fato a cui sia gli Dèi che gli uomini sono soggetti è invece universale e ineluttabile in quanto fondamento di quel ciclo di eterni ritorni che è proprio del nostro mondo.
In questo ciclo, in questo moto di rivoluzione bisogna “sperare” e confidare.

martedì 6 aprile 2021

Re Penda, completo

Riproponiamo oggi, completo ed in forma di pdf, uno dei primi articoli comparsi su questo blog quasi tre anni fa e dedicata alla figura di Re Penda, campione della fede eterna ed eroe immortale.

https://drive.google.com/file/d/1rEfDyFdfp9XridbTTfDE4JZb-6vLIkCF/view?usp=sharing