Cerca nel blog

venerdì 22 febbraio 2019

“Gl Cierv” di Castelnuovo, mito arcaico di morte e rigenerazione -Parte terza

“Gl Cierv” rito di caccia

Mito teriomorfo dunque ma non solo. Altrettanto antica all’interno del mito dell’UomoCervo, è la conpresenza inequivocabile del rito di caccia, altra prerogativa che rafforza l’ipotesi di una radice arcaica de “Gl Cierv” di Castelnuovo. In particolare tale tipo di ritualità è incarnata dagli altri due personaggi che prendono parte alla pantomima fin dai tempi più remoti: Martino e il Cacciatore.

Su Martino è necessario soffermarci, è lui infatti che riesce, in seguito a una vera e propria danza rituale, a imbrigliare il cervo con la sua corda, in una scena carica di significati magico-simbolici. In primis il colore: Martino è completamente bianco, candido, colore della luce e delle forze della primavera ventura che riescono, dopo una cruenta lotta, a legare il cervo; la corda e il cappio sono altri elementi di forte valenza magica che rimandano ad alcune particolari pratiche sciamaniche e alla cosiddetta magia dei nodi e dei legamenti. Il cappello bianco e a punta completa la figura, quasi una candela, la cui luce illumina il buio inverno della piazzetta di Castelnuovo; ma la cosa più interessante è la connessione, indicata da molti studi, di Martino con la figura di Pulcinella. Anzi, Martino viene addirittura indicato come il “Pulcinella molisano”, e l’accostamento non è per nulla improbabile. Pulcinella infatti ha un antenato altrettanto illustre di quelli dell’UomoCervo ed è il Kikirrus della commedia Atellana, forma teatrale in cui veniva utilizzata la lingua osca improvvisando su dei canovacci per lo più licenziosi. Kikirrus, il gallo (ancora oggi in Campania una particolare specie di galletti sono chiamati chicchinielli, con evidente omofonia), è l’unica maschera teriomorfa (torna il teriomorfismo) della commedia Atellana e la stessa etimologia del termine Pulcinella, ci riporta al pulcino, cioè a un piccolo gallo. Ora, il gallo, non solo è simbolo del grano e delle messi, ma è soprattutto uno dei più potenti archetipi del mattino, “matui” in osco, forma da cui è con tutta probabilità derivato il teonimo Matuta: la Mater Matuta venerata dalle genti di lingua osca, era la dea del mattino, delle nascite, ma soprattutto della rinascita e dell’eterna ciclica rigenerazione tenebre/luce. Proprio per questa sua connotazione il gallo è un simbolo antichissimo, una reminescenza viva di forme di cultualità pre-indoeuropee legate alla figura della cosiddetta Grande Madre, la stessa Mater Matuta fa parte di quel tipo di reminescenza mitica e cultuale, e il gallo lo ritroviamo, simbolo di ricchezza e prosperità, su numerose monete campane, soprattutto da Cales e Suessa.

Infine, anche il nome, Martino, risulta essere un chiarissimo riferimento al dio Marte e “originariamente, Marte non era il dio della guerra bensì della vegetazione. A Marte infatti si rivolgeva il contadino, pregando per la prosperità del suo grano e delle sue vigne, dei suoi alberi da frutto e dei suoi boschi.” (4) Un ulteriore elemento, dunque, che vede in Martino un protettore della natura primaverile e portatore di luce.

Ma torniamo al rito di caccia e soprattutto alla figura del cacciatore che, oggi con un fucile, nei tempi remoti forse con una lancia o con arco e frecce, riesce ad uccidere il Cervo e la Cerva, salvo poi, assumendo una prerogativa del tutto sciamanica (ed utilizzando una tecnica del tutto sciamanica), avvicinarsi ai due animali che giacciono esanimi a terra, soffiare loro nelle orecchie, ridargli magicamente la vita. La scena non avrebbe bisogno di commenti: il rituale ancestrale, magico e sciamanico esce fuori in tutta la sua potenza, il soffio vitale - e intriso di potenza magica- è un elemento che richiama a tempi remoti e a forme di profondo rispetto tra l’uomo e l’animale, la stessa forma di “premura” che troviamo nella figura del cacciatore il quale,dopo aver in un certo senso “domato” la furia dell’inverno incarnata dall’animale, tributa allo stesso una forma di rispetto massima, facendo scendere in campo le imperscrutabili forze della magia per farlo tornare in vita. E’ in questo istante particolare della pantomina che avviene la celebrazione della rigenerazione, all’interno di un momento rituale in cui non è centrale soltanto la figura dell’UomoCervo ma tutto l’insieme della scena. Sempre mutuando un bellissimo passo di Eveline Lot-Falck: “Che cosa pensa l’uomo degli animali, questi esseri misteriosi accanto ai quali si trova a vivere? Li vede solo come una preda, un mezzo per garantirsi la sussistenza? Certamente no. Una simile concezione materialistica è affatto estranea alla mentalità primitiva, che si muove in un mondo intriso di religiosità, in cui niente è inanimato, in cui tutto, perfino le pietre, è dotato, se non di un’anima in senso stretto, perlomeno di vita. Il primitivo non fa classificazioni, non ordina esseri e cose in categorie. Nulla è mai acquisito, definitivo. Conformemente alla concezione ciclica del tempo, il passato è sempre attuale, il divenire è un eterno inizio. [..] In questo universo mutevole non sono ancora state erette barriere tra i regni animale, vegetale, persino minerale; non vi sono che aspetti differenti, apparenze cangianti. [..] Tutto ciò che esiste vive, tutto ciò che vive è unito da forti legami di solidarietà. […] Presso i popoli cacciatori, come i siberiani, l’uomo si sente intimamente legato agli animali. Tra specie umana e specie animale non è questione di superiorità, non c’è alcuna differenza essenziale. Il cacciatore considera l’animale almeno come un suo pari.[…] Nella sfera della magia, attribuisce all’animale un potere non inferiore al suo. D’altra parte, l’animale è superiore all’uomo sotto uno o più aspetti: per forza fisica, agilità, finezza dell’udito e dell’olfatto, tutte qualità apprezzate dal cacciatore. Questi attribuirà un valore ancora maggiore ai poteri spirituali associati a quelle doti fisiche. Al pari dell’uomo, l’animale possiede una o più anime e un linguaggio. Di più: spesso comprende il linguaggio umano, mentre il contrario è vero solo per gli sciamani.”(5). Questo lungo passaggio di Lot-Falck, seppur con un campo di indagine diverso, sembra parlarci dello stesso tipo di ritualità, ma soprattutto di spiritualità, che è alla base del rito de “Gl Cierv”, proprio nel momento in cui c’è l’incontro/scontro e rigenerazione finale tra il cervo e il cacciatore. Questi tre personaggi: UomoCervo, Martino e Cacciatore sono, a parere unanime, la radice essenziale e più arcaica del rito de “Gl Cierv”, gli elementi che lasciano più che aperte le congetture relative a una fondazione antichissima del rito.

Note:

- (4) James Frazer, Il Ramo d’Oro, Newton Compton

- (5) Eveline Lot-Falck, I riti di caccia dei popoli siberiani, Adelphi

Articolo a cura di Massimiliano Palmesano, dalla pagina Facebook “Janara”, pubblicato previa permesso.
Un suo precedente ed interessantissimo scritto può essere trovato sulla sua pagina o in questo blog ricercando “Janara” nel motore di ricerca interno.

Nessun commento:

Posta un commento