O sull’anemia dell’onore occidentale
La taurocatapsia antica, diffusa dal mediterraneo all’india, che prevedeva il salto di un toro o di un uro da parte di un giovane aveva un significato rituale molto potente ed era legata a pratiche religiose connesse agli antichi culti indoeuropei, si trattava di una prova di forza e coraggio, di un scontro fra pari tra l’uomo e l’animale in cui l’atleta accettava un forte rischio personale.
Era anche, allo stesso modo, un’offerta, l’accettazione della possibilità di un tributo di sangue.
Era una prova riservata solo ai migliori, ai giovani, a coloro che più erano cari agli Dèi.
La tauromachia, evoluzione o differenziazione della taurocatapsia, prevedeva in origine lo scontro fra un giovane, a cavallo o a piedi, ed un toro, senza intermediazioni, ed era anch’essa espressione di ideali di coraggio e onore.
Con l’avanzare della “civiltà” e l’indebolimento dei valori di cui sopra altri elementi si aggiunsero alla pratica, i partecipanti diventarono più numerosi mentre il toro iniziò ad essere indebolito o reso meno pericoloso con stratagemmi di ogni genere fino ad arrivare alla sua rappresentazione attuale, volgarmente detta corrida.
La toreada, divisa in tre parti, le prime due (tercio de varas, tercio de banderillas) hanno il compito di indebolire il toro, ferendolo e stancandolo mentre la terza (tercio de muleta) è la fase finale, nella quale il toro, ormai spossato, viene finito (o, talvolta, risparmiato).
Si tratta, in definitiva, di una versione edulcorata del rito originale, una parodia vigliacca di quello che, un tempo, era uno scontro rituale e leale fra l’uomo ed un fiero animale e va per questo condannata, senza alcuna esitazione, da quanti propugnano una società sana.
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