Nel descrivere questa prassi spirituale Kṛṣṇa spiega come sia importante evitare di attaccarsi ai frutti dell’azione ma come sia assolutamente illegittimo e sciocco evitare la stessa, che è preferibile portare avanti anche con risultati mediocri:
«L'uomo che ha realizzato la sua identità spirituale non ha interessi personali nell'adempiere i doveri prescritti né ha motivo di non compiere tali doveri. Egli non dipende da alcuno per nessuna cosa. Si devono dunque compiere il proprio lavoro e le proprie azioni per dovere, senza attaccamento ai frutti dell'azione, perché agendo senza attaccamento si raggiunge il Supremo.» (III:18,19)
Affinché si possa svolgere con serenità e giustizia il proprio dovere il testo spiega come sia importante il distacco sia dai sensi sia dalle cose mondane, fuorvianti e futili, e dell’importanza di fissare la propria azione e il proprio pensiero sulla divinità.
In questo modo Arjuna comprende come non sia l’inazione a sciogliere i legami karmici che costringono l’anima a reincarnarsi in questa realtà senza fine (La ruota del Saṃsāra) ma come questo ruolo spetti all’azione libera e distaccata.
Cosi la rinuncia non diviene solo un elemento negativo e/o distruttivo, non prende la forma di un’ascesi rinunciante fine a se stessa ma, al contrario, si carica di positività e di devozione spirituale verso il Divino.
Prima di citare dei passi del testo riguardanti questi argomenti credo sia interessante notare come con questa narrazione, la Gītā (pur influenzata da queste correnti) prenda le distanze dalla rinuncia proposta dal Jainismo e dalla dottrina dell’Illuminato (Buddhismo); che al tempo, grazie ai loro meriti e alla decadenza del Brahmanesimo, videro un rilevante accrescimento della loro importanza numerica.
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