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domenica 23 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte IV

Nel secondo capitolo, chiamato “sāṅkhya”, Arjuna continua inizialmente il suo lamento verso Kṛṣṇa che però si rivela essere in realtà non il suo auriga, ma bensì l’Avatāra di Vishnu, dove per Avatāra si intende la discesa in suolo, forma e dimensione terrestre di una divinità:

«Così ogni volta che l'ordine (Dharma) viene a mancare e il disordine avanza, io stesso produco me stesso, per proteggere i buoni e distruggere i malvagi, per ristabilire l'ordine, di era in era, io nasco.» (IV:7,8)

Nella corrente Induista del Visnuismo si tende a considerare quest’ultimo (Visnu) come l’essere supremo.
Nella corrente definita Kṛṣṇaismo invece Kṛṣṇa non viene considerato come un’Avatāra ma è proprio lui ad essere considerato come l’essere supremo stesso (“The Supreme Personality of Godhead”).
Come ci ricorda lapidariamente il Bhāgavata Purāṇa (famoso testo Kṛṣṇaita del IX secolo d.C.):

“Kṛṣṇa è l'Essere supremo stesso”

(Bhāgavata Purāṇa I,3,28)

Chiarito ciò possiamo continuare con l’analisi del secondo capitolo della gītā, a mio avviso uno tra i più belli e tra i più carichi di meravigliose allegorie dell’intera opera.
Il primo tema toccato da Kṛṣṇa è quello della trasmigrazione e dell’indistruttibilità dell’anima.
L’essere supremo spiega infatti al dubbioso Arjuna come lo stesso non debba preoccuparsi di scontrarsi in battaglia contro i suoi familiari, perché:

“Come in un dato corpo, infanzia, giovinezza, vecchiaia toccano in sorte a un’anima incorporata, cosi questa acquisisce successivamente altri corpi. Il saggio non si inganna su ciò” (II:13)

“Ora, riconosci come indistruttibile tutto ciò da cui questo universo è nato. Di ciò che non è immutabile nessuno potrebbe provocare la distruzione.
Questi corpi hanno una fine; lo spirito che vi si incarna è eterno, indistruttibile, incommensurabile.
E perciò combatti, discendente di Bharata” (II: 17,18)

“Alla maniera di un uomo che ha abbandonato le vesti usate e ne prende altre, nuove, l’anima incarnata, abbandonando il proprio corpo usato, si trasporta in altri che sono nuovi” (II:22)

Dopo questa spiegazione sul destino eterno e indistruttibile dell’anima Kṛṣṇa passa a ricordare ad Arjuna il suo dharma/svadharma, (qui intenso come dovere nei confronti della sua casta Kṣatriya di appartenenza e verso le leggi e i doveri dello Stato) e quali conseguenze nefaste gli spetterebbero nel caso di un’eventuale ritirata o fuga dallo scontro.

Citando i versi emanati dallo stesso Kṛṣṇa:

“E considera anche il tuo dovere di Stato: non dovresti, tremando, appartarti, poiché per l’uomo di guerra, secondo la legge sacra del suo Stato, non vi è bene superiore della battaglia. (II: 31)

“Ma se non ti impegni in questo giusto combattimento, rinunci al tuo dovere di Stato, all’onore e ti poni nel peccato.
E inoltre la gente narrerà il tuo imperituro disonore e, per l’uomo rispettabile, il disonore è peggio della morte” (II: 33,34)

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

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