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giovedì 20 febbraio 2020

Relazioni fra lo Studium di Napoli ed il sostrato notarile-giuridico ad esso precedente - Parte IV


2.2 Le Costituzioni Melfitane
È dunque palese come le Constitutiones Melfitane fossero un ulteriore strumento per la lotta al baronato.
Il disegno di Federico II era chiaro, ossia favorire l'affermarsi di un ceto borghese che potesse bilanciare l'influenza baronale e dell'alto clero, organizzando una rete amministrativa diffusa ovunque sul territorio che non lasciasse spazio a centri di potere autonomo.
Le Costituzioni Melfitane rappresentano il fulcro di questo nuovo disegno. Redatte nell'Agosto del 1231 - seppur l'attività preparatoria fosse partita circa un anno prima con l'ordine esplicito, impartito da Federico II ai suoi giustizieri, di cercare delle sopravvivenze delle Assise dell'avo Ruggero II[12] e del cugino Guglielmo II - le Constitutiones Melfitane sono composte da tre libri, contenenti una totalità di duecentotrentacinque titoli. Il primo libro, di centosette titoli, si apre con le norme a difesa della fede cui seguivano quelle riguardanti la maiestas, la pace interna e l'ordine pubblico, quelle sulla giustizia, l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione finanziaria e dei castelli e quelle sul processo civile. Il secondo libro, di cinquantadue titoli, conteneva norme processuali, penali e sulle responsabilità dei judices. Il terzo libro, che era composto da novantaquattro titoli, riguardava i beni della Corona, la feudalità, le professioni ed i mestieri, l'ambiente, il commercio ed una varietà di reati a questi connesse.
Nonostante il fatto che le Costituzioni Melfitane fossero di poco posteriori alla fondazione dello Studium di Napoli, in esse non vi è alcun accenno a quest’ultimo né “a scuole di diritto, nonostante [vi] si tratti di giudici, notai e avvocati e si prescrive per essi un esame da parte di funzionari pubblici” ( v. Lidia Capo, Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, nota 20, p. 35 ). La ragione di questo silenzio è da ricercarsi nel fatto che nel 1231 lo Studium partenopeo fosse allora in un uno stato misero, o forse addirittura chiuso.
Poco tempo dopo la loro promulgazione, le Costituzioni Melfitane vennero glossate dai maestri dello Studium di Napoli.
Alla stregua dei contenuti della scienza universitaria che veniva insegnata nello Studium, basata sullo ius romanorum come anche sullo ius langobardorum, le stesse Costituzioni Melfitane presentavano al loro interno norme che facevano riferimento al diritto romano ed a quello longobardo; esempio di ciò è una delle costituzioni del libro II, la trentatreesima, riguardante la cosiddetta monomachia, que vulgariter duellum dicitur, dove appunto si fa riferimento sia al diritto romano che a quello longobardo[13].
Centrale, per poter cogliere il ruolo svolto dallo ius romanorum e da quello langobardorum all’interno delle Costituzioni Melfitane, è lo studio di quella costituzione del libro I che inizia con la parola Puritatem (I 62.1). Essa disponeva che camerari[14] e baiuli[15] regi prompto zelo iustitiam ministrabunt, et quod secundum constitutiones nostras et in defectu earum secundum consuetudines adprobatas ac demum secundum iura communia, Langobardorum videlicet et Romanorum, prout qualitas litigantium exiget, iudicabunt ( v. Pertz-Waitz-Wattenbach, Monumenta Germaniae Historica, die Konstitutionen Friedrichs II, pp. 227-228 ). La gerarchia delle fonti indicata da Federico II ai suoi magistrati provinciali prevedeva innanzitutto il ricorso alle constitutiones nostras ( i.e. “costituzioni regie” ), in loro mancanza alle consuetudines adprobatas ( i.e. “consuetudini approvate” ) ed infine, nel caso in cui anche quest’ultima fonte di diritto si fosse dimostrata mancante, al diritto longobardo ed al diritto romano, entrambi indicati con la qualifica di ius commune. Come già in precedenza ricordato, nella dottrina meridionale il diritto romano era visto come quel diritto razionale che era strettamente connesso alla res publica. Nonostante la caduta della Pars Occidentis dell’Impero, questo patrimonio giuridico si era conservato e su di esso si erano costruite quelle consuetudini riguardanti la res publica delle varie comunità urbano-meridionali. “Il diritto romano, fondato sui libri legales commentati ed insegnati nello Studio napoletano, costituiva, dunque, la matrice delle consuetudini locali che si rifacevano […] ad una legittima ed equa tradizione risalente all’antico dominio di Roma” ( v. Mario Caravale, Diritto senza legge, p. 112 ). Nella Lombarda dei Libri Legales vi era riportato quel diritto longobardo che, in concomitanza con il diritto romano, aveva condizionato nel profondo gli usi e le consuetudini del meridione.
Lo stesso Federico II, alla stregua della maggioranza dei giuristi medievali del meridione, riconobbe la legittimità della natura di diritto comune anche per il diritto longobardo e lo pose dunque sullo stesso piano di quello romano, in quanto entrambi i diritti “costituivano le matrici comuni di tutti gli usi osservati dalle comunità del Regno” ( v. Mario Caravale, Diritto senza legge, p. 113 ).


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  • [12] Con le Assise di Ariano, redatte fra il 1140 ed il 1142, Ruggero II, alla stregua di Federico II, aveva cercato, fra le altre cose, di limitare il potere ed il numero dei vassalli, per la maggior parte baroni normanni; questi erano soliti ritenersi per lignaggio alla stregua della famiglia reale degli Altavilla ( non è un caso che nell'Assise XIX, nota come De nova militia, Ruggero II avesse deliberato che solo la nobiltà, previa approvazione del re, potesse accedere al cavalierato; in questo lo scopo era di legittimare le passate assegnazioni di feudi centrali fatte dal re ai suoi parenti più stretti, come in precedenza aveva fatto lo stesso Ruggero I il Granconte ). Secondo il manoscritto Vaticano Latino 8782, le Assise si aprono appunto con l'espressione “Legum auctoritatem per ispsius [Dei] gratiam optinemus” volta a legittimare erga omnes il potere di Ruggero II di fare leggi, aggiungendo poi nell'Assise XXVII “ad curam regni pertinet leges condere”.
  • [13] Attamen si accusator in crimine prius offerat se probare per testes et si in eorum probatione deficiat, tunc inquisitionis et pugne probatione minime locum habente reus, qui nocens non convincitur et presumitur innocens, absolvatur, quod ius inter omnes tam Francos quam Longobardos et in causis omnibus volumus esse commune ( v. Pertz-Waitz-Wattenbach, Monumenta Germaniae Historica, die Konstitutionen Friedrichs II, pp. 340-341 ).
  • [14] Dalla voce Cameràrio in ‘Enciclopedia italiana Treccani’ : Termine che, nel Medioevo, designava in genere la persona addetta alla custodia del tesoro, all'amministrazione dei beni del sovrano, di una comunità civile o religiosa, ecc. (detto anche camerlengo); nella costituzione comunale era il tesoriere del comune. Nella monarchia normanna e sveva, il gran c. era l'ufficiale preposto alla camera o fisco regio: riceveva il denaro che a questa si versava, aveva cura della persona del re, sopraintendeva a tutti i tesorieri del regno, presiedeva il tribunale supremo delle finanze: col tempo diventò ufficio onorifico.
  • [15] Dalla voce Bàiulo in ‘Enciclopedia italiana Treccani’ : Dal lat. baiŭlus «portatore»; v. balio. Balivo, s.m. nelle varie accezioni storico-amministrative.

Note:
Essendo questa una tesina universitaria svolta per il corso di Storia Medievale III (2019 - 2020) tenuto dalla professoressa Lidia Capo, ne sono vietati l'utilizzo e la condivisione da parte di terzi non affiliati a questo sito

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