«Così ogni volta che l'ordine (Dharma) viene a mancare e il disordine avanza, io stesso produco me stesso, per proteggere i buoni e distruggere i malvagi, per ristabilire l'ordine, di era in era, io nasco.» (IV:7,8)
Nella corrente Induista del Visnuismo si tende a considerare quest’ultimo (Visnu) come l’essere supremo.
Nella corrente definita Kṛṣṇaismo invece Kṛṣṇa non viene considerato come un’Avatāra ma è proprio lui ad essere considerato come l’essere supremo stesso (“The Supreme Personality of Godhead”).
Come ci ricorda lapidariamente il Bhāgavata Purāṇa (famoso testo Kṛṣṇaita del IX secolo d.C.):
“Kṛṣṇa è l'Essere supremo stesso”
(Bhāgavata Purāṇa I,3,28)
Chiarito ciò possiamo continuare con l’analisi del secondo capitolo della gītā, a mio avviso uno tra i più belli e tra i più carichi di meravigliose allegorie dell’intera opera.
Il primo tema toccato da Kṛṣṇa è quello della trasmigrazione e dell’indistruttibilità dell’anima.
L’essere supremo spiega infatti al dubbioso Arjuna come lo stesso non debba preoccuparsi di scontrarsi in battaglia contro i suoi familiari, perché:
“Come in un dato corpo, infanzia, giovinezza, vecchiaia toccano in sorte a un’anima incorporata, cosi questa acquisisce successivamente altri corpi. Il saggio non si inganna su ciò” (II:13)
“Ora, riconosci come indistruttibile tutto ciò da cui questo universo è nato. Di ciò che non è immutabile nessuno potrebbe provocare la distruzione.
Questi corpi hanno una fine; lo spirito che vi si incarna è eterno, indistruttibile, incommensurabile.
E perciò combatti, discendente di Bharata” (II: 17,18)
“Alla maniera di un uomo che ha abbandonato le vesti usate e ne prende altre, nuove, l’anima incarnata, abbandonando il proprio corpo usato, si trasporta in altri che sono nuovi” (II:22)
Dopo questa spiegazione sul destino eterno e indistruttibile dell’anima Kṛṣṇa passa a ricordare ad Arjuna il suo dharma/svadharma, (qui intenso come dovere nei confronti della sua casta Kṣatriya di appartenenza e verso le leggi e i doveri dello Stato) e quali conseguenze nefaste gli spetterebbero nel caso di un’eventuale ritirata o fuga dallo scontro.
Citando i versi emanati dallo stesso Kṛṣṇa:
“E considera anche il tuo dovere di Stato: non dovresti, tremando, appartarti, poiché per l’uomo di guerra, secondo la legge sacra del suo Stato, non vi è bene superiore della battaglia. (II: 31)
“Ma se non ti impegni in questo giusto combattimento, rinunci al tuo dovere di Stato, all’onore e ti poni nel peccato.
E inoltre la gente narrerà il tuo imperituro disonore e, per l’uomo rispettabile, il disonore è peggio della morte” (II: 33,34)
Chiarito ciò possiamo continuare con l’analisi del secondo capitolo della gītā, a mio avviso uno tra i più belli e tra i più carichi di meravigliose allegorie dell’intera opera.
Il primo tema toccato da Kṛṣṇa è quello della trasmigrazione e dell’indistruttibilità dell’anima.
L’essere supremo spiega infatti al dubbioso Arjuna come lo stesso non debba preoccuparsi di scontrarsi in battaglia contro i suoi familiari, perché:
“Come in un dato corpo, infanzia, giovinezza, vecchiaia toccano in sorte a un’anima incorporata, cosi questa acquisisce successivamente altri corpi. Il saggio non si inganna su ciò” (II:13)
“Ora, riconosci come indistruttibile tutto ciò da cui questo universo è nato. Di ciò che non è immutabile nessuno potrebbe provocare la distruzione.
Questi corpi hanno una fine; lo spirito che vi si incarna è eterno, indistruttibile, incommensurabile.
E perciò combatti, discendente di Bharata” (II: 17,18)
“Alla maniera di un uomo che ha abbandonato le vesti usate e ne prende altre, nuove, l’anima incarnata, abbandonando il proprio corpo usato, si trasporta in altri che sono nuovi” (II:22)
Dopo questa spiegazione sul destino eterno e indistruttibile dell’anima Kṛṣṇa passa a ricordare ad Arjuna il suo dharma/svadharma, (qui intenso come dovere nei confronti della sua casta Kṣatriya di appartenenza e verso le leggi e i doveri dello Stato) e quali conseguenze nefaste gli spetterebbero nel caso di un’eventuale ritirata o fuga dallo scontro.
Citando i versi emanati dallo stesso Kṛṣṇa:
“E considera anche il tuo dovere di Stato: non dovresti, tremando, appartarti, poiché per l’uomo di guerra, secondo la legge sacra del suo Stato, non vi è bene superiore della battaglia. (II: 31)
“Ma se non ti impegni in questo giusto combattimento, rinunci al tuo dovere di Stato, all’onore e ti poni nel peccato.
E inoltre la gente narrerà il tuo imperituro disonore e, per l’uomo rispettabile, il disonore è peggio della morte” (II: 33,34)
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