Cosa significa oggi, nel secolo
ventunesimo primo dell’era comune, seguire la via antica e adorare
gli antichi Dèi?
E’ una domanda complessa, che non ha, ve lo
dico fin da subito, una risposta univoca e valida per tutti.
Solo i monoteismi si nutrono di
certezze assolute, dottrine granitiche e concetti semplici, per chi
vive le vie antiche le cose sono più complesse, si tratta di
percorsi che richiedono un forte impegno ed un perenne lavoro da
effettuare su sé stessi e sul proprio rapporto con gli Dèi.
Si tratta di saper distinguere ciò che è vero da ciò che è stato corrotto, dal tempo o dalla civitas che, in tutte le sue forme, ha concorso a togliere all’uomo la sua componente originaria, ad allontanarlo da tutto ciò che è davvero bello e sacro.
Gli Dèi sono ovunque, ogni popolo ha i propri ed ogni tribù li interpreta a suo modo, talvolta corrompendoli come accadde a coloro che caddero prede della civitas, diffusasi a partire dagli ultimi cinquemila anni in tutta la nostra terra di mezzo.
La perdita del senso del sacro, e la conseguente volontà di recuperare il rapporto perduto, è comune a tutti i popoli indoeuropei ed asiatici, specialmente fra quelle che più a lungo hanno resistito all’avanzare della società urbana, primaria espressione di quella civitas di cui sopra.
Le tribù germaniche, mongole, slave, scite, ugrofinniche e sao, solo per fare alcuni esempi, resistettero ben più a lungo di altre preservando la società tribale ed i veri Dèi più a lungo ed in forma assai meno corrotta di altre, spesso più note e celebrate, realtà.
Questo perché la civitas, in ogni sua forma, celebra in primo luogo sé stessa tacciando di barbarie chiunque vi si opponga e distruggendo ogni cosa sul suo cammino.
Il monoteismo, nelle sue varie
declinazioni, è uno dei suoi mezzi più potenti, dove arriva
distrugge ogni cosa, l’Europa, l’Asia, l’Africa e le Americhe
hanno pagato a caro prezzo questa opera di civilizzazione, culture
millenarie sono state distrutte e ridotte in pezzi, sacrificate
sull’altare del Dio del deserto.
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