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giovedì 21 maggio 2020

Sentieri Selvaggi: un punto di vista identitario - parte I

Nel mese di Aprile del 1956, uscì il film-capolavoro del maestro John Ford nelle sale Americane. Ovviamente sto parlando di Sentieri Selvaggi con John Wayne, nei panni di Ethan Edwards. In tutti questi anni, sono riuscito a ricavarne una personale analisi, la quale, è frutto di un sentimento sudato e profondo nei confronti di quest'idea del maestro Ford.
La sensazione ultima che a me comunica Sentieri Selvaggi è che il valore del singolo è superiore a quello di qualsivoglia massa. In esso, infatti, risuonano mille significati e archetipi culturali: la relazione tra legge e moralità; la necessità della violenza nell'affermare i valori della civiltà; l'eroismo e la libertà del singolo sacrificati alle esigenze della "civiltà".
Ford sembra quasi identificare la chiusura della frontiera con un simbolico rito di passaggio, la dolorosa transizione da una società agraria Anglosassone a uno stato multiculturale e multietnico. Infatti, già all'epoca di Sentieri Selvaggi, il mito del West può continuare a fiorire proprio solo come "mito", come immaginario nostalgico di un'America W.a.s.p. ormai persa per sempre. L'eroe Western, così come molti uomini veri di un tempo, teme la civiltà e la visione femminile, i compromessi e la vita sedentaria; li vede come fonti di corruzione e tradimento, un'esca per trascinarlo via da una condizione di indipendenza, di fiducia in se stesso e di certezza nelle proprie capacità.
Da tutto questo scaturisce quella che io chiamo la “solitudine dell'eroe”.
Il personaggio (John Wayne) emana forza, potenza. Compie gesti solenni, definitivi (ad esempio, nei particolari che adoro, quando sfodera le armi dalle fondine); si esprime con frasi brevi, icastiche, che non ammettono repliche. Per chi ha visto il film, sa a cosa mi riferisco.
Egli è laconico, come tutti i veri uomini delle terre selvagge, non esita a interrompere il discorso troppo lungo di una donna («le sarei obbligato se voleste concludere, signora»). Come se un eccesso di parole potesse significare vulnerabilità o perdita del suo controllo. Egli disprezza i beni terreni, le onorificenze, le medaglie («non ha più valore, ora») e soprattutto il denaro; basti vedere come Wayne tratta le monete in questa pellicola. Per contro, sfodera grande destrezza con le armi: spesso compie esercizi di abilità con la Colt, per non parlare della naturalezza con cui spara indifferentemente a bianchi, indiani e bisonti. Egli esercita sugli altri un'influenza dominante; è lui che prende tutte le decisioni significative, compresa quella finale, di uccidere o meno Debbie. I gesti “contro” di lui tendono a rimanere, appunto, solo dei gesti, poco più che povere intenzioni. Un particolare che colpisce l'occhio attento è quello dove Wayne getta via gli oggetti, che gli altri personaggi brandeggiano nei suoi confronti.
Nonostante la sua forza, però, rimane un vagabondo solitario, senza casa, senza donna e privo di un posto fisso nella società: un anarchico identitario. Tutto questo è visto con grande accezione positiva, dai miei occhi; così come, nelle ultime scene del finale, quando la porta si richiude e lo schermo ripiomba nell'oscurità, io condivido con gusto il ritorno di Wayne nel deserto del mito che lo ha generato; fra i sentieri spaventosi della vita vera e solitaria. Un eroe della pazienza e dell'azione ha il potere di dominare la sofferenza, oltre che la propria forza di volontà. Il suo isolamento non è una condanna, ma un rifugio materno, dove Wayne (e spesso anche chi fatica a stare in società oggi) trova il proprio equilibrio. Nessuno, a mio avviso, è in grado di rispondere a certe forze interiori, specialmente quando per estremo idealismo, ci si isola dal mondo moderno asentimentale.

Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz

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