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lunedì 9 settembre 2019

Il Bushidō - parte IV

L’ultimo punto cardine che vorrei trattare in questa sintetica riflessione sul Bushidō è l’assoluta fedeltà del guerriero al suo Daimyō.
Il termine stesso (Samurai) deriva da Saburau, traducibile come servire.
Tutta la vita del guerriero era dedicata a una inflessibile e assolutamente inviolabile servitù nei confronti del Daimyō.
Questo fondamentale impegno veniva preso tramite una cerimonia con riti tipicamente Shintoisti, da sempre molto legati al culto degli antenati e al rispetto verso gli stessi; come ci descrisse il gesuita Caspar Vivela il rito prevedeva l’impegno scritto su di un rotolo (kishomon) con un pennello intinto nel sangue (keppan) del guerriero che veniva successivamente bruciato davanti agli altari delle divinità del clan, le ceneri venivano poi sciolte e inghiottite dal guerriero come controprova definitiva del suo impegno incondizionato (oltre ad una ovvia e meno spirituale trascrizione negli archivi).
Da quel momento in poi il Samurai era come morto, tutta la sua vita era dedicata alla difesa e salvaguardia del signore, della sua proprietà e del suo onore, null’altro contava e nulla poteva esimere il guerriero dal compiere il suo sacro dovere.

Il legame era così forte che non si limitava a inquadrare il singolo samurai ma anche tutta la sua famiglia che immediatamente iniziava a identificarsi con il volere del Signore e addirittura era solita seguirlo nella morte tramite suicidio rituale, il celebre seppuku (un po' come accadeva tra il Faraone dell’antico Egitto e i suoi servi fino alla creazione delle Ushabti).
La pratica autoimmolatoria, resa celebre anche dalla storia dei 47 ronin e chiamata Junshi, era solita indebolire i Clan e creare comprensibili disagi alla gestione dello stesso, cosa che portò al divieto (scarsamente ascoltato, tant’è che l’ultima Junshi venne effettuata nel 1912 dal generale Nogi Maresuke) della stessa con la minaccia di dure punizioni.
Concludiamo ricordando come questo codice di vita, guerra e soprattutto di morte fu una caratteristica essenziale dell’esercito nipponico anche e soprattutto nel XX secolo, gli usi dei giapponesi infatti apparvero ai soldati americani come folli, macabri e raccapriccianti proprio come inutilmente sadico e crudele apparve il trattamento dei prigionieri (considerati con il disonore più estremo possibile).

E proprio come disse uno degli ultimi Samurai:
“Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per esserne sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro”. Yukio Mishima

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