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sabato 19 maggio 2018

Su Vikings e sulla Ragnarssaga


Deyr fé, deyja frændr, | Muore il bestiame, muoiono i parenti,
deyr sjalfr it sama, | morirai anche te egualmente,
ek veit einn at aldrei deyr: | ma conosco una cosa che non muore mai:
dómr um dauðan hvern. | la reputazione di chi è morto.



Nell’epoca in cui tutto è merce, in cui ogni azione è solita essere pesata in vista di un possibile guadagno persino le sorti delle passate genti non sono al sicuro.
La Storia così come le antiche religioni divengono infatti terreni fertili per un nuovo tipo di marketing; è così che negli ultimi anni sono sorte una miriade di serie televisive a tema storico. Fra queste le più gettonate sono quelle ambientate nel Medioevo e nel Tardo antico; prima fra tutte è Vikings, serie co-prodotta da Irlanda e Canada.

Nelle sue prime quattro stagioni viene proposta e stravolta la Ragnarssaga loðbrókar, saga germanica incentrata sulla figura di Ragnarr Sigurðsson che succedendo al padre Sigurðr Hringr divenne in giovane età re di Danimarca e Svezia.
A differenza dei medievalismi di metà ‘900 - esempio principe ne è ‘Il Signore degli Anelli’ di John Ronald Reuel Tolkien - nei quali la Storia veniva presa ad esempio per la creazione di un èpos mitologico narrativo completamente nuovo, Vikings irrompe sulla scena internazionale come narrazione storiografica e così dai più viene accettata, non soltanto da spettatori anonimi ma dalla stessa critica.
Il Wall Street Journal, in un articolo di Smith DeWolf, ne ha evidenziato l’autenticità di ambientazioni e costumi asserendo che essa stessa sia “uno studio di carattere, resistenza, potenza e [...] di risveglio sociale, emotivo e persino intellettuale” concentrandosi sulla contrapposizione quasi dantesca fra la sete di conoscenza del protagonista ed il suo desiderio di conquista. Inutile dire che la prima sembri prevalere sulla seconda quasi come a svilire l’essere guerriero; eppure nulla di tutto ciò trova riscontro nella Ragnarssaga. Il “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” non ha infatti alcun posto nella Ragnarssaga. Ribadisco questo concetto non certo per asserire che il figlio di Sigurðr fosse un cane incivile - ricordiamo che lo stesso Odino che Ragnarr venerava sacrificò il suo occhio per poter bere alla fonte di Mímir divenendo così onnisciente - ma per far presente che la narrazione della sua vita sotto forma di saga aveva come unico scopo il trasmetterne le gesta al fine di creare uno strato di consuetudini al quale le genti potessero far riferimento. L’èpos è per definizione didascalico; in esso sono infatti raccolti gli usi e le consuetudini, la Storia e la Religione delle genti che ne sono protagoniste. L’èpos è quindi un’estensione imperitura del popolo che ivi viene descritto così come è la garanzia di eterna fama per il suo protagonista; non è certo un’opera atta a propagandare messaggi politici.
Violarne l’essenza porta a violarne la sacralità sua e dei protagonisti suoi rendendola un tristo e vile vessillo di modernità.

Seguiranno una serie di articoli nei quali verranno analizzate con occhio critico le varie tematiche trattate nella serie.

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