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lunedì 29 ottobre 2018

La follia di Erisittone

Anticamente l'Europa era ricoperta da centinaia di boschi sacri, luoghi volutamente lasciati inviolati per millenni dall'uomo e in cui, nonostante l'avanzare delle città e delle coltivazioni, venivano preservate la flora e la fauna selvatica. 

Un interessante mito che tratta del legame tra uomo, divinità e ambiente naturale è quello del principe tessalo Erisittone (ρυσίχθων), le cui fonti più interessanti sono gli inni di Callimaco e le Metamorfosi di Ovidio.

Erisittone era un uomo arrogante e avido, che disprezzava le divinità e aveva solo a cuore i propri interessi. 

Un giorno decise che avrebbe costruito una grande sala per i festeggiamenti radendo al suolo un bosco sacro a Demetra/Cerere, dea madre della terra e artefice del ciclo delle stagioni. 

Questo luogo, situato a Dotio, non era mai stato toccato da mani umane. 

Callimaco dice che a stento una freccia poteva passare al suo interno tanto era folto, e che "dai rigagnoli sgorgava un'acqua come ambra". 


La Dea lo amava quanto Eleusi, il suo luogo più sacro, ma per Erisittone e i suoi uomini, incapaci di vedere la bellezza, era semplicemente un posto da distruggere per reperire legna. Nella versione di Ovidio, "Lì si ergeva una quercia immensa, secolare, ch'era lei da sola un bosco, e aveva tutto intorno al fusto addobbi di nastri, di ex voto e di ghirlande, a ricordo di grazie ricevute. Ai suoi piedi un'infinità di volte avevano danzato in festa le Driadi [spiriti delle querce], in cerchio, mano nella mano, intorno al tronco, che per le sue enormi dimensioni chiedeva più di quindici braccia per circondarlo. 


Sotto questa quercia il resto della selva scompariva, così come scompare l'erba ai piedi d'ogni pianta." Erisittone, giunto sul luogo, ordinò ai suoi venti compagni di fare a pezzi l'albero millenario. 

Quando vide che alcuni di loro esitavano, prese lui stesso l'ascia gridando: "Quand'anche non fosse solo cara alla dea, ma la dea in persona, tra poco a terra si schianterà con tutta la sua cima frondosa!". Vibrò quindi un primo terribile colpo alla quercia sacra, che parve lanciare un avvertimento alla banda di vandali. La sua corteccia sbiancò e dalla ferita nella corteccia fuoriuscì un getto di sangue. Uno dei soldati di Erisittone a quel punto si spaventò e, come risvegliatosi, cercò di impedire al suo capo di continuare la distruzione. 

Purtroppo non ci riuscì e finì per essere decapitato dal rabbioso Erisittone, che continuò poi l'abbattimento dell'albero. 

Callimaco narra che Demetra percepì subito la sofferenza delle sue piante sacre e che volle manifestarsi agli uomini per interrompere il loro operato. 

Inizialmente apparve loro nella forma di Nicippe, la sacerdotessa che presiedeva al suo culto nella città, con in mano ghirlande di papaveri e una chiave appesa alla spalla. 

La dea parlò a Erisittone con dolcezza, cercando di farlo ragionare: "Figlio, chiunque tu sia che tagli gli alberi consacrati agli dèi, fèrmati, figlio, figlio molto diletto ai genitori, fèrmati ed allontana i servi tuoi, se non vuoi che ti mostri la sua ira la dea Demetra, di cui ciò che è sacro stai devastando".  Come risposta l'avido tessalo le lanciò uno sguardo d'ira, simile a quello di un leone, minacciandola di piantare l'ascia anche nel suo corpo se avesse di nuovo interrotto la costruzione della casa in cui avrebbe elargito festini e banchetti. Intanto, invisibile, Nemesi trascrisse queste parole sulle sue tavole, decretando la fine del principe. 


Visto che la calma e la ragione non funzionavano con quei folli, Demetra si manifestò allora nella sua terribile forma divina: immensa e splendente, con i piedi toccava il suolo mentre il capo giungeva fino ai cieli. I venti compagni di Erisittone, uomini grandi "come giganti", per poco non morirono per la paura. Mentre loro, meri esecutori di ordini, fuggivano disordinatamente, la dea tuonando si rivolse al loro comandante. Chiamandolo non più "figlio" ma "cane" gli disse minacciosa che avrebbe banchettato, sì, ma senza fine. Immediatamente, una fame ardente e inarrestabile gli penetrò nelle viscere. 

Nel racconto di Ovidio, dopo la distruzione del suo albero, la dea al posto di manifestarsi agli uomini inviò una sua emissaria a cercare la Fame in Scizia, personificata come una vecchia orribile, rinsecchita e senza ventre, con il torso che pareva sospeso sulla spina dorsale. 


Seguendo gli ordini divini, la Fame si introdusse di notte in casa di Erisittone,  penetrando nel suo corpo, respirando nelle sue narici e diffondendosi nelle sue vene.

La conclusione della storia è identica: la maledizione pervase Erisittone, che divenne lacerato da un folle impulso a divorare  ogni cosa. Seduto alla sua tavola, consumava tutto ciò che producevano il mare, il cielo e la terra, senza però smettere di deperire. Torturato dalla brama di cibo e incapace di trovare pace, alla fine Erisittone mandò in rovina la sua casata spendendo ogni cosa per comprare cibo che non poteva estinguere il suo vuoto. 

L'avido principe concluse così la sua vita come un mendicante folle, costretto a racimolare avanzi alle mense e  a divorare il suo stesso corpo per la fame. 

Questa smania di cibo che attanagliava  il principe è la rappresentazione fisica del desiderio inestinguibile che lo aveva portato a non rispettare la vita umana, il mondo e le divinità che lo regolano. Demetra impose solo che il suo corpo rispecchiasse la sua anima corrotta. 


È interessante che il nome Erisittone vuol dire "colui che squarcia/apre la terra", cosa che potrebbe anche far pensare ad un mito riguardante i limiti posti verso un'attività umana e agricola sfrenata e priva di considerazione per i ritmi naturali e per le leggi divine. 

Una questione che direi essere quanto mai attuale -purtroppo- nel mondo di oggi.


Articolo dalla pagina Facebook “Mímameiðr”, pubblicato previa permesso 

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