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sabato 23 maggio 2020

Sentieri Selvaggi: un punto di vista identitario - parte III

Sentieri Selvaggi ruota ampiamente attorno al tema dell'incontro/scontro di due razze e culture, quella dei bianchi europei e quella dei Pellirosse nativi. L'apice di questo confronto è reso visivamente esplicito nella sequenza in cui i due, Ethan e Scar, si sfidano faccia a faccia, quasi appoggiandosi l'un l'altro, suggerendo così l'idea di uno specchio che riflette un'identica immagine. E' infatti curioso ma sensato che il maestro Ford non faccia uccidere il capo Comanche Scar a Wayne, ma al suo co-protagonista. Permane per tutto il film la sensazione dello scontro tra due alterità, di un incontro con la parte selvaggia di sé. Se si scendesse nella psicologia di ogni dettaglio non basterebbero mille pagine per descrivere i processi animistici che si basano sull'onnipotenza dei pensieri. Ogni “fazione” ha avuto le sue perdite, Indiani e Bianchi, allo stesso modo.
Il personaggio di Wayne non è affatto contraddittorio; egli possiede la perfetta conoscenza di usi e costumi dei nativi ed è esperto delle abitudini dei Comanches, è in grado di capire la psicologia ed ha assunto l'abitudine indiana di scalpare i nemici ma questo non lo rende diverso da quello che è. Nella sequenza durante la quale spara negli occhi ad un guerriero pellerossa morto per precludergli la via alla Terra del Grande Spirito, prorompe tutta la spiritualità dell'eroe indo-germanico che respinge ferocemente il cristianesimo in quanto nemico dell’etica degli antichi Aryas, etica che per molti versi è molto più similare alla spiritualità nativa indiana che a quella cristiana. Le critiche di Wayne, e quindi di Ford, alla cristianità puritana del Nuovo Mondo non sono per niente velate ma vanno lette attentamente nell'atteggiamento del protagonista. Il cristianesimo è il nemico dell'azione, è il nemico dell'individualità ma soprattutto è nemico dell'origine primigenia dell'eroe europeo.
Da questa sintesi si può estrarre il nocciolo etico di Wayne. Egli intimamente odia i mezzosangue (tra cui il co-protagonista, che è per un ottavo Cherokee), è disgustato alla vista delle prigioniere bianche («non sono più bianche, sono Comanches»), vuol vedere morta Debbie perché è stata contaminata sessualmente da Scar («ha vissuto insieme ad un indiano»), offende Scar («sei molto intelligente… per un indiano»).
Da qui occorre muovere un'altra pesante critica nei confronti di quella cristianità puritana tutta americana per la quale la prospettiva di una possibile miscegenation tra le due razze essere la cosa più terrificante quando in realtà non è affatto così. Il puritanesimo ha infatti sviluppato una sorta di senso di colpa nei coloni europei, rendendoli deboli spiritualmente e non permettendo ad essi una sana presa razziale sul continente. A questi pennivendoli religiosi importa che lo scritto di un libro semitico venga diffuso il più possibile, poco interessa se chi lo fa è bianco, nero, giallo o rosso. Il concetto centrale di questo morbo desertico onnipresente è la “purezza [sic!]” dell'anima, la quale trascende nettamente dall'idea di sangue ed è quindi, in ultima analisi, la negazione stessa dello spirito indo-germanico.
Ancora una volta, il maestro Ford mi aiuta ad esprimere un concetto che altrimenti sarebbe rimasto incastrato fra i meandri del mio cervello. Nel momento in cui questa “questione” appare nella pellicola, si staglia il primo piano di John Wayne alla vista delle prigioniere bianche che hanno avuto relazioni sessuali con gli Indiani, un'immagine incancellabile che conta più di mille discorsi e di mille disamine.

Alessandro Rossolini, in collaborazione con le vie di Wodanaz  

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