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giovedì 23 maggio 2019

Il sacro-popolare e militare nel Giappone Feudale, parte II

Non sappiamo precisamente il perché gli Yamabushi unissero a queste pratiche anche quella militare (buyu) anche se possiamo dedurre che venissero svolte come protezione dai samurai e dalle varie bande criminali che infestavano quelle zone. Per quanto abili in varie tipologie di armi come per esempio l’arco, spade e pugnali la loro arma preferita (proprio come sarà per i Sōhei) fu la naginata, un’arma che ricorda i falcioni europei e il Guan-Dao/Dadao cinese.

È importante sottolineare, a scanso di equivoci, come gli Yamabushi non furono una massa di pseudo-santoni resi aggressivi dal clima del tempo, ma spesso di distinsero in battaglia come (se non meglio) i veri e proprio guerrieri professionali. Ricordiamo per esempio L’abate Soshin e per la sua abilità tattico-militare e l’abate Sessai Choro che fu insegnante del futuro unificatore nazionale Tokugawa Ieyasu e aiutò sempre a livello militare Imigawa Yoshimoto.

Per quanto riguarda la rivolta degli Ikkō-Ikki dobbiamo invece notare come la loro origine possa essere fatta risalire alle prime rivolte popolari contro lo Shogunato Ashigaka. Già in questa prima serie di rivolte si inizierà a dimostrare la forza militare dei contadini inferociti che spesso riuscirono ad evitare, grazie alla forza dei loro eserciti “improvvisati” la riscossione delle tasse da parte degli esattori imperiali, nonostante le scorte armate al seguito degli stessi. Anche i più piccoli e modesti villaggi riuscivano a volte a difendersi e a contrattaccare le forze imperiali: ricordiamo infatti quando nel 1428 e nel 1485 gli anziani a capo dei villaggi nelle province di Omi e Yamashito furono a capo di rivolte contadine contro il già citato Shogunato Ashigaka, reo di non essere in grado di proteggerli dalle incursioni ed ebbero successo per più di 7 anni. Possiamo inoltre ricordare l’eroica resistenza dei contadini nella rivolta della provincia di Echizen contro le armate del nobile Asakura, dove i buke, ossia i guerrieri professionali inviati dal nobile, ebbero non poche difficoltà nel reprimere quella che doveva inizialmente essere una semplice seccatura. La figura principale messa a capo degli Ikkō-ikki fu il monaco Rennyo, capo della setta Jōdo Shinshū.

Gli Ikkō-ikki seguivano in modo fanatico e violento il Buddhismo della terra pura (la setta con più fedeli al mondo fra l’altro, più di 200 milioni, soprattutto in Cina), un enorme ramo del Buddhismo Mahāyāna, che prevedeva la venerazione e l’invocazione della figura del Buddha Amida (o Amitābha) come principio del Buddha eterno, ossia della natura di Buddha stessa.
La caratteristica principale di questa corrente è la poca enfasi che viene data, a differenza per esempio della scuola Theravada, alla realizzazione e all’esercizio personale nella via spirituale, i buddhisti della terra pura credono infatti (in un modo che può ricordare alla lontana il nostro Cristianesimo) che l’invocazione del mantra “Namu Amida Butsu” recitato con puro spirito di devozione li porterà una volta morti alla rinascita in una delle numerosissime terre pure esistenti ed abitate da Buddha e Bodhisattva illuminati, dove potranno ricevere i preziosi insegnamenti degli stessi e dove potranno finalmente raggiungere il Nirvana supremo. 
Narra infatti il sutra della vita infinita che lo stesso Buddha Amida fece questo supremo voto: 

«Se, quando otterrò la buddhità, gli esseri senzienti nelle terre delle dieci direzioni che sinceramente e pieni di gioia si affidano a me, desiderano di rinascere nella mia terra, e chiamano il mio nome, almeno dieci volte, non rinasceranno nella mia terra, io non voglio ottenere la perfetta illuminazione.»

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

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