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domenica 14 marzo 2021

Tredesin de Mars

Milano è universalmente conosciuta come la città della moda, nonché come la capitale economica d’Italia. Se poi entra in gioco l’eterna diatriba paganesimo vs cristianesimo, allora non può non venire in mente lo scontro fra Sant’Ambrogio, il famoso vescovo meneghino, e Simmaco per l’altare della vittoria. Ma la storia non finisce qui, tutt’altro. Poco prima dell’equinozio esiste una festività chiamata tredesin de Mars, ossia il 13 marzo. Stando alla leggenda (cristiana), il 13 marzo del 51 Barnaba aveva provveduto a introdurre nel capoluogo meneghino la nuova religione, tuttavia nello stesso ancora convivevano due precedenti tradizioni, e cioè quella celtica e quella romana. Erano stati rivali militarmente, però nel caso religioso è possibile notare un certo sincretismo, dato che il tempio di Minerva sorgeva nel sito sacro a Belisama.

Ma come è stata introdotta la nuova religione? Barnaba aveva diplomaticamente (sic) interrotto una celebrazione e aveva conficcato una croce al centro di una pietra che recava una raggiera di 13 linee, oggetto del preesistente culto celtico. Tanto per cambiare, questa non è di certo una testimonianza di pace, amore ed integrazione, bensì di volontà di eliminazione del precedente sostrato per imporre qualcosa di avulso, alla faccia di chi lo considera un elemento identitario e italico al 100%.

Si può anche notare l’importanza del numero 13, non solo a livello di datazione ma anche per i già detti raggi. Ma 13 sono le stelle della costellazione della Vergine, che si può vedere ampiamente in cielo in questo periodo dell’anno. La stella più importante si chiama Spica e prende ispirazione dalla spiga di grano che lei tiene in mano. Anche qui si può notare la sovrapposizione di un archetipo nuovo a discapito di quello vecchio, dal momento che quella che ora è la Vergine prima era identificata con Astarte, Demetra, Minerva ma soprattutto Persefone. La costellazione appare a febbraio e resta fino all’autunno, rimarcando il momento in cui Persefone usciva dall’Ade per portare la vita in terra. 

Articolo di Giulia Re


P.S. Si ringrazia la pagina “Fuochi nella nebbia” per le informazioni bibliografiche.

sabato 13 marzo 2021

Il segreto del Bosco Vecchio - Completo (file .pdf)

Condividiamo con i nostri lettori l'articolo completo su Il segreto del Bosco Vecchio. Per accedervi basta cliccare sul seguente link:

https://drive.google.com/file/d/1sGVfZk56kajshiPbjDt1mIYwfA-qM619/view?usp=sharing 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte III

Il successo di quest’opera così come pure di tutti gli altri scritti del Buzzati non fu certo immediato:
 

Buzzati scrive le sue opere di maggior successo nel periodo in cui si esplica con maggior entusiasmo l’attività dell’avanguardia conosciuta come Gruppo 63. Ispirandosi alle avanguardie di inizio secolo, il Gruppo 63 si richiamava alle idee del marxismo e allo strutturalismo. Fu dunque inevitabile che Buzzati finisse sotto gli strali dei suoi esponenti.
Lo scrittore risultava essere stato iscritto al Partito Fascista, come molti intellettuali della sua generazione, ma a differenza di altri non aveva mai fatto pubblica abiura di quella sua appartenenza. Inoltre, era indubbio il fascino che provava per il mito, declinato in diverse forme: la guerra (specialmente quella navale), la montagna, il soprannaturale, le grandi personalità del suo tempo.
[...]
E questa è la ragione per cui i romanzi antimodernisti scritti da autori classificati di sinistra (come Bianciardi e Mastronardi) sono stati osannati, mentre intorno a Buzzati si è creata una vera e propria coltre. Ancora oggi, si può leggere online l’intervento redatto da Marcello Carlino nel 1988, in cui afferma: «Un amore esprime appieno i cedimenti dello scrittore ai miti e alle mode e insomma al mercato della letteratura: correva l’anno 1963, quando, mentre pullulavano i primi best sellers, veniva allo scoperto la feroce contestazione della neoavanguardia. […] L’intreccio è ancora di quelli ben oliati e a forte tenuta ed esibisce, con uno strisciante e remunerativo moralismo, tutti gli ingredienti di una narrativa di consumo: una storia d’amore spesso pruriginosa e piccante, un personaggio femminile – Laide – che è l’erotica Lolita di turno, gelosie sempre gradite al lettore e una montante febbre di vita che brucia e ringiovanisce l’architetto Dorigo» (M. Carlino, Buzzati Traverso, Dino, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. 34, Istituto Treccani, Roma 1988) All’autore viene successivamente rimproverato: «La caduta del fascismo, la sconfitta militare e la Resistenza provocarono un acuto senso di disagio nel Buzzati. L’Italia toccava il fondo della crisi; venivano spazzati di colpo e cadevano come un castello di carte le idealità e i miti, quello militare soprattutto, che tanto avevano fatto breccia nel narratore» (M. Carlino, Buzzati Traverso, Dino, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, cit.).
Il valore antimodernista, ancorché sottotraccia, viene passato sotto silenzio. [...]


- E. Rulli, Bietti, «Dino Buzzati, l’antimodernista. Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018» [In rete] http:// www.bietti.it/riviste/dino-buzzati-nostro-fantastico-quotidiano/dino-buzzati-lantimodernista/ (12 Marzo 2021).


Da Il segreto del Bosco Vecchio il regista Ermanno Olmi trasse la sceneggiatura dell’omonimo film, realizzato molti anni dopo la morte dell’autore del racconto. Lo sceneggiato dell’Olmi si distacca in molti punti da quanto tracciato da Dino Buzzati nella sua opera e, secondo mia personale considerazione, avrebbe non poco deluso quest’ultimo se questi avesse potuto guardarlo.
I meriti della fattuale, seppur distorta, bellezza del film non sono certo d’attribuire al suddetto regista bensì all’opera stessa del Buzzati e alla recitazione di Paolo Villaggio nel ruolo del colonnello Procolo. Il segreto del Bosco Vecchio viene ridotto nello sceneggiato di Ermanno Olmi a banale operetta sugli errori dei grandi che dimenticano l’essenza della fanciullezza e, come è consuetudine del suddetto regista, a satira sprezzante di tutto ciò che afferisce all’ambito militare.
Ecco che, nella scena rappresentante la cerimonia del passaggio di consegne al nuovo colonnello del comando del reggimento, si può vedere un Paolo Villaggio pulirsi il volto con la bandiera nell’atto di salutare la stessa [3], oppure, nella marcia d’addio del reggimento al morente colonnello Procolo, uomini curvi e mesti dai movimenti impacciati. Infine manca del tutto la parte in cui Benvenuto accompagna il morente vento Matteo verso il suo ultimo viaggio.

 

Note:

[3]     Cosa che mai il colonnello Procolo avrebbe fatto. Buzzati descrive così l’avvenimento:

Quando egli diede le dimissioni dall’esercito, i soldati del suo reggimento trassero un sospirone, poiché difficilmente si poteva immaginare un comandante più rigido e meticoloso. L’ultima volta ch’egli varcò, uscendo, il portone della caserma, lo schieramento della guardia ebbe luogo con speciale celerità e precisione, come da alcuni anni non avveniva; il trombettiere, che pure era il migliore del reggimento, superò veramente se stesso con tre squilli di attenti che divennero proverbiali, per il loro splendore, in tutto il presidio. E il colonnello, con un leggero inarcamento delle labbra che poteva sembrare un sorriso, mostrò d’interpretare come segno di commosso ossequio quella che in sostanza era una manifestazione di intimo giubilo per la sua partenza.

- D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 3, 4. 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte II

Ecco che - seppur in sordina rispetto ad altri suoi romanzi - il Leitmotiv della modernità come forza che, tramite il progresso della tecnica, devasta l’essenza preesistente, arcana e metafisica delle cose, viene qui riproposto dall’autore bellunese.
In seguito ad alterne vicende, una fra tante la liberazione del folle e possente vento Matteo operata dal colonnello Procolo, quest’ultimo giunge a patti con il Bernardi, portavoce delle istanze dei genî di Bosco Vecchio e loro più giovane elemento, per salvare la vita del nipote Benvenuto a cui si era con il passare del tempo tremendamente affezionato.
Benvenuto, contro tutte le previsioni dei dottori che l’avevano visitato, sopravvive alla tremenda febbre che l’aveva colpito. Si arriva così all’epilogo dell’opera che si articola in due episodi differenti, aventi luogo fra la notte del 31 Dicembre 1925 ed il mattino del 1 Gennaio 1926 e riguardanti i destini del colonnello Procolo, del vento Matteo e del giovane Benvenuto. Sono questi i due episodi che, se osservati con attenzione, svelano l’essenza più profonda, la maieutica più nascosta di quest’opera all’apparenza banalmente favolistica.
La morte per assideramento del colonnello Procolo, avuta luogo nella notte di Capodanno in seguito al tentativo di salvare il nipote Benvenuto che egli erroneamente credeva travolto da una slavina, diviene redenzione ultima di un uomo disonorato che da tempo si era allontanato dal mos che aveva seguito durante tutta la sua carriera militare; troppo a lungo Sebastiano Procolo aveva rincorso il proprio interesse più gretto, quello di conservarsi il più possibile integro e ricco nella sua anzianità. Egli muore così ritto nella neve vedendo sfilare dinanzi a sé il suo antico reggimento con in testa i suoi colori che splendevano alla luce della luna. I vecchi consentono al sacrificio per il futuro della gioventù.
Nella stessa notte il giovane Benvenuto, ignaro della da poco avvenuta morte dello zio Sebastiano, accompagna a sua volta il debole vento Matteo, ormai moribondo, sulla cima del Corno dove questi, come ultimo atto, gli rivela della morte dello zio alla quale lo stesso vento aveva assistito come pure del fatto che quella sarebbe stata l’ultima sua notte da fanciullo. I giovani accompagnano le precedenti generazioni sino al loro ultimo atto su questa terra per poterne portare in alto, seppur anche per un solo attimo, il ricordo.
In tutto questo dipanarsi di accadimenti la natura è onnipresente: anch’essa soggetta al fato alla stregua degli uomini [2], ne diviene immagine speculare, arcana e remota della loro più recondita essenza. Così come muore il colonnello, l’uomo, così svanisce anche il vento, il metafisico, entrambi legati indissolubilmente l’uno all’altro che, oramai giunti al termine dei loro fati, lasciano il posto all’eterno ritorno che è assieme ciclo di distruzione e rito di rinascita.

 

Note:

[2]     D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 125, 126:

Nella fonda notte, senza far uso della lampadina, probabilmente per non rivelare che l’ombra l’aveva abbandonato, il Procolo andò al Bosco Vecchio, per cercare il Bernardi. Appena egli fu giunto al confine dell’antica selva, il Bernardi sbucò fuori d’incanto.
«Cerchi di me, colonnello?» domandò il genio.
«Benvenuto sta per morire» disse il colonnello. «Mi è venuto in mente: voi genî non potreste fare qualcosa? Non avreste forse qualche rimedio?»
«Secondo» rispose il Bernardi. «Gli uomini alle volte muoiono perché “devono” morire; ci sono delle leggi che non si possono spezzare. Ma se è come dici... capisco... è un bambino... Sì, noi genî al proposito sappiamo qualcosa, un resto della nostra antica potenza. Sì, noi potremmo provare...» 

Il segreto del Bosco Vecchio - parte I

Il segreto del Bosco Vecchio è uno dei brevi romanzi scritti nel secolo scorso dall’autore Dino Buzzati e pubblicato per la prima volta a Milano nel 1935.
Opera incentrata su un Leitmotiv che ha dell’ancestrale, quello del metafisico nella natura, Il segreto del Bosco Vecchio si apre seguendo lo svolgersi delle vicende del colonnello Sebastiano Procolo il quale, alla morte di suo zio Antonio Morro, aveva da questi ereditato vari ettari di terreno boschivo da adibire a taglio siti nei pressi di Valle di Fondo assieme al cosiddetto Bosco Vecchio.
 

Fin dai secoli scorsi, tutti si erano accorti che il Bosco Vecchio era diverso dagli altri. Magari non lo si confessava, ma questo era un convincimento comune. Che cosa ci fosse di diverso nessuno però lo sapeva dire.
Fu solo all’inizio del secolo scorso che la realtà venne chiaramente scoperta. Cosa ci fosse di speciale nel Bosco Vecchio lo capì benissimo l’abate don Marco Marioni durante un viaggio in quella vallata. Il fatto non gli parve gran che strano e breve è il cenno da lui fatto nelle «Note geologiche e naturalistiche di un sacerdote pellegrino» pubblicate nel 1836 a Verona.
Sono notizie succinte ma molto chiare:
“Piacquemi, in quel di Fondo, pascere la mia vista di una mirabile visione; visitai una ricca foresta, che quegli alpigiani denominano Bosco Vecchio, singolare per l’altezza dei fusti, superanti di gran lunga il campanile di San Calimero. Come io ebbi a notare, quelle piante sono la dimora dei genî, quali trovansi anche in boschi di altre regioni. Gli abitanti, a cui chiesi notizia, pareano ignari. Credo che in ogni tronco sia un genio, che di raro ne sorte in forma di animale o di uomo. Sono esseri semplici e benigni, incapaci di insidiare l’uomo. Estendersi tale foresta per jugeri...”
[...] Solo i bimbi, ancor liberi da pregiudizi, si accorgevano che la foresta era popolata di genî; e ne parlavano spesso, benché ne avessero una conoscenza molto sommaria. Con l’andar degli anni però anch’essi cambiavano d’avviso, lasciandosi imbevere dai genitori di stolte fole.

- D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, Oscar Mondadori, Cles (TN) 2010, pp. 18-20.
 

Il resto dei possedimenti del Morro vennero da questi lasciati in eredità al nipote Benvenuto Procolo, orfano di padre e di madre. Per questa ragione, il giovane inizialmente attirò involontariamente su di sé le ire del colonnello, intenzionato a possedere la totalità dei boschi appartenuti al defunto Antonio Morro allo scopo di poterne sfruttare il legname come fonte di reddito. Incurante di come la vita dei genî del Bosco Vecchio fosse legata a quella dell’albero che abitano, il colonnello Procolo iniziò ad operare tagli indiscriminati e più di una volta cercò di liberarsi del nipote tanto da spingere gli animali della foresta a processarlo e la propria ombra ad abbandonarlo [1].

 

Note:

[1]     D. Buzzati, Il segreto del Bosco Vecchio, cit., pp. 120, 121:

«Colonnello!» disse l’ombra «io ti ho seguito fin da quando eri bambino, non ti ho mai lasciato neppure quando dormivi, ho fatto con te lunghe marce, ho cavalcato vicino a te al galoppo. Anche quando tu non ci pensavi nemmeno, io ti accompagnavo fedelmente. Mi alzavo se tu volevi alzarti, ho fatto sempre il tuo desiderio, e dimmi se mi sono mai lamentata. Un giorno poi tu hai lasciato la divisa; e mi dispiaceva, sai, di non portar più quella sciabola che dondolava attaccata al mio fianco... Eppure ho obbedito in silenzio. Ti ricordi, Procolo, non è vero?»
«Sarà anche» fece il colonnello «ma cosa vuol dire tutto questo? Dove vuoi andare a finire?»
«Hai ragione» sussurrò l’ombra «è meglio parlare chiaro: volevo dirti che ti devo lasciare.»
«Lasciarmi? Cosa hai detto?»
«Ti devo lasciare» ripeté l’ombra «devo andarmene via, perché ti sei disonorato.»
[...]
«Tornerò alla vecchia caserma, lo sai?» proseguì l’ombra dopo qualche istante di silenzio. «Ritroverò il nostro antico reggimento, sembrano tempi tanto lontani. Dovrò rintanarmi in un angolo buio, e andrò in giro soltanto di notte perché nessuno mi veda. Sì, avrei vergogna che mi domandassero: “Ombra, ohi, ombra, dov’è il tuo padrone? dov’è rimasto il signor colonnello?”. Il signor colonnello è finito, dovrei rispondere, ecco quello che dovrei rispondere, la sua sciabola l’ha mangiata la ruggine e di lui è meglio tacere.»

mercoledì 24 febbraio 2021

24 Febbraio 391

Il 24 Febbraio 391 il fuoco di Vesta fu spento e terminò anche l’antico ordine delle Vestali che, come è noto, ha una protagonista molto influente per ciò che concerne le origini di Roma, e cioè Rea Silvia. Si trattava del fulcro spirituale romano e il decreto di cui sopra era solo la punta dell’iceberg di un fenomeno sancito un decennio prima, ossia con l’editto di Tessalonica tramite il quale il cristianesimo era indicato come religione di stato dall’imperatore Teodosio.

Nella predetta data, inoltre, fu emanato il decreto teodosiano chiamato Nemo se hostis polluat in cui venne messo al bando qualsiasi tipo di sacrificio pagano, anche in forma privata, ma non solo questo:

L'Augusto Imperatore (Teodosio) ad Albino, prefetto del pretorio.

Nessuno violi la propria purezza con riti sacrificali, nessuno immoli vittime innocenti, nessuno si avvicini ai santuari, entri nei templi e volga lo sguardo alle statue scolpite da mano mortale perché non si renda meritevole di sanzioni divine ed umane. Questo decreto moderi anche i giudici, in modo che, se qualcuno dedito a un rito profano entra nel tempio di qualche località, mentre è in viaggio o nella sua stessa città, con l'intenzione di pregare, venga questi costretto a pagare immediatamente 15 libbre d'oro e tale pena non venga estinta se non si trova innanzi a un giudice e consegna tale somma subito con pubblica attestazione. Vigilino sull'esecuzione di tale norma, con egual esito, i sei governatori consolari, i quattro presidi e i loro subalterni.
 
Milano, in data VI calende di marzo sotto il consolato di Taziano e Simmaco.

 

C’era spazio anche per i cosiddetti lapsi (i.e. lat. per "caduti"), e cioè per i pagani battezzati e poi riconvertitisi al paganesimo. Dal decreto dell’11 maggio 391:

Gli augusti imperatori Valentiniano, Teodosio e Arcadio a Flaviano, prefetto del pretorio.

Coloro che hanno tradito la santa fede [cristiana] e hanno profanato il santo battesimo, siano banditi dalla comune società: dalla testimonianza [in tribunale] siano esentati, e come già abbiamo sancito non abbiano parte nei testamenti, non ereditino nulla, da nessuno siano indicati come eredi. Coloro ai quali era stato comandato di andarsene lontano ed essere esiliati per lungo tempo, se non sono stati visti versare un compenso maggiore tra gli uomini, anche dell'intercessione degli uomini siano privati.
Se casomai nello stato precedente [il paganesimo] ritornano [i neo-convertiti], non sia cancellata la vergogna dei costumi con la penitenza, né sia riservata loro alcuna particolare protezione di difesa o di riparo, poiché certamente coloro i quali contaminarono la fede, con la quale Dio hanno riconosciuto, e orgogliosamente trasformarono i divini misteri in cose profane, non possono conservare le cose che sono immaginarie e a proprio comodo. Ai lapsi ed anche ai girovaghi, certamente perduti, in quanto profanatori del santo battesimo, non si viene in soccorso con alcun rimedio di penitenza, alla quale si ricorre ed è solita giovare negli altri peccati.

A Concordia, in data V idi di maggio sotto il consolato di Taziano e Simmaco.

 

I concetti del 24 febbraio furono ribaditi tramite il terzo decreto (del 16 giugno 391):

L'Augusto Imperatore (Teodosio) al prefetto Evagrio e a Romano conte d'Egitto. 

A nessuno sia accordata facoltà di compiere riti sacrificali, nessuno si aggiri attorno ai templi, nessuno volga lo sguardo verso i santuari. Si identifichino, in particolar modo, quegli ingressi profani che rimangono chiusi in ostacolo alla nostra legge così che, se qualcosa incita chicchessia ad infrangere tali divieti riguardanti gli dèi e le cose sacre, riconosca il trasgressore di doversi spogliare di alcuna indulgenza. Anche il giudice, se durante l'esercizio della sua carica ha fatto ingresso come sacrilego trasgressore in quei luoghi corrotti confidando nei privilegi che derivano dalla sua posizione, sia costretto a versare nelle nostre casse una somma pari a 15 libbre d'oro a meno che non abbia ovviato alla sua colpa una volta riunitesi le truppe militari. 

Aquileia, in data XVI calende di luglio, sotto il consolato di Taziano e Simmaco.

 

Il tutto fu poi completato con il quarto editto emanato l’8 novembre 392 (8 novembre che, ironia della sorte, sarebbe stato una delle tre date del Mundus Patet):

Gli augusti imperatori Teodosio, Arcadio e Onorio a Rufino prefetto del pretorio.

Nessuno, di qualunque genere, ordine, classe o posizione sociale o ruolo onorifico, sia di nascita nobile sia di condizione umile, in alcun luogo per quanto lontano, in nessuna città scolpisca simulacri mancanti di sensazioni o offra (alcuna) vittima innocente (agli dèi) o bruci segretamente un sacrificio ai lari, ai geni, ai penati, accenda fuochi, offra incensi, apponga corone (a questi idoli). Poiché se si ascolterà che qualcuna avrà immolato una vittima sacrificale o avrà consultato viscere, sia accusato di reato di (lesa) maestà e accolga la sentenza competente, benché non abbia cercato nulla contro il principio della salvezza (Dio) o contro la (sua) salvezza. È sufficiente infatti per l'accusa di crimine il volere contrastare la stessa legge, perseguire le azioni illecite, manifestare le cose occulte, tentare di fare le cose interdette, cercare una salvezza diversa (da quella cristiana), promettere una speranza diversa.
Se qualcuno poi ha venerato opere mortali e simulacri mondani con incenso e, ridicolo esempio, teme anche coloro che essi rappresentano, o ha incoronato alberi con fasce, o eretto altari con zolle scavate alle vane immagini, più umilmente è possibile un castigo di multa: ha tentato una ingiuria alla piena religione (cristiana), è reo di violata religione. Sia multato nelle cose di casa o nel possesso, essendosi reso servo della superstizione pagana. Tutti i luoghi poi nei quali siano stati offerti sacrifici d'incenso, se il fatto viene comprovato, siano associati al nostro fisco. Se poi in templi e luoghi di culto pubblici o in edifici rurali qualcuno cerca di sacrificare ai geni, se il padrone di casa non ne è a conoscenza, 25 libbre di oro di multa si propone di infliggere (al sacrificante), è bene poi essere indulgenti verso lui (il padrone) e la pena trattenere.
Poiché poi vogliamo custodire l'integrità di giudici o difensori e ufficiali delle varie città, siano subito denunciati coloro scoperti (negligenti), quelli accusati siano puniti. Se questi infatti sono creduti nascondenti favori o negligenze, saranno sotto giudizio. Coloro poi che assolvono (gli accusati di idolatria) con finzione, saranno multati di 30 libbre di oro, sottostando anche agli obblighi che derivano da un loro simile comportamento dannoso.

Costantinopoli, in data VI idi di novembre, sotto il consolato di Arcadio e Rufino.


Da tutti questi decreti si può facilmente capire che la realtà storica è totalmente diversa dalla solita vulgata che ci viene propinata da quando siamo piccoli (ad esempio al catechismo) tutta intrisa di pace, amore e solidarietà. L’opera di cancellazione di culti e persone non si fermò di certo qui. Veramente poche persone conoscono il primo Lager della storia, che, per l’appunto, fu costruito per i pagani: si tratta di Skythopolis.
È molto complesso cercarne una bibliografia in proposito in italiano, esistono solo scarne indicazioni in inglese e per di più solo su qualche forum specializzato in Storia antica. Non si sa nemmeno la collocazione precisa della stessa città, alcuni sostengono in Siria, altri in Galilea. Elementi cronologici più precisi si trovano sul sito ufficiale di Vlasis Rassias, autore del libro La demolizione dei templi (i.e. Demolish them! pubblicato nel 1994 ad Atene, con la seconda edizione nel 2000).
Dice testualmente: «Nel 359 d.C. a Scythopolis, in Siria, i cristiani organizzarono il primo campo di sterminio per la tortura e l’esecuzione dei Gentili [Pagani, ndA] da tutto l’Impero». Ammiano Marcellino, esaminato dallo studioso Arnaldo Momigliano, scrive nelle sue Res Gestae: «La città che fu scelta per testimoniare queste scene fatali fu Scythopolis in Palestina, che per due ragioni sembrava il più adatto dei luoghi; in primis perché era poco frequentata e secondariamente perché era a metà fra Antiochia ed Alessandria [...]».

Dopo Scythopolis, le persecuzioni contro i Pagani continueranno fino al 988, quando avvenne la conversione violenta – con la scusa che il Peloponneso era concepito come „una terra piena di demoni‟ - degli ultimi Greci Gentili di Laconia (i Manioti, che infatti non accettarono completamente il cristianesimo fino all’XI sec. d. C.) da parte dell’armeno Nicone il Metanoita, peraltro diventato santo patrono della città di Sparta, quella Sparta che con i suoi 300 sotto l’egida di Leonida già fronteggiò un’altra invasione da Oriente, ossia quella violenta di Serse nell’ambito delle Guerre Persiane.


I fatti sopraccitati, come già detto, di certo non danno l’idea di pace, amore e/o solidarietà, anzi, denotano la volontà di distruggere il contesto precedente con secoli di storia alle spalle. Nella quasi totalità dei casi, i culti pagani preesistenti sono stati demonizzati in piena regola e questo trattamento fu la prassi anche in territori geograficamente lontani come ad esempio la Finlandia nella quale il nome del Dio del tuono Perkele oggi è ridotto a un intercalare dalla connotazione volgare.
Per far capire meglio la portata di fatti simili, nel 2006 è stato scelto dalla Federazione Pagana il 24 Febbraio come Giorno Pagano Europeo della Memoria.

 

Articolo di Giulia Re

venerdì 5 febbraio 2021

Le case della Foresta Nera - Completo (file .pdf)

Condividiamo con i nostri lettori l'articolo completo sulla Schwarzwaldhaus e le sue tipologie. Per accedervi basta cliccare sul seguente link:

https://drive.google.com/file/d/1rGt2BMoyZlEf4sXkJ1Nol8L73At4NAkS/view?usp=drivesdk

Prima di leggere l'articolo, l'autore vi consiglia la visione di questo breve video realizzato sulla musica di J-Cut & Kolt Siewerts (fonte: https://www.youtube.com/watch?v=IwLSrNu1ppI). Vi farà immergere nell'atmosfera folle e caotica della Foresta Nera alleggerendo un poco la lettura (se lo vorrete dovrete leggere ben 14 pagine):