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venerdì 21 dicembre 2018

Bhagavadgītā, parte II

Pur essendo un compito tutt’altro che semplice (vista la già citata mole di versi ed eventi che si intercorrono nell’opera e non essendo questo il testo preso direttamente in esame) cercheremo di gettare le linee estremamente generali della trama, funzionali per un inquadramento contestuale.
La guerra, come abbiamo già premesso, è il fulcro, il cuore palpitante e il terreno dove i protagonisti del Mahābhārata poggiano il loro essere, che sarebbe meglio definire il loro “Ātman”.

L’opera è infatti diretta espressione dell’etica e del codice morale e guerriero degli Kṣatriya, la seconda tra le caste più importanti e riverite all’interno della millenaria divisione gerarchica (probabilmente retaggio dell’invasione subita da parte delle popolazioni Ariane) delle antiche genti dell’India; preceduta solo dalla casta dei Brahmani, i sacerdoti, e superiore alle caste dei mercanti (Vaiśya) e dei servitori (Shudra). Districandoci tra le innumerevoli śloka veniamo a conoscenza degli attriti e del vero e proprio scontro che interviene tra due schieramenti, accomunati a livello parentale dal grado di cuginanza e appartenenti allo stesso nucleo dinastico: I Kaurava (ossia i diretti discendenti di Kuru) e i Pandava (cioè i 5 figli di Pandu, tra i quali figura anche il protagonista della Bhagavadgītā, il nobile Arjuna).

Dopo una contorta e avvincente serie di tradimenti, incendi, complotti, esili e interventi divini (impossibile, a mio parere, non far tornare alla memoria le già citate epiche gesta trattate da Omero nell’Iliade) si arriva all’ormai inevitabile scontro fisico tra i due clan belligeranti. La località predestinata a questo titanico scontro è Kurukṣetra (Campo dei Kuru), una regione situata a Nord-Est della moderna città di Delhi. 
La datazione dello scontro può essere fatta risalire (prendendo come fonte la tradizionale cronologia Hindu) tra il 3193 e il 3138 a.C. e vede una durata complessiva di 18 giorni. Sul campo appare un dispiegamento composto da 18 armate (aksauhini), undici sono schierate dalla parte dei Kaurava mentre 7 sono comandate dai Pandava.
Ogni armata aveva un enorme numero di carri ed elefanti (21.870 di entrambi) 5.610 cavalli e 109.350 fanti mentre le armi maggiormente utilizzate furono l’Arco (arma prediletta da Arjuna, il temibile Gandhiva), mazze, lance e spade. 

Prima di abbandonare (ci torneremo più avanti per constatare la conclusione dell’epica saga e per una curiosità) questa iniziale esposizione dei caratteri generali presentati dal Mahābhārata e , tornando a premere sull’etica guerriera della casta Kṣatriya, credo sia interessante citare alcune delle regole di guerra (Dharma-yuddha) imposte dalle due fazioni per far sì che la guerra potesse essere fatta rientrare all’interno dei criteri di giustizia e lealtà.
 
“La battaglia deve iniziare non prima dell'alba e concludersi esattamente al tramonto.
Più guerrieri non possono attaccare un singolo combattente.
Due guerrieri possono cimentarsi in "duello", ovvero indugiare in prolungati combattimenti personali, solo se entrambi utilizzano le stesse armi e lo stesso mezzo di trasporto (un cavallo, un elefante, un carro, o nessuno di essi). 
Nessun guerriero può uccidere o ferire un nemico che si sia arreso.
Chi si arrende diviene un prigioniero di guerra ed uno schiavo.
Nessun guerriero può uccidere o ferire un combattente disarmato.
Nessun guerriero può uccidere o ferire un combattente che abbia perso i sensi.
Nessun guerriero può uccidere o ferire una persona o un animale che non prenda parte alla guerra.
Nessun guerriero può uccidere o ferire un combattente che sia posizionato di spalle.
Vanno seguite le regole specifiche di ciascuna arma; ad esempio, nei combattimenti con la mazza è proibito colpire sotto la cintola.
I guerrieri non possono cimentarsi in qualsiasi tipo di combattimento ingiusto o sleale.” 

Non credo eccessivamente azzardata ma anzi, spero stimolante (con l’obbligo pressoché implicito di prendere le dovute precauzioni del caso e le dovute differenze di contesto) fare un breve paragone tra le regole del Dharma-Yuddha e la trattazione che il noto giurista, filosofo e politico teutonico Carl Schmitt analizza all’interno del suo saggio “la Teoria del Partigiano” (1963).
Qui il giurista di Plettenberg prende in analisi le regole della guerra Europea e la divisione tra quegli enti militari considerati “Regolari” (e che quindi muovono guerra conformandosi a regole specifiche, approvate a priori dagli stati Europei e nate dagli eventi dettati dal Congresso di Vienna del 1814-15 e dalla convenzione internazionale dell’Aja del 1907) e gli “Irregolari” ossia i partigiani, tutti colori che di tale regola si fanno beffe e che quindi non meritano nessun tipo di rispetto o pietà da parte degli eserciti regolari ; singolare in tal senso l’espressione che Napoleone Bonaparte usa per chiarire definitivamente questo concetto: 

“Il faut opérer en partisan partout où il ya des partisans” (Dovunque ci siano partigiani bisogna combattere alla partigiana)

E sarà lo stesso Schmitt a dare un’appropriata definizione della situazione Europea del tempo: 

“Oggi si chiama diritto di guerra classico, ed è indubbiamente un nome meritato. Stabilisce infatti chiare distinzioni – innanzitutto tra stato di guerra e stato di pace, fra combattenti e non combattenti, fra nemico e criminale comune. La guerra è condotta da Stato a Stato come una guerra di eserciti regolari, statuali, fra due depositari sovrani di uno jus belli, che anche in guerra si rispettano come nemici e non si discriminano vicendevolmente come criminali”

Saverio Diomedi, in collaborazione con "Le vie di Wodanaz"

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