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martedì 6 novembre 2018

Dziady, la festa dei morti - Parte I

La Polonia, nonostante il cattolicesimo imperante, ha un’immane tradizione folklorica relativa a creature soprannaturali, demoni e ritornanti. Oltre a ciò, in Polonia c’è un antico apparato di credenze e rituali per celebrare la festa dei morti, un vero e proprio Halloween di area slava documentato fino al XIX Secolo e denominato Dziady. La festa dei Dziady presenta caratteristiche di autonomia fideistica e cultuale rispetto alle altre tradizioni simili a livello europeo e mondiale. La credenza di un giorno in cui i morti tornano nel mondo dei vivi è transculturale, si ritrova in una miriade di luoghi diversi, fra cui l’Europa celtica e i paesi anglofoni odierni, l’Antica Roma, il Giappone, il Sudamerica precolombiano e contemporaneo.

La festa dei Dziady è stata celebrata per millenni nelle campagne polacche, ma anche in altre zone di area slava come la Bielorussia, l’Ucraina, la Lituania, la Russia e la Curladia, ovvero una parte dell’attuale Lettonia. È una tradizione antica che proviene dai proto-Slavi e dai Balti. Gli Slavi avevano non una, ma tre o addirittura sei feste dei morti nel corso dell’anno, a seconda dell’area. Le più importanti erano il due di maggio e nella notte fra il 31 ottobre e il primo novembre. L’idea centrale di questa festa è che i morti non siano del tutto morti, ma che possano tornare fra i vivi almeno in periodi prestabiliti dell’anno, e che sia necessario adempiere ad una serie di atti propedeutici per propiziare un loro felice ritorno. Questi riti partono fin dalle primissime fasi della morte.

In effetti, oltre che funzionali all’elaborazione del lutto di chi resta, i riti funebri sono anche rituali di iniziazione per i morti, in cui il corpo del defunto viene lavato e preparato a una nuova fase della sua esistenza, quella oltremondana. Nella Polonia della civiltà contadina, per secoli, erano prescritte una serie di pratiche per evitare che il morto seppellito da poco tornasse subito nel mondo dei vivi. Per questo motivo spesso i morti venivano sepolti senza scarpe, con l’eccezione delle giovani madri, alle quali le scarpe venivano lasciate di modo che potessero percorrere agevolmente la strada dal cimitero alla loro casa, per occuparsi dei loro piccoli orfani.

La vita dopo la morte non era ritenuta granchè diversa da quella prima, e si credeva che i morti adempissero alle stesse funzioni dei vivi, che avessero le stesse esigenze e gli stessi bisogni. C’erano delle usanze funebri peculiari che rivelano l’aderenza a queste credenze. Ad esempio, nelle bare dei morti venivano messi degli oggetti consoni al loro status: i bambini avevano i loro giocattoli, gli studenti si portavano nell’aldilà i loro amati libri, gli uomini ricevevano per il viaggio del tabacco, le donne incinte si portavano il corredino per il loro nascituro, i pescatori non erano pronti per partire se qualcuno non aveva messo nella bara le loro reti. Anche gli ubriaconi venivano onorati con tutti i crismi, e nelle loro bare si metteva una bottiglia di vodka.
Era assolutamente prescritto di porre nella bara tutti gli oggetti che potevano servire al morto, altrimenti, per la festa dei Dziady, il defunto sarebbe tornato a reclamarli. Una volta pacificato nelle sue esigenze, sarebbe potuto tornare per fare cose più utili, come ad esempio per rivelare dove aveva nascosto dei soldi, o per chiedere perdono per qualcosa che aveva fatto da vivo.

Fonti:
- http://www.kainowska.com

Articolo in collaborazione con la pagina Facebook “Slavic Polytheism and Folklore notes”

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