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sabato 22 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte III

Terminata questa parentesi possiamo entrare nel vivo della Bhagavadgītā e iniziare a seguire le gesta di Arjuna ma, soprattutto, i suoi dubbi e le sue perplessità.
Siamo proprio nella battaglia di Kurukshetra quando, nel primo capitolo dell’opera (chiamato “Angoscia di Arjuna”), il re cieco Dhṛtarāṣṭra si fa dire dal suo consigliere personale Sanjaya (al quale lo stesso Vyāsa aveva dato la magica possibilità di vedere e sentire tutto ciò che accadeva sul campo di battaglia) quali sono i guerrieri che affollano il luogo dello scontro e quanto grande fosse il valore e il merito di ciascuno di essi:

“Ascolta, o migliore fra gli Arya; i più ragguardevoli fra i nostri, capi del mio esercito, io te li nominerò, affinché tu ne prenda conoscenza” (I:7)

Dopo di ciò il cambio di tono è brusco ed immediato: il testo passa da toni di esaltazione e di affermazione di virtù alla più nera disperazione e sbigottito sgomento.
Come già accennato è Arjuna il responsabile di tanta tetraggine, il nobile principe infatti viene preso da vero e proprio sconforto quando si trova davanti ai suoi familiari e parenti, costretto secondo la legge a muovere guerra contro di loro ed estremamente rattristato da questo fatto.
Si rivolge cosi a Kṛṣṇa, per il momento creduto il suo auriga e principe del clan degli Yādava, con un brano che ritengo opportuno riportare in versione quasi integrale tanto è carico di simbolismo e di preziosi riferimenti:

“O Kṛṣṇa, quando vedo i miei desiderosi di combattere, pronti a farlo, mi vengono meno le membra, la mia bocca si dissecca, un brivido si impadronisce del mio corpo, mi si drizzano i peli, il mio arco Gandhiva mi cade dalle mani, la mia pelle è tutta ardente, non posso star dritto e la mia mente sembra presa da vertigine… (I:28,29,30)
Dunque è un’infamia per noi mettere a morte i Dhrtartastridi, nostri parenti; infatti come potremmo essere felici, o Madhava, dopo aver ucciso la nostra parentela, anche se col cuore ferito da cupidigia, essi non vedono che è un errore distruggere la propria famiglia, crimine mortale tradire i propri amici?
Come non sapremo distoglierci da questo crimine, noi che vediamo quale errore sia la distruzione della famiglia, o Janārdana!
Con la distruzione della famiglia perisce anche l’ordine sacro che deve reggere perennemente la famiglia: distrutto l’ordine, il disordine sicuramente domina la famiglia tutta.
Quando il disordine predomina, o Kṛṣṇa, le donne della famiglia si corrompono; quando le donne
sono corrotte, o figlio di Vrsni, si produce la mescolanza delle caste. (I: 37,38,39,40,41)
Per gli uomini la cui famiglia non è più retta dall’ordine, o Janārdana, v’è una dimora sicura all’inferno! L’abbiamo sentito insegnare tante e tante volte!” (I: 44)

Il capitolo si conclude con le parole di Sanjaya che afferma:

“Con tali parole Arjuna, in piena battaglia, lasciò cadere arco e frecce e si sedette in fondo al suo carro, la mente turbata dall’angoscia” (I: 47)

Il disagio di Arjuna quindi, non è solo un “semplice” dispiacere fattuale scaturito dal dover uccidere persone a lui care e familiari, ma è un vero e proprio simbolo del sovvertimento del Dharma (qui inteso ovviamente nella sua accezione Brahmanica e non Buddhista), ossia del sovvertimento di quell’ordine universale che regge l’armonia del mondo e che va mantenuto ad ogni costo; pena la vittoria delle forze del caos (Adharma) e la rovina che cadrebbe sopra l’intera civiltà.
Il mescolamento delle caste è giustappunto uno dei simboli della vittoria delle forze caotiche e dissolutrici, essendo la gerarchia castale una rappresentazione divina dell’ordine e dell’armonia.

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

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