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giovedì 20 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte I

“Vedo Te – dalle braccia possenti – con innumerevoli bocche e occhi stellati, con infinite mani e gambe adorne di piedi di loto. L'immensa voragine della Tua bocca, con i denti del giorno del giudizio, si spalanca ad ingoiare i mondi intorno che si dissolvono, e lascia in me un puro e gioioso timore reverenziale. Vedendo la Tua immensità tutti i mondi rimangono esterrefatti, ed anch'io!”( XI: 23)

La Bhagavadgītā (traducibile dal sanscrito come “Canto del Divino” o “Canto del Beato”) è prima di tutto un patrimonio spirituale del popolo Indiano e dell’umanità tutta.
Vero e proprio gioiello dottrinale e amatissimo testo sacro dai fedeli del Sanātanadharma (termine sanscrito dentro al quale si racchiude la “Legge/Religione eterna”, che in occidente viene impropriamente chiamata sotto il nome di Induismo) viene da sempre considerata come “Il Vangelo dell’India”, proprio per simboleggiare la cardinale importanza di questo testo e dei contenuti in esso racchiuso.

L’opera, composta probabilmente in un periodo che va dal III secolo a.C. fino al I secolo d.C., è strutturata in 700 versi (chiamate “śloka”, ossia quartine di ottonari) divisi a loro volta in 18 canti (adhyāya), nella versione detta vulgata/settentrionale, collocata a sua volta nel VI parvan (Libro) dell’imponente epopea Indiana chiamata “Mahābhārata” (La grande storia dei discendenti di Bharata).

“Quest’opera dischiude gli occhi del mondo, accecati dall’ignoranza. Al pari del sole, il Bharata disperde le tenebre con la sua esposizione della religione, dei doveri, delle azioni, della contemplazione e così via. Come il plenilunio, diffondendo la sua luce smorzata, favorisce lo sboccio dei fiori di loto, cosi questo Purāṇa (Storia antica) in virtù del suo esposto allarga l’intelletto umano. La lampada della storia illumina “tutta la dimora del grembo della natura”
Vyāsa

E’ indispensabile, per una corretta inquadratura generale storica e letteraria, soffermarsi brevemente sulle mitiche vicissitudini del componimento.
Questo enorme poema epico infatti, il più grande di tutta la letteratura mondiale (contente al suo interno ben 95.000 versi nella versione detta “meridionale” e 82.000 nella versione settentrionale; numeri importanti che come nota saggiamente lo scrittore indiano e più volte candidato al Nobel per la letteratura R.K.Narayan potrebbero contenere le Omeriche Iliade e Odissea riunite assieme ben otto volte) tratteggia il bellicoso contorno nel quale la gītā prende vita.
La paternità del testo viene tradizionalmente riconosciuta a Vyāsadeva (o Vyāsa, traducibile proprio come “Il Compilatore”) facente parte di quella tradizione di saggi, cantori e veggenti che sta sotto il termine sanscrito di Ṛṣi o rishi.
E’ sicuramente lecito, visto l’ampio processo temporale di scrittura che accompagna l’opera, credere che sotto il nome di Vyāsa stia una denominazione generica piuttosto che una singola persona ma noi, proprio come il già citato R.K. Narayan, ci atteremo alla Tradizione.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

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