“Il prestigio del cervo nel simbolismo non è semplicemente connesso al suo aspetto - bellezza, grazia, agilità - ma anche al fenomeno del ciclo di crescita e rigenerazione del suo palco di corna. Quest’ultimo aspetto è profondamente interiorizzato dalla mente dei contadini neolitici. Il palco di corna cervide svolge un ruolo importante […] . Il ruolo del cervo nel mito dell’Antica Europa non è una invenzione dei contadini neolitici. L’importanza della cerva gravida deve essere stata ereditata da un’epoca preagricola. I popoli nordici nello stadio della caccia credono ancora che la madre dell’universo sia una cerva-alce o un a renna-cerva. I miti parlano di donne gravide che governano il mondo ed hanno le sembianze di cervi: coperte di pelo e con palchi di corna ramificate in testa” (4).
Ci troviamo quindi di fronte a un simbolo “totemico” antichissimo e soprattutto comune in tutta Europa. Non solo, la figura del cervo è ancora ampiamente utilizzata e centrale anche durante l’epoca romana, infatti l’animale è sacro alla dea Diana, protettrice, tra le altre cose, dei boschi e della vita selvatica. Una leggenda narra che quando l’esercito romano pose d’assedio l’antica città Capua, questa riuscì a resistere finché dal monte Tifata, luogo su cui sorgeva l’importantissimo tempio di Diana Tifatina, non scese un cervo bianco, simbolo e totem della dea, che si prostrò al generale romano facendosi uccidere. Questa uccisione mitica, ritualizzata e sacra ci riporta a un’altra ulteriore similitudine morfologica tra il mito del Cervo di Castelnuovo e il culto di Diana e cioè con il racconto che fa Frazer ne “Il Ramo D’Oro”, della figura del Rex Nemorensis. Il Rex Nemorensis era un re-sacerdote che viveva nel tempio di Diana presso il lago di Nemi (vicino Roma), la Diana Nemorensis (da nemur > bosco o piú precisamente bosco sacro) ha affinitá precise con la Diana Tifatina, infatti anche il termine “tifat” indica un bosco di lecci (5). Il Rex Nemorensis custodiva e difendeva il tempio all’ombra di una grossa quercia sacra e brandiva costantemente una spada perché la successione tra vecchio e nuovo re-sacerdote (di solito uno schiavo liberato) avveniva con un omicidio rituale: il nuovo re-sacerdote riusciva a diventare tale solo dopo aver ucciso il vecchio. Queste implicazioni cruente di morte e rinascita sono assimilabili alla morte e resurrezione rituale del Cervo nella pantomima di Castelnuovo ed hanno quasi sicuramente una comune radice sciamanica e arcaica: anche il Cervo di Castelnuovo muore solo nella misura in cui è già assicurata la nuova ri-nascita, proprio come il Rex Nemorensis che muore solo ad opera di chi prenderà immediatamente il suo posto in un ciclo continuo, circolare e non lineare, secondo una visione del tempo tipica del mondo antico.
Ma esiste anche un altro ambito di connessioni morfologiche e di analogie che risultano ancora piú interessanti da mettere a confronto e da analizzare che ci riportano direttamente al mondo celtico/germanico. Infatti sul cosiddetto Calderone di Gundestrup, un manufatto risalente al II secolo aC ritrovato in una torbiera dell’Himmerland nel nord della Danimaca nel 1891, è raffigurato un Uomo Cervo che brandisce un serpente, attorniato da animali selvatici, tra cui anche un cervo: la somiglianza con il Cervo di Castelnuovo è impressionante. L’essere mitico raffigurato sul calderone è il dio Cernunno, divinitá con corna cervine e rivestito di pelliccia animale, deputata alla vita selvatica, ai boschi e al ciclo delle stagioni. Il culto di Cernunno (o anche Kernunnos) era diffuso in tutto il mondo celtico e sempre sul Calderone di Gundestrup troviamo incise delle piccole figure tripuntute che assomigliano a tre piccoli funghi uniti al gambo, dalla forma del cappello è possibile tracciare delle similitudini con funghi psicoattivi del genere psylocibe, il che ci fa supporre una relazione tra i riti legati al mondo dei boschi e della natura selvaggia impersonata da Cernunno e l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo religioso-rituale, ipotesi che è stata formulata da numerosi archeologi ed etnobotanici anche per quanto riguarda alcuni calderoni unni e al loro utilizzo rituale in cerimonie che prevedevano l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo estatico-sciamanico. (6)
Proprio questo particolare ci ha riportati alla mente un aneddoto raccolto durante il lavoro di ricerca ambientato poco più a nord della zona delle Mainarde e cioè in Abbruzzo all’inizio del ‘900. Abbiamo raccolto il racconto di una donna che di ritorno dalla montagna all’improvviso ebbe una visione: vide un grosso calderone, ripieno d’oro e ricoperto da una pelliccia, corse quindi a prendere l’oro, ma si accorse immediatamente che dalla cima di una roccia un essere munito di corna (che la protagonista ha associato al diavolo per un chiaro transfert di carattere culturale) l’aveva puntata e stava correndo verso di lei che si diede alla fuga per evitare l’incontro. Risulta stupefacente la presenza di similitudini archetipe tra il racconto di questa “visione” e l’universo mitico celtico: (a) visione estatica, (b) calderone, (c) oro, (d) pelliccia, (e) essere cornuto e furente. Una serie di connessioni e di similitudini che sembrano provenire da un unico universo mitico ma possiamo ancora continuare.
Ma esiste anche un altro ambito di connessioni morfologiche e di analogie che risultano ancora piú interessanti da mettere a confronto e da analizzare che ci riportano direttamente al mondo celtico/germanico. Infatti sul cosiddetto Calderone di Gundestrup, un manufatto risalente al II secolo aC ritrovato in una torbiera dell’Himmerland nel nord della Danimaca nel 1891, è raffigurato un Uomo Cervo che brandisce un serpente, attorniato da animali selvatici, tra cui anche un cervo: la somiglianza con il Cervo di Castelnuovo è impressionante. L’essere mitico raffigurato sul calderone è il dio Cernunno, divinitá con corna cervine e rivestito di pelliccia animale, deputata alla vita selvatica, ai boschi e al ciclo delle stagioni. Il culto di Cernunno (o anche Kernunnos) era diffuso in tutto il mondo celtico e sempre sul Calderone di Gundestrup troviamo incise delle piccole figure tripuntute che assomigliano a tre piccoli funghi uniti al gambo, dalla forma del cappello è possibile tracciare delle similitudini con funghi psicoattivi del genere psylocibe, il che ci fa supporre una relazione tra i riti legati al mondo dei boschi e della natura selvaggia impersonata da Cernunno e l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo religioso-rituale, ipotesi che è stata formulata da numerosi archeologi ed etnobotanici anche per quanto riguarda alcuni calderoni unni e al loro utilizzo rituale in cerimonie che prevedevano l’utilizzo di funghi psicoattivi a scopo estatico-sciamanico. (6)
Proprio questo particolare ci ha riportati alla mente un aneddoto raccolto durante il lavoro di ricerca ambientato poco più a nord della zona delle Mainarde e cioè in Abbruzzo all’inizio del ‘900. Abbiamo raccolto il racconto di una donna che di ritorno dalla montagna all’improvviso ebbe una visione: vide un grosso calderone, ripieno d’oro e ricoperto da una pelliccia, corse quindi a prendere l’oro, ma si accorse immediatamente che dalla cima di una roccia un essere munito di corna (che la protagonista ha associato al diavolo per un chiaro transfert di carattere culturale) l’aveva puntata e stava correndo verso di lei che si diede alla fuga per evitare l’incontro. Risulta stupefacente la presenza di similitudini archetipe tra il racconto di questa “visione” e l’universo mitico celtico: (a) visione estatica, (b) calderone, (c) oro, (d) pelliccia, (e) essere cornuto e furente. Una serie di connessioni e di similitudini che sembrano provenire da un unico universo mitico ma possiamo ancora continuare.
Nel mondo germanico continentale - come anche in quello scandinavo - il cervo “è animale di simbologia solare poiché le sue corna che perennemente si rinnovano (emblema dell'eternità) sono considerate corrispettive dei raggi del sole dotati di virtù vivificanti. […] Il cervo è altresì strettamente legato all’albero cosmico Yggdrasyl. Al pari di esso infatti partecipa ai tre strati dell’essere: le zampe toccano la terra, il corpo appartiene al mondo di superficie, le corna ramificate sono come le fronde che si protendono nel cielo. Secondo il racconto di Snorri quattro cervi saltano tra i rami di Yggdrasyl e ne brucano le foglie: essi sono Dainn (Morto), Dvalinn (quello che indugia), Duneyrr (quello che fa rumore sul terreno ghiaioso), Duradror (cinghiale sonnacchioso). Legate al cervo sono anche la figura e la vicenda di tale Dorir, grande adoratore pagano soprannominato cervo (hjortr). Re Olaf Tryggvason lo aveva sconfitto in battaglia ed egli si era dato alla fuga. Uno degli uomini del sovrano aveva scagliato una lancia contro di lui ed egli era caduto a terra moribondo. Dal suo corpo era uscito allo un grosso cervo.” (7).
Ancora una volta quindi il cervo come simbologia positiva e solare legata al mondo dei boschi, ancora una volta una morte e resurrezione sotto le sembianze di un cervo, ma è veramente possibile intravedere un tratto di unione tra il Cervo di Castelnuovo e il mondo celtico? Il realtà la congettura è meno azzardata di quanto possa sembrare a prima vista e a darci una traccia sono alcune iscrizioni sannite risalenti al tempo della I Guerra Sannitica (343-341 aC) in cui si dice a chiare lettere che l’esercito sannita che si accingeva a scontrarsi contro quello romano, fu benedetto da un collegio sacerdotale composto da sacerdoti autoctoni e da druidi celti. Il rapporto quindi tra le genti appenniniche e quelle di stirpe celtica che popolavano le terre un po più a nord è verificato da iscrizioni risalenti almeno a 300 anni prima della nostra era, celti e osco-sanniti, forse anche grazie al mondo nomadico-pastorale, si sono quindi incontrati già in tempi antichissimi.
Pubblicato su gentile concessione dell'autore Massimiliano Palmesano, amministratore della pagina FB Janara
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