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sabato 11 maggio 2019

Monachesimo innaturale, parte I

I primordi

“L'isola è in squallore, per piena di uomini che fuggono la luce. Da sé si definiscono, con nome greco, monaci per voler vivere soli, senza testimoni. Della fortuna, se temono i colpi, paventano i doni. Si fa qualcuno da sé infelice per non esserlo? Che pazza furia di un cervello sconvolto è mai questa: temendo i mali, non sopportare i beni?”

Sono queste le parole con le quali il prefetto di Roma Rutilio Namaziano nel 414 descrisse quegli asceti che vivevano sull'isola di Capraia nell'arcipelago dell'Elba; così come gli altri intellettuali della classe aristocratico - senatoria che erano rimasti legati agli antichi dei di Roma anche Namaziano guardava a questa nuova dimensione della vita religiosa cristiana con riprovazione e naturale disgusto.
Sin dal 270, anno in cui un ricco contadino egiziano di nome Antonio fece della anacoresi (da ἀναχώρησις greco per “ritirarsi”) nel deserto la sua vocazione, l’ideale del perfetto cristiano mutò. L’età delle persecuzioni ai danni dei cristiani condotte per ordine delle alte autorità romane era oramai prossima al termine; tre soli anni separavano il 310, anno del ritorno dell'eremita Antonio alla vita secolare, da quel rescritto di Costantino che fece del Cristianesimo ‘religio licita' (i.e. “religione tollerata”) ed alla figura del ‘martyrus' (“testimone” dal greco) sino ad allora incarnazione dell'ideale del perfetto cristiano ma ora non più conciliabile con i tempi mutati si venne a sostituire quella dell'anacoreta grazie anche alla diffusione virale della ‘Vita Antonii' unica biografia di quell'Antonio di cui si era parlato in precedenza, scritta dal suo seguace Atanasio.
Dalle prime esperienze proto cenobitiche (da κοινός βίος greco per “vita comune”) delle laure (da Λαύρα greco per “cammino stretto” / “grotta”, colonie di anacoreti che vivevano in grotte / capanne collegate fra loro da edifici di uso comune sotto l'auctoritas di un superiore) protagoniste indiscusse del cosiddetto “turismo monastico” ne scaturì il monachesimo regolare su impronta cenobitica; basti pensare a Pacomio e a Basilio di Cesarea i quali tramite la stesura delle prime norme di carattere organizzativo dette ‘Regole' - da qui il termine “monachesimo regolare” - per le comunità da loro fondate diedero origine alla vita cenobitica strutturata, ponendo quest'ultima in netta opposizione con la vita non regolare del clero secolare.
La Regola di Basilio di Cesarea pur non essendo propriamente un testo normativo in quanto raccolta di precetti ed esortazioni rivolte ai suoi confratelli del cenobio da lui fondato a Cesarea è importante per comprendere la portata di questo fenomeno religioso. Affianco all'obbligo del lavoro per sostenere la comunità, all'attività caritativa, all'obbedienza assoluta al superiore Basilio definì i rapporti fra ecclesia e cenobio; centrale era la sottomissione del cenobio al vescovo della diocesi in cui il cenobio era sorto.
Quel complesso sistema di valori naturali che sino ad allora aveva definito l'individuo del mondo antico venne visto da questi nuovi asceti della solitudine come l'ostacolo principale al cammino di perfezionamento di sé; è questa la cosiddetta ‘fuga mundi' (latino per “fuga dal mondo”) ossia il distacco completo del monaco dalla famiglia e dalla società. Per questo sin dai primordi gli scrittori cristiani esaltarono il celibato come condizione indispensabile alla vita monastica, vita che doveva essere libera da cure e preoccupazioni proprie della vita secolare al fine di potersi occupare solamente delle cose di Dio. Ecco che qui si palesa il secondo pilastro della manifestazione ascetico - monacale, il ‘contemptus mundi' (latino per “disprezzo del mondo”) ossia il rifiuto categorico di seguire l'ordine naturale delle cose che spinge a ritenere aberrante una possibile vita familiare.

Fonti:
- Il cammino di Cristo nell'Impero romano, Paolo Siniscalco
- Storia del monachesimo medievale, Anna M. Rapetti

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