Il taoismo arrivò probabilmente nel III sec a.C. ed ebbe un grande influsso sul Sol Levante anche e soprattutto nel corso dei secoli successivi; importantissima fu infatti l’influenza di classici militari e strategici come il noto “L’arte della guerra” di Sun Tzu.
Altra caratteristica cardine del Bushidō presa dal Taoismo fu l’adozione di una prassi il più possibile minimalista ed efficace, austera e pragmatica che andrà poi ad ovvie nozze con l’etica rinunciante del Buddhismo.
Sul rapporto tra la dottrina dell’Illuminato e i Samurai ci sarebbe troppo da scrivere, ma possiamo fare una piccola sintesi dell’avvenuta contaminazione e della presa di coscienza verso la stessa della maggior parte dei Samurai con le parole di Dickinson:
“L’influenza del Buddhismo è stata, per i giapponesi, più estetica che etica. Il feudalesimo giapponese convertì la dottrina della rinuncia del Buddha nello stoicismo del guerriero. Il samurai nipponico rinunciava al desiderio, non per poter entrare nel nirvana, ma per acquisire quel disprezzo della vita che avrebbe fatto di lui un guerriero perfetto”
Questa riflessione può essere condivisa in linea di massima (per quanto, come già trattato in questo blog, non siano mancate esperienze militari propriamente mistiche e strettamente collegate alla religione) ed è esemplificativa del noto disprezzo della vita dei Samurai.
Approfondendo leggermente questo nodo (assolutamente cruciale nell’architettura e nello stile di vita del samurai, vero e proprio marchio spirituale degli stessi) possiamo citare dei celebri passi dell’Hagakure riguardanti questo tema.
Tsunemoto è deciso e libero da ogni dubbio quando afferma che “la Via del Samurai va trovata nella morte” e prosegue:
“Incedere come folli accanto alla morte significa "diventare pazzi". Se nella Via del samurai si coltiva la capacità di giudizio, si verrà presto sconfitti.”
“L'essenza del Bushidō è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata. Quando un samurai è sempre pronto a morire padroneggia la via.”
“Il Codice del Samurai va cercato nella morte. Si mediti quotidianamente sulla sua ineluttabilità. Ogni giorno, quando nulla turba il nostro corpo e la nostra mente, dobbiamo immaginarci squarciati da frecce, fucili, lance e spade, travolti da onde impetuose, avvolti dalle fiamme in un immenso rogo, folgorati da una saetta, scossi da un terremoto che non lascia scampo, precipitati in un dirupo senza fine, agonizzanti per una malattia o pronti al suicidio per la morte del nostro signore. E ogni giorno, immancabilmente, dobbiamo considerarci morti. È questa l’essenza del Codice del Samurai.”
È assolutamente impossibile non vedere, soprattutto in questa ultima citazione, l’enorme influsso buddhista nella pratica del Samurai.
Questa prassi meditativa infatti, derivata dal Buddhismo Theravada e chiamata Maraṇasati è da sempre un metodo attraverso il quale i monaci sviluppano il giusto sentire nei confronti della vita e aiuta gli stessi a distaccarsi e a rinunciare (Nekkhamma) all’attaccamento corporeo.
Partendo da questi presupposti i Samurai erano soliti sfruttare questo distacco raggiunto attraverso la meditazione per donarsi senza alcun tipo di freno in caso di guerra al servizio del Daimyō, dimostrando davanti ai proprio commilitoni e al clan rivale il suo coraggio e il suo fervore marziale. (Oltre alla “contaminazione” Theravada invito tutti a rileggere la Bhagavad Gita e a notare le schiaccianti somiglianze tra la stessa e il Bushidō…ma questa è un’altra storia).
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